lunedì 30 settembre 2013

La nave del capitalismo

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In Melville parla il futuro anteriore
di SANDRO CHIGNOLA

Scritto tra il `52 e il `53, mentre Cyril Lionel Robert James si trovava rinchiuso a Ellis Island come "undesiderable alien" in attesa di espulsione dagli Usa, il libro su Melville (Marinai, rinnegati e reietti. La storia di Herman Melville e il mondo in cui viviamo, con postfazioni di Bruno Cartosio e Gianni Mariani e una nota biografica di Enzo Traverso, Ombre Corte, € 14,50), si inserisce a pieno titolo nella discussione inaugurata qualche anno prima da F. O. Matthiessen, che in American Renaissance (1941) aveva rintracciato il tratto distintivo dei grandi scrittori americani nella loro adesione alle idee di democrazia e di libertà, dando così l'avvio a una febbrile attività interpretativa dalle non troppo dissimulate intenzioni politiche. Per C. L. R. James, scrittore nero, militante panafricanista e teorico diventato marxista, a suo dire, grazie alla contemporanea influenza di due libri, La storia della rivoluzione russa di Trotzkij e Il tramonto dell'Occidente di Spengler, e quindi non facilmente permeabile da suggestioni sull'immediata espansività del sogno americano, Moby Dick travalicava ampiamente, per la sua grandezza, i limiti del romanzo moderno. E poiché proponeva la tragedia di un intero ordine sociale e culturale - non quella di un singolo individuo - poteva essere posto sullo stesso piano dell'Orestea o del Re Lear. Il viaggio sugli oceani del Pequod è il viaggio della civiltà moderna "alla ricerca del suo destino". E' questa dimensione propriamente tragica a fare del microcosmo del Pequod il nostro stesso mondo, "the world we live in", come recita il sottotitolo del libro. Per C. L. R. James, Melville coglie in Moby Dick i primi segni della degenerazione che avrebbe ribaltato la democrazia in totalitarismo, depositandoli in una trama narrativa coniugata al futuro anteriore. In Achab egli rintraccia l'apparizione del moderno dittatore dell'età delle masse, nella ciurma moltitudinaria e meticcia dei marinai i rinnegati e i reietti, l'umanità selvaggia in cui si allacciano i legami sociali della comunità a venire, nel Pequod la metonimica cifra complessiva della fabbrica sociale fordista, in Ismaele - il narratore, cui il critico di Trinidad è uno dei primi a prestare la dovuta attenzione - l'alienato intellettuale contemporaneo, sospeso tra la seduzione del potere e l'esistenza ordinaria, ma "indistruttibile" di un equipaggio anonimo fatto di semplici cittadini del mondo.
Parallelamente alla Dialettica dell'illuminismo di Adorno e Horkheimer (uscita qualche anno prima ad Amsterdam, nel 1947), il libro di C. L. R. James legge il viaggio del Pequod come un'allegoria della civiltà moderna. Il delirio di Achab espone nave ed equipaggio alla totale autodistruzione in cui viene portata a compimento la doppia struttura di dominio del sistema capitalistico. Il Pequod è un sistema di fabbrica, la cui razionalità di scopo Melville, "metodico come un sociologo", restituisce in pagine bellissime ("una baleniera è stata la mia Università di Yale e la mia Harvard", Melville avrà modo di confessare, con parole non dissimili da quelle di chi, nell'Italia degli anni '60, si troverà a riconoscere nella Fiat la propria Università): pagine che raccontano come la meticolosità e l'orgoglio del lavoro vengano compresse ed espropriate da un dispositivo di organizzazione che si spersonalizza nella follia del suo comandante. E, allo stesso tempo, esso è quanto Achab è disposto ostinatamente a sacrificare, in una caccia sin dall'inizio destinata a ritorcersi contro di lui e la sua nave, in un'impresa il cui senso finale è la pura riproduzione del suo potere personale su uomini e cose. La verità della lotta contro la balena sono le bombe di Nagasaki e Hiroshima; è Auschwitz, in cui la creazione demoniaca della borghesia moderna, la civiltà della tecnica, sfugge al controllo e trascina i suoi evocatori nella catastrofe di un naufragio generale, in cui la pretesa di dominio sulla natura (Moby Dick) si rovescia contro coloro che le hanno dato l'avvio.
A differenza di Adorno e Horkheimer, tuttavia - ed è questo il motivo per cui C. L. R. James elegge a motivo centrale della sua interpretazione quella che a molti americanisti è sempre parso essere un narrative minore - lo scontro non è già quello di Achab contro balena (o di Achab e Starbuck), ma quello tra Achab e la ciurma. Marinai, rinnegati e reietti non esaurisce negativamente il proprio sforzo critico nella denuncia del necessario collasso della civiltà occidentale, ma in esso si sforza di recuperare i frammenti di una possibile redenzione futura. Lo sguardo sul romanzo (sulla grande fabbrica fordista e sul sistema di dominio che la percorre e la sostiene) è lo sguardo di un intellettuale nero detenuto a Ellis Island. Che vi sperimenta - come ci viene raccontato nel tormentato settimo capitolo del libro, tolto dalle edizioni successive e poi ripubblicato - non soltanto la personale difficoltà della coerenza da tenere a fronte delle autorità che lo stanno inquisendo e che da lui pretendono un'apologia del sistema americano molto difficile, se non impossibile da pronunciarsi, ma anche, e soprattutto, le autonome linee di comunicazione e di solidarietà tra i migranti, le forme della loro cooperazione globale e sovversiva, la materiale realtà di esistenze che sconfessano la "colossale idiozia" di un'amministrazione, che nei detenuti dell'isola vede semplici "individui isolati in cerca di carità e di una casa negli Stati Uniti. Perché l'America è di certo migliore dei loro paesi d'origine, poveri e arretrati" e non comprende la potenza della loro mobile soggettività.
I marinai, i rinnegati e i reietti di cui si compone la ciurma del Pequod - e le cui biografie reali, si potrebbe ricordare, compongono la trama della storia segreta dell'Atlantico rivoluzionario recentemente ricostruita da Peter Linebaugh e Marcus Rediker (The Many-Headed Hydra. Sailors, Slaves, Commoners and the Hidden History of Revolutionary Atlantic, Boston, 2000) - appartengono al futuro. Questo è ciò che fonda, per C. L. R. James, la loro contemporaneità. Il Pequod e Ellis Island raccontano una stessa storia. Con uno scarto significativo, però. Se la comunità dei "vili marinai" di Melville è tenuta insieme in termini di pura contiguità spaziale solo da una chiglia e dalla mente geniale e folle del suo comandante, se non possiede nemmeno la consapevolezza dell'unità che si realizza nella solidarietà e nel lavoro di bordo e che potrebbe essere attivata contro di lui (è il motivo del perché la ciurma non si ribella ad Achab), quella dei detenuti di Ellis Island - che a differenza degli isolati dannati del Pequod, "sanno tutto", come C. L. R. James si trova a constatare - discutono tra di loro di politica internazionale e confrontano le proprie esperienze di fuga e di lavoro, si passano articoli di giornale e se li traducono gli uni con gli altri, sono in grado di scegliere dove vivere orientandosi tra i diversi dispositivi di legge nazionali. Formano, dunque, una moltitudine consapevole di sé e capace di orientarsi da sola sulle rotte globali di un mondo costruito come aperto dal loro gesto di defezione e di libertà.
La "suprema ironia" di Ellis Island (e forse la segreta morale che solo parlando di lì, da dentro quel centro di detenzione, è dato trarre dall'opera di Melville) è - come scriverà C. L. R. James - che mentre il Dipartimento di Giustizia degli USA, ponendo in contraddizione con se stesso il dettato costituzionale americano, mette in atto una spietata politica anti-immigrazione, i migranti - i marinai, i rinnegati e i reietti che hanno rotto gli ormeggi con i propri paesi di provenienza - "diventano sempre più consapevoli di essere cittadini del mondo", registrando in quella consapevolezza il dato di fatto della propria forza e della propria autonomia.
Nella lunga notte della guerra fredda che segue gli esperimenti totalitari degli anni `30 e `40 e che contrae il sogno americano nel delirio paranoico del senatore McCarthy, solo il gesto di liberazione del prendere il mare e il sistema di rapporti paritario e franco della comunità di fuga dei migranti può segnare uno scarto, per C. L. R. James, nella parabola che fa tocquevillaneamente degenerare la moderna libertà astratta in precondizione di dominio, la cooperazione sociale sorvegliata in mera servitù.

- Sandro Chignola -

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domenica 29 settembre 2013

Guerrieri e pittori

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Picasso e Guernica, hanno oramai dato luogo ad un'associazione di parole inestricabile. Commissionato per il Padiglione della Spagna repubblicana presso l'Esposizione Mondiale che ebbe luogo a Parigi nel 1937, "Guernica" riesce ancora oggi, con il suo linguaggio visuale, a dare forma alla sofferenza umana con una potenza senza pari. Il quadro segnò anche l'inizio di quella che sarebbe diventata una "reputazione"; quella di un Picasso pacifista che sfidava il fascismo e che tale sarebbe rimasto anche durante l'occupazione di Parigi, per poi aderire al Partito Comunista Francese (PCF) al momento della liberazione della città. La storia sarebbe, più o meno, questa: esiliato dalla Spagna e pienamente consapevole dell'entità della minaccia alla civiltà, costituita dai falangisti, Picasso si unì alla "famiglia comunista", diventando una delle voci più forti nella lotta contro la tirannia fascista e capitalista, insieme. Il petto, a questo punto, tende a gonfiarsi, incontrollabile! Ci viene messa a disposizione una bella figura retorica: l'esule dalla sua propria terra, poi l'impeto della ribellione che gli dà voce, e infine l'autocrate depravato che lo condanna al silenzio. Ci si può far rientrare, in questo, Omero ed Hemingway, allo stesso modo. E ce n'è abbastanza perché ci si possa dimenticare che stiamo parlando di un pittore.

PICASSO_ GUERNICA

Ma la storia tende sempre a raccontarsi, in barba anche - e forse soprattutto - alle figure retoriche; così succede che Genoveva Tusell Garcia pubblica uno studio su "The Burlington Magazine" (scaricabile qui), in cui, citando la corrispondenza intercorsa fra il pittore ed il governo del generalissimo Franco, dimostra come - sebbene prevalesse un atteggiamento di ostilità nei confronti di Picasso - alcuni membri del governo consideravano potesse essere vantaggioso addomesticare un po' la sua reputazione e condividere i suoi successi. Perciò, nel 1957, si avvicinarono al pittore per discutere sulla possibilità che le sue opere ritornassero nei musei spagnoli, organizzando anche, per l'occasione, una retrospettiva.
La cosa "straordinaria" sta nel fatto che, non solo Picasso partecipò a questi colloqui, ma accettò in via provvisoria le loro condizioni: "Spero che Franco possa vivere più a lungo di me" - disse, riferendosi "con un misto di ostinazione e tristezza" alla sua posizione politica, considerata come un obbligo. I rappresentanti del regime sapevano bene dove sarebbero andati a finire gli "obblighi di Picasso", se il loro piano fosse andato in porto. La prospettiva che si presentava loro davanti, era quella di "uccidere il mito politico di Picasso". Ma a causa di una fuga di notizie riguardo ai colloqui in corso e per colpa di alcune indiscrezioni che emersero sulla stampa francese (si parlava erroneamente del fatto che perfino il "Guernica" avrebbe fatto un "viaggio in Spagna"), non ci fu alcun seguito.
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Le prove prodotte dalla Garcia, pongono dei seri interrogativi circa il modo in cui viene scritta "la storia", e le domande non sono quelle che ci può aspettare. Perché qui non si tratta di mettere in dubbio le convinzioni di Picasso, il suo odio per il fascismo, o la sincerità che sottende alla realizzazione del "Guernica". Anzi, sono proprio queste certezze a conferire urgenza al bisogno di trattare simili questioni. E la questione riguarda i fatto di come, dopo Pétain e il governo collaborazionista di Vichy, quello che emerse con forza nel panorama politico francese fu una vera e propria "fame di eroi". Il PCF, stalinista, si dovette occupare di svolgere un enorme lavoro di "relazioni pubbliche" per rimpiazzare l'immagine del patto sovietico con i nazisti, per mezzo di tutta una serie di immagini emotive legate alla Resistenza e alla Liberazione. A tal fine, Picasso era come il cacio sui maccheroni: a differenza di molti suoi compagni non poteva essere rigidamente inquadrato negli schemi provenienti da Mosca. Lo zdanovismo non era il gioco di Picasso. Desideroso di trarre profitto dalla sua notorietà, il PCF elaborò un piano che consisteva di due passaggi. Cominciò ad avallare, appropriandosene, una percezione pubblica di Picasso (basata su una presunta "libertà estetica" e sull'impegno per la "pace"); ma non la sua arte. Il partito separava l'uomo dal suo lavoro. Insomma, Picasso era l'artista più famoso del mondo, ed era un comunista. Solo che la sua arte era irrilevante per la sua politica. E la sua politica era determinata dall'affiliazione al Partito e alla potente macchina di propaganda.
Tutto quanto questo, di fatto, è sopravvissuto allo scorrere della storia e, ancor oggi, ha deformato il nostro giudizio. In tutti questi anni, è stato continuamente riciclato dagli studiosi che invece cercavano di estrarre l'arte di Picasso da un contesto politico che ritenevano sgradevole e cercando di risolvere il gap che separava l'uomo dalla sua opera, innalzando la sua opera al livello del mito. Si sono bevuti la storiella del Partito che faceva di Picasso un guerriero della "guerra fredda", ed hanno allucinato, nelle sue ultime opere, un impegno che si sarebbe svolto sotto forma di allusioni ad eventi globali e a cause umanitarie. L'impegno personale di Picasso è provato dalle lettere che riceveva - e cui raramente si prendeva la briga di rispondere.

sabato 28 settembre 2013

Non mandarmi più rose!

Eric Ambler

Quello che segue, forse è uno dei primi riconoscimenti pubblici tributato ai situazionisti. Sebbene in maniera non proprio incensante, Eric Ambler ha il buon gusto di collocare la citazione dentro un'avventura romanzesca - una classica spy story. Insomma, un contesto senza dubbio degno degli "sfortunati filosofi sociali".
 
 "Che tipo di anarchico?
Beh, di una cosa possiamo essere certi. Non sarà uno stupido. Non avrà a cuore le opere dell'ineffabile Marcuse, né permetterà a sé stesso di essere turbato dai deliri di quegli sfortunati filosofi sociali, quei paladini dei lecca-lecca, Raoul Vaneigem e Guy Debord. Non crederà né nella Società dello Spettacolo né nell'Intervento Situazionista. Non trasporterà bombe dentro sacchetti di plastica per la spesa. Ma il suo pensiero tattico avrà molto in comune con quello di alcuni dei meglio disciplinati gruppi di guerriglia - quelli che lavorano confondendo i controlli burocratici e che sfruttano a loro profitto la confusione che ne risulta. Sia che si tratti di vantaggio ideologico, o unicamente finanziario , è questione che non di deve riguardare. Il primo passo è quello di riconoscere la natura delle difficoltà che dovremo affrontare. Nella giungla della burocrazia internazionale , inclusa quelle delle corporazioni multinazionali, c'è sempre un bel po' di sottobosco nel quale uomini capaci possono nascondersi e da cui possono portare attacchi. Il compito di coloro che cercheranno di stanarli non sarà per niente facile."
 
da "Non più rose" ("Send No More Roses") di Eric Ambler - 1977 -

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venerdì 27 settembre 2013

il gioco è finito!

keynes capitalismo

FINE DEL GIOCO
ovvero Perché la svalutazione generale del denaro è solo questione di tempo

di Claus Peter Ortlieb (agosto 2013)

« E' proprio il ripetersi delle crisi, ad intervalli regolari, nonostante tutti gli avvertimenti del passato, che esclude l'idea che la causa ultima delle crisi stesse si possa essere ricercata nella disonestà di pochi individui. Se, alla fine di un dato periodo di commercio, la speculazione appare come il precursore immediato della crisi, non bisogna dimenticare che tale speculazione è nata, essa stessa, nel corso delle fasi precedenti del periodo di cui parliamo e che essa ne rappresenta perciò un risultato, una manifestazione, e niente affatto la causa ultima o l'essenza. Gli economisti che pretendono di spiegare con la speculazione le convulsioni periodiche dell'industria e del commercio, assomigliano a quella scuola, oramai scomparsa, di filosofi della natura che consideravano la febbre come la causa di tutte le malattie. »
 
- Karl Marx, « The Trade Crisis in England », New York Daily Tribune, 15 dicembre 1857 -


A quanto pare, anche 130 anni dopo Marx, la grande maggioranza degli economisti continua a considerare « la febbre come la vera causa di tutte le malattie ». A sentir loro, la crisi nella quale ci troviamo ancora immersi avrebbe avuto inizio nel 2008 con il crack finanziario conseguente al fallimento della Lehman Brothers. La causa sarebbe stata quindi una crisi del sistema bancario, per cui i titoli finanziari si sarebbe ritrovati, dal giorno alla notte, praticamente senza valore. Per evitare il collasso completo del sistema finanziario, gli stati sono andati in soccorso delle banche utilizzando il denaro dei contribuenti. Lo scoppio delle bolle speculative avrebbe dato luogo inoltre ad una grave recessione nell'economia reale. Per farvi fronte, nel solo 2009, sono stati messi a punto in tutto il mondo dei piani di rilancio governativi, per un totale di circa 3 miliardi di dollari, che avrebbero permesso - con l'eccezione, purtroppo, dei soli paesi sud-europei - di evitare una depressione comparabile a quella degli anni '30 del novecento.
Da allora, ci confrontiamo con una « crisi del debito » in un contesto di rallentamento costante dell'economia, e fra "neoliberisti" e "Keynesiani" infuria una disputa su cosa fare in una simile situazione. Mentre la dottrina dominante, radicalmente orientata sul mercato, considera, riferendosi ad una storia della crisi che si riduce solo agli avvenimenti posteriori al 2008, che « noi abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi » e che dobbiamo combattere il debito pubblico ispirandoci al modello microeconomico del "bilancio casalingo"; i macroeconomisti keynesiani - quanto a loro - si riferiscono al premio Nobel Paul Krugman e ai suoi lavori: « “E' in una fase di espansione, non di rallentamento, che bisogna applicare l'austerità.” Oggi, lo Stato deve spendere di più, non di meno, fino a quando il settore privato sarà in grado di riprendere il suo ruolo di motore dell'economia. » In questa situazione, gli avversari hanno molti più punti in comune di quanto non potrebbe sembrare. In quanto - a differenza di Marx - sia in un campo che nell'altro, sono entrambi privi del concetto di crisi sistemica e considerano gli innegabili fenomeni di crisi come unicamente riconducibili alla cattiva condotta di alcuni attori economici: l'uscita dalla crisi, pertanto, sarebbe solo una questione di tempo e di scelta dei giusti mezzi.
Nei manuali di economia neoclassica, la parola "crisi" è generalmente introvabile. Non può esistere crisi, perché secondo questa dottrina - perturbazioni passeggere a parte - i mercati sono sempre e dappertutto in equilibrio, in altre parole la domanda e l'offerta si integrano perfettamente; e se per caso i fatti empirici non lo confermano, si tratta solo di influenze esterne al mercato che necessitano, di conseguenza, di essere eliminate, giustificando così, per esempio, una politica di austerità volta a ristabilire la "competitività".
Il keynesismo, invece, conosce la situazione di crisi e la definisce, come annotava Keynes negli anni '30, in termini di « stato di attività cronicamente inferiore al normale che si prolunga per un tempo considerevole senza che si verifichi una marcata tendenza alla ripresa o al collasso completo ». Tuttavia: « Sappiamo perfettamente quali decisioni politiche avrebbero dovuto essere prese, sia grazie all'analisi di Keynes e dei suoi contemporanei che grazie ad una vasta gamma di ricerche e di studi susseguenti. Questi lavori ci dicono esattamente cosa dobbiamo mettere in atto per combattere il male che stiamo subendo » (Krugman). Come si può vedere, anche per Krugman la crisi in quanto stato permanente non esiste, se non quando i politici non fanno quello che dovrebbero fare, o quando non fanno niente ; ed è questo il maggior rimprovero che il suo libro muove alla politica, in particolare alla politica tedesca. Va anche notato che la giustificazione delle misure keynesiane può fare a meno praticamente di qualsiasi spiegazione preventiva delle cause della crisi. Le crisi appaiono come dei semplici incidenti che colpiscono, di tanto in tanto, l'attività economica; ma noi sappiamo bene come porvi rimedio.
In tutti questi economisti, l'assenza del concetto di crisi sistemica deriva dalla scarsa comprensione del significato e dello scopo dell'economia capitalista; scarsa comprensione che si ritrova nelle introduzioni di più o meno tutti i manuali di macroeconomia. Non si parla affatto di capitalismo; si sostiene, piuttosto, che dall'età della pietra fino ad oggi, l'economia ha sempre avuto come fine la produzione ed il consumo di beni che purtroppo diventano oramai sempre più rari, questo spiega perché tutto il mondo non può avere tutto ciò che vuole. Ora quello che ogni ragazzino sa, è che non sono i beni ad essere rari, bensì il denaro che permette di comprarli, e che l'obiettivo di qualsiasi attività economica capitalista è solo quello di trarre da una somma di denaro, una somma di denaro maggiore, mentre la soddisfazione dei bisogni rappresenta, tutt'al più, un effetto secondario, certo auspicato, ma non sempre realizzabile. Solo gli economisti non sono a conoscenza di questo. In tal senso, si può considerare l'insegnamento della macroeconomia come uno sforzo volto ad estirpare sistematicamente dalla testa degli studenti quel sapere che ha già fatto sospirare tanti imprenditori - i quali avrebbero fatto meglio a leggere Marx, perché almeno così avrebbero capito come funziona il capitalismo.
Indubbiamente, quello che distingue la critica marxiana dell'economia politica è l'aver messo in evidenza il fatto che il capitalismo è un modo di produzione che poggia su de forme di ricchezza: oltre alla ricchezza materiale concreta, conosciuta da tutte le forme sociali, il capitalismo presenta una seconda forma di ricchezza che Marx chiama "Valore", una forma astratta e dominante che è espressa dal denaro e che è misurata dal tempo di lavoro. La valorizzazione del capitale ha come fine quello di moltiplicare tale ricchezza astratta; importa poco che ci arrivi, fabbricando bombe o scarpe per bambini, ma non può fare del tutto a meno della produzione di ricchezza materiale, benché ciò non sia altro che un effetto secondario e non l'obiettivo di tutta l'operazione, che consiste unicamente nel creare del plusvalore. L'economia politica prima di Marx, e la dottrina macroeconomica dopo di lui, hanno identificato, puramente e semplicemente, queste due forme di ricchezza con "la ricchezza in sé", perdendo così di vista la specificità storica del modo di produzione capitalista. A partire da questo, le crisi associate a questo modo di produzione diventano inevitabilmente degli oggetti misteriosi.
Il concetto di crisi sistemica elaborato da Marx si fonda, grosso modo, sull'idea che le due forme di ricchezza capitaliste sono suscettibili di entrare in conflitto fra loro, e che questo conflitto non solo si ripete ma si accentua sempre di più. Così come la moltiplicazione della ricchezza astratta necessita della produzione e della vendita della ricchezza materiale, riuscire a valorizzare e ad accumulare il capitale presuppone la crescita costante della produzione materiale e dei mercati. Ma non appena l'offerta di beni, sempre crescente e per principio illimitata, si trova davanti solo ad una domanda limitata insolvente, il processo di valorizzazione entra in crisi. Ne risulta una sovrapproduzione - ciò a dire merci invendibili - e una sovraccumulazione - ciò a dire una capacità di produzione che non può essere pienamente utilizzata, licenziamenti di massa, chiusura di imprese e fuga di capitali, ed il capitale non più valorizzabile cerca rifugio nella speculazione.
La ricorrenza di queste crisi nella storia del capitalismo non ha niente a che fare con "l'eterno ritorno", ma deriva dal fatto che entrambe le forme di ricchezza divergono sempre più l'una dall'altra, nella misura in cui aumenta la produttività. Un fenomeno che Marx chiamava "contraddizione nel processo": « Il capitale è esso stesso la contraddizione nel processo, in quanto si sforza di ridurre i tempi di lavoro ad un minimo, mentre dall'altro lato pone i tempi di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. » Il capitale si basa sullo sfruttamento del lavoro, ma allo stesso tempo espelle poco a poco il lavoro dal processo di produzione, distruggendo così la sua propria base. I tempi di lavoro sono la misura del valore, la produttività crescente ha come conseguenza che l'ottenimento di questa stessa ricchezza astratta necessita di produrre e vendere in quantità sempre più grandi. E' per questo che le crisi si aggravano e si estendono sempre più, sia nel tempo che nello spazio: « La produzione capitalista tende incessantemente ad oltrepassare questi limiti che sono immanenti, ma non riesce ad ottenerlo se non impiegando dei mezzi che, di nuovo, e su una scala più grande, innalzano davanti ad essa le medesime barriere. La vera barriera alla produzione capitalista, è lo stesso capitale »

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L'ultima volta che il capitale è stato in grado di conformarsi, su larga scala, a questo obbligo di espansione è stato all'indomani della seconda guerra mondiale, durante il boom fordista "età dell'oro del capitalismo" (Eric J. Hobsbawm) e, allo stesso tempo, del keynesismo. Appoggiandosi, allo stesso tempo, su legioni di lavoratori industriali alla catena e sul consumo di massa, il fordismo esigeva non solo un aumento significativo dei salari ed il potenziamento del sistema di protezione sociale, ma anche degli investimenti da parte dello Stato nelle infrastrutture e nel sistema educativo. In tale fase d'espansione, le fluttuazioni congiunturali possono effettivamente essere compensati per mezzo di piani governativi di rilancio  (« Regolazione macroeconomica » e « Azione concertata » nel caso della Repubblica Federale Tedesca), ed è da questo periodo che i rimedi sostenuti nei manuali keynesiani traggono giustificazione. Ma quell'epoca è finita. Dagli anni '70, il boom fordista - sempre per la forte crescita della produttività - ha raggiunto i suoi limiti, contro i quali la politica keynesiana si è rivelata impotente. Ne è seguita una fase di "stagflazione": i piani di rilancio statale non erano in grado di dare impulso ad un'accumulazione durevole ed autosufficiente del capitale, ed avevano, come risultato, un tasso d'inflazione che arrivava a due cifre. Quelli che, come Krugman, sostengono la ripresa di tali programmi per uscire dalla crisi, farebbero meglio innanzitutto a meditare sul fallimento del keynesismo di allora. Perché in effetti è in quell'epoca, e non nel 2008, che si situa l'origine dell'attuale crisi. La risposta a questo fallimento fu il neoliberismo, una reazione alla crisi dell'economia reale che cercava di permettere che di nuovo si generassero dei profitti, benché la base capitalisticamente affidabile, per realizzarli, cominciava a contrarsi. Uno dei componenti del neoliberismo è stata la deregolazione del settore finanziario, e allo stesso tempo l'estensione della possibilità di creare moneta per mezzo del credito. Le crisi, classicamente, comportano una fase dove, in assenza di reali possibilità d'investimento, si vedono gli attori economici riportare sui mercati finanziari i profitti già realizzati, alimentando così la speculazione. Ma il neoliberismo trasformava in programma questo movimento di evasione che sospende provvisoriamente la crisi, e crea così l'illusione che un « capitalismo tirato dalla finanza » costituisca il nuovo modello di regolazione. L'autonomizzazione del capitale finanziario è sempre stato un sintomo delle crisi capitaliste, ma sicuramente per causa loro. La novità, in questa crisi attuale che dura già press'a poco da quarant'anni, sta nell'estensione spaziale e temporale del processo. La disindustrializzazione di paesi interi a beneficio della nuova "industria" finanziaria, per esempio, come in Gran Bretagna sotto Margaret Thatcher, è un fenomeno che non ha precedenti nella storia.
Da questo punto di vista, e senz'offesa per la sua dottrina monetarista, il neoliberismo non è stato nient'altro che una continuazione del keynesismo con altri mezzi, in particolare nel settore privato. Gli Stati cedono il posto a degli investitori di fondi privati che finanziano con dei prestiti l'economia reale, permettendo ad essa così di continuare a funzionare. Trasferendo delle enormi quantità di denaro dal consumo di massa al settore finanziario, si fa sparire in un colpo solo l'inflazione, o più esattamente la si fa passare dal mercato dei beni di consumo a quello delle azioni e a quello immobiliare; da qui, la famosa "asset inflation" che arricchisce i detentori dei titoli in questione.
Il processo così messo in moto, questo  « più gigantesco piano di rilancio finanziato dal credito che si sia mai visto » (Meinhard Miegel), consistente in ultima analisi nel pagare i debiti per mezzo di nuovi debiti, si rivela difficile da mantenere come è difficile supporre che il sistema di vendita piramidale possa creare ricchezza. In fin dei conti, nel corso degli ultimi tre decenni, si è vista la massa globale del capitale e delle proprietà immobiliari magicamente moltiplicarsi per venti, ma senza che questo corrispondesse ad alcun valore reale. E' stato sufficiente appena lo scoppio di una di queste piccole bolle per spingere l'intero sistema bancario sull'orlo del crollo; ed ha dovuto la sua salvezza solo all'intervento degli Stati, che da allora hanno dovuto far fronte alla crisi del loro debito pubblico e ad una recessione più o meno grave.
A causa della grandezza inimmaginabile delle masse di denaro che si sono accumulate, e che la politica di "tasso zero" delle banche centrali non smette di far crescere, la svalutazione generale del denaro è solo una questione di tempo. Il solito argomento dei keynesiani, che sottolinea il fatto che molto denaro non porta necessariamente all'inflazione, è del tutto fuorviante. Il rischio d'inflazione è in effetti nascosto fino a quando questo denaro continuerà a circolare in modo del tutto autosufficiente nel firmamento della finanza. Tuttavia, non appena si volgerà verso le cose di questo mondo, avrà come effetto di attizzare l'inflazione. I mercati delle materie prime e quelli agroalimentari lo hanno già sperimentato, come prima hanno fatto i mercati immobiliari ed abitativi in diversi paesi: ultimamente, gli affitti nelle grandi città tedesche sono diventati sempre più insostenibili. Le contromisure proposte di fronte ad una simile situazione - assumendo che siano state realmente concepite per farci uscire dalla crisi - hanno un'apparenza stranamente irreale. Neoliberisti o keynesiani, tutti si rifiutano di vedere che per oltre quarant'anni una sola cosa ha permesso all'economia di continuare a funzionare: il ricorso al debito. Una politica d'austerità che intende mettervi fine porterà ineluttabilmente alla depressione. Ma, d'altra parte, i piani di rilancio keynesiani equivalgono semplicemente a continuare all'infinito questa politica del debito, dal momento che mai più il settore privato sarà  « in grado di riprendere il suo ruolo di motore dell'economia ».
nel corso di questi quattro decenni di crisi, la produttività in Germania (valore lordo per ora lavorativa, secondo i dati dell'ufficio tedesco di statistica) si è triplicata nell'industria, e addirittura sestuplicata nell'agricoltura. Il lavoro diventa sempre più inutile per la produzione di ricchezza materiale, e di conseguenza la produzione di plusvalore reale basato sullo sfruttamento del lavoro, entra sempre più nel regno dell'impossibile. L'incapacità del modo di produzione capitalista di considerare la possibilità che oramai è emersa, quella di una vita senza lavoro, ci viene dimostrata peraltro dal fatto che, per amore di una chimerica "competitività", si parla di sopprimere subito la siesta nel paesi dell'Europa del sud e, a tale scopo, d'introdurvi finalmente l'etica protestante del lavoro.
Oramai c'è solo una soluzione per uscire dalla crisi: superare la forma astratta della ricchezza e, allo stesso tempo, il modo di produzione capitalista; lo si sostituirà con l'orientamento sociale che si vorrà, purché sia orientato solamente alla ricchezza materiale. Fino a quando una tale prospettiva rimarrà irrealistica, conseguentemente non avremo da scegliere che  fra piani d'austerità e misure di rilancio keynesiano; ovviamente questi ultimi sono preferibili. La politica di austerità neoliberista equivale a sacrificare, al mantenimento di un sistema oramai insostenibile, degli esseri umani in numero sempre più grande: quelli che non servono più al sistema, essendo divenuti superflui dal punto di vista della valorizzazione del capitale. Certo, i programmi keynesiani inseguono ugualmente un fine illusorio del salvataggio del sistema,ma lo fanno con dei mezzi più accettabili, nella misura in cui non perdono totalmente di vista l'aspetto di produzione di ricchezza materiale.


- Claus Peter Ortlieb - Konkret - Agosto 2013 -
fonte: http://palim-psao.over-blog.fr

giovedì 26 settembre 2013

Casini

Politicamente scorretto e, senza dubbio, fuori sesto rispetto al tempo presente - e per di più con l'aggravante di un brutto titolo -, quest'articolo di Guido Vergani pubblicato su Repubblica nel luglio 1985 ha il pregio di trattare un argomento "sconveniente" situandolo nel proprio contesto; un po' la stessa operazione che fece Lina Wertmüller con "Film d'amore e d'anarchia". La ritengo una lettura interessante, in quest'epoca in cui c'è chi ha riscritto l'Huck Finn di Mark Twain, per poterlo depurare da termini come "negro", e chi addirittura pretende di mettere mano al Mercante di Venezia di Willy the Shake, per privarlo degli aspetti "anti-semiti". Il "già corposo giovanotto"  che - alla fine della storia - ha la fortuna di poter diventare "un pezzo grosso della nostra repubblica" è quello raffigurato nell'ultima foto e che, negli ambienti, era conosciuto con il nomignolo di "Gina". Sì lo so anche questo è politicamente scorretto. Che ci volete fare? Potete sempre farvi un bel bagno con le parole della Boldrini, per ripulirvi!!

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Se nasceva un sentimento nelle case dell'amore
di Guido Vergani

Mentre Yvonne, la polesana, e Wanda, l'emiliana capace di tenere un turacciolo sotto il pelo dell'acqua di un bicchiere con il frenetico guizzare della lingua, accendevano di promesse erotiche i salottini della tolleranza, poteva succedere davvero di tutto. Niente di dannato, niente che assomigliasse a un inferno del sesso. Il "tutto" che succedeva fuori, al di là delle persiane chiuse, perché "quelle case", soprattutto se non erano di battaglia e di marchette all' ammasso, rappresentavano una succursale dei caffè, un luogo di chiacchiere fra amici vivificate dal balenare di un capezzolo, dai languori o dai disponibili fervori di lussuria di quegli harem a prezzo fisso. Succedeva di tutto. Nei pomeriggi e nelle sere di una società maschile che, al di là delle ore familiari e dei vigilatissimi fidanzamenti, escludeva le donne, il casino diventava persino luogo di studio. Si faceva flanella, preparando gli esami di maturità. La "maîtresse" cantilenava: "In camera, andate in camera. Date commercio", ma chiudeva un occhio su quei due ragazzi che, nel "prima categoria" di San Remo, erano intenti al latino e alternavano Seneca ai rapimenti per la bionda Wally: uno studio proficuo, se si pensa che quei due liceali sono, oggi, fra i protagonisti di vertice del giornalismo e della letteratura. Facevano flanella da "Saffo", a Firenze, quelli della "Voce", continuando gli alti discorsi politico-culturali iniziati al caffè delle "Giubbe Rosse" e incuriosendo le quindicine al punto da legittimare, come ricorda Pietrino Bianchi nel suo libro Le signorine d'Avignone, le vanterie di Ardengo Soffici che assicurava: "Noi della Voce abbiamo lettrici attentissime nelle case chiuse".

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L'irsuto cattolicesimo di Giovanni Papini, capintesta di quelle intelligenze, si ribellava alla singolare propaganda di Soffici, ma non si ribelleranno Attilio Bertolucci, Spagnoletti e Cesare Zavattini se la testimonianza di un mentore dell'intellettualità parmense li cita nel gruppo che dal caffè Tanara di piazza Garibaldi portava le sue discussioni di poesia, il suo accanimento letterario nel salotto verde di Borgo Tasso, dove la signora Gina riceveva gli ospiti di riguardo e permetteva lunghissime e dotte flanelle. Una decina d'anni prima, gli avanguardisti del teatro che Bragaglia radunava in una cantina della romana via degli Avignonesi non mancavano di traslocare le loro febbri artistiche fra le femmine del "N. 10", fra le veneri a tassametro, fra le quindicine di primissima scelta reclutate dai tenutari Tabucco e Bottiglion. Avevano diritto a uno sconto sulla "doppia", purché rispettassero senza indiscrete curiosità il grido di "libero, libero" che la "maitresse" lanciava a mo' di ordine tassativo, quando si preannunciava la visita di un personaggio di riguardo. Nel gergo dei casini, quello era il "momento del monsignore".
Non si trattava di alti prelati posseduti da improvvise tentazioni. I "monsignori" erano gli altolocati, i clienti che non volevano essere riconosciuti. Ne vantava anche il "Porlezza" di Milano che, nonostante la tariffa (25 lire per la "semplice"), era, negli anni Trenta, la consueta tappa serale dei "cappotti lisi", il gruppo degli intellettuali che avevano trovato lavoro da Rizzoli, da Mondadori, ma non avevano ancora sfondato e tiravano la vita con i denti: Salvatore Quasimodo, il futuro Nobel, Leonardo Sinisgalli, Raffaele Carrieri, Giuseppe Marotta, Alfonso Gatto, Arturo Tofanelli. Furono loro i ciceroni delle giornate milanesi di Le Corbusier che era già un mito dell' architettura. "Organizzarono un giro by night", racconta Gaetano Afeltra che era, allora, un ragazzino, "Mangiammo al "Pesce d' oro" di largo Santo Stefano. Poi, via nella notte. Lì accanto, c'erano le case del Bottonuto, del Poslaghetto. Ma, dopo una carrellata del liberty, uno sguardo alla "Ca' bruta" di Muzio e ai nascenti marmi dello stile piacentiniano, puntarono verso i veli e i profumi, gli scuri legni di "San Giovanni sul Muro", detto anche "Porlezza" perché faceva angolo con quella via. Io c'ero già stato nel pomeriggio, per festeggiare i miei diciott'anni. Sciura Maria, la portiera, mi vide e borbottò "ancora!". Era sospettosa. Sapeva che quei tipi avevano la frequentazione facile e la "consumazione" difficile, dati i prezzi. Ci aveva inquadrati come flanellisti. Ma Le Corbusier la intimorì, con un gesto che garantiva almeno una "doppia". Salimmo al primo piano. Non ricordo se la grande firma dell'architettura consumò. Ricordo che, mentre veniva assediato dalle signorine in quel salottino dall' arredo alberghiero, chiese carta e matita. La signora Bigina, una " maîtresse" che non incitava alla camera ma non ammetteva neppure pigrizie nei divani, non fiatò. Le Corbusier cominciò a disegnare le linee di un'ideale casa di piacere. Un raptus creativo. Quel disegno sparì. Qualcuno sospetta sia stato l'architetto Pollini, il padre del pianista, a incamerare quel cimelio".

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Soffici e Prezzolini maturavano in casino i contenuti della "Voce". Le avanguardie di Bragaglia rispettavano la tradizione amatoria in via degli Avignonesi. Le Corbusier progettava al "Porlezza". Intere generazioni di italiani ossigenavano di visioni erotiche gli studi, le meditazioni per la tesi di laurea sotto gli sguardi, materni, protettivi delle "orizzontali", mentre le direttrici dall'alto della cassa ruminavano lo sprone: "Fate lavorare le signorine che sono brave". Nei casini succedeva di tutto: un tutto che spesso aveva poco a che fare con la voglia d'orgasmo. Nella quotidianità, era un continuare la vita, le serate al caffè, l' abitudine degli incontri al biliardo, le amicizie, i sodalizi intellettuali, in una sorta di bagnomaria del voyerismo, dell'occasione facilissima se d'improvviso arrivava l'uzzolo di una "sveltina". I casotti erano ovviamente il luogo deputato dei riti fallici legati all'addio al celibato, al debutto della virilità quando scattavano i 18 anni (ma la scolorina e la complicità delle "maîtresse" permettevano di anticipare quelle fatidiche date), alle feste dei coscritti, ai riti goliardici che obbligavano le matricole di Pavia a correre, in gara, verso la "Grotta Azzurra", trasportando in carriola un "anziano" per vincere un'intera giornata di carezze e sgroppate. Erano la garanzia di orgasmi igienici e digestivi, di fisiologiche cadenze settimanali per chi non aveva mogli e amanti, per i timidi. Erano considerati la necessaria palestra di rodaggio per i giovani e, al "Dollaro" di Napoli, Tosca, una veemente, bruna ciociara, si pubblicizzava passando fra i clienti e dichiarando: "Ne ho sverginati ottocento". Ma non è mai questo aspetto più marcatamente sessuale che le melanconiche memorie degli ex clienti portano in primo piano. Raramente, le narrate nostalgie (sono quasi sempre nostalgie per la lontana giovinezza, non rimpianti per il sistema delle case archiviato dalla legge Merlin) enfatizzano il lato erotico della tolleranza perché, in tal senso, la materia era scarsa e per niente orgiastica.
I "paradisi" erano fuggevoli assai più di quei venti minuti stabiliti, nel 1862, dal governo Rattazzi come tempo medio di una "semplice", con una visione piuttosto generosa delle cadenze di una marchetta. Fuggevoli e sostanzialmente frigidi, da conigli. La memoria di quel sesso non indulge mai a descrizioni di acrobazie, di molteplici e dannati deliri, di partite a tre, di amplessi sotto l'occhio del "guardone" a cui, per 75 lire negli anni Cinquanta, la "maîtresse" riservava un pertugio sulle prospettive amatorie. Grigio di chiome e bolso di orgasmi, qualcuno tramanda le qualità erotizzanti delle dorate sedie a trono del milanese "Disciplini" destinate ai lavori di bocca, degli specchi di "San Pietro all' Orto" che moltiplicavano, in un gioco di riflessi a catena, le sinuosità delle "faticatrici". Ma, nel tema sesso, la memoria batte e ribatte su virtù lontane mille miglia dall'idea dell' erotismo sfrenato e dannato.

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Le "signorine", lo scrive Mario Soldati, erano "amabili e soccorrenti figure" e i rapporti "squisitamente e profondamente umani". Se Paolo Valera, reporter ottocentesco nel "ventre" di Milano, descriveva spietatamente il cadavere di Ermenegilda Bianchi, la "zia", l'imperatrice delle "maîtresses" ("Ho provato ad alzarle la palpebra che faceva sepolcro alle sue porcaggini e ho subìto un'impressione disgustosa"), Soldati parla di queste registe dei casini, del "Massena", del "Raffaello" di Torino, dei romani "Fontanella Borghese" e "Grottino", ricordando "il garbo paziente e insinuante, la dolcezza, la familiarità, il senso di sicurezza e di protezione". La memoria, insomma, tradisce una realtà: in quelle case, il maschio non era gallo, ma pulcino e spesso spaurito, bisognoso, appunto, di "figure soccorrenti". Non è, dunque, il sesso a infittire le sempre tenere evocazioni dalla parte dell'ex clientela. E' ricorrente, invece, una debolezza d'orgoglio. Nell'esercito dei frequentatori, ormai nonni, sono pochi quelli che non sbandierano un amorazzo da casino. Ai tempi, venivano chiamati, nel gergo delle case, "lime", "capperi", "torcinoni". Erano, scriveva Giancarlo Fusco, i "fidanzati della tolleranza". I più spavaldi si vantavano: "L'ho fatta godere". Ma i più dicevano agli amici: "Mi ha dato un appuntamento fuori, quando finisce la quindicina". Nella memoria, ognuno ha una ricambiata cotta sullo sfondo di "Borgo Tasso" a Parma, di Vico Lepre e del "Castagna" (nel dopoguerra, la maîtresse timbrava una scheda e, ogni tre marchette, ne regalava una) di Genova, del "Ferrovia" di Napoli, dell'"Orientale" di Venezia. E' il solo risvolto di letto, d'alcova nei ricordi e non a caso il sesso ne esce intenerito dall'amore, dalle passioncelle. Nessuno mitizza l'erotismo della tolleranza, mentre le melanconie tambureggiano sugli arredi, sulla "belle èpoque" dei lampadari, delle statue di "San Pietro all'Orto" che era provvisto di una camera con botola e passaggio segreto sino alla strada per chi voleva concedersi un orgasmo in clandestinità, sulla perfetta dentatura delle ragazze del milanese "Alberto Mario" che pagava alle "signorine" i servizi di un odontoiatra, sui profumi delle case che era soltanto un sovrabbondare di colonie, di essenze per debellare l'indebellabile sentore di lisoformio, di creolina, di permanganato di potassio, di sudori e umori degli amplessi. Nella "recherche" dei casini perduti, l' autentico "leit motiv" è quel "succedeva di tutto", a testimoniare come i bordelli non fossero che una succursale della vita quotidiana separata soltanto dalle persiane inchiavardate.

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"In anni grami, passava in casino anche la storia e il clima del casino la poteva cambiare", racconta un fedelissimo della "Rina" di Firenze. Passava la politica, il fascismo e l'antifascismo. "La "Rina" era il punto d' incrocio fra repubblicani e gappisti", racconta. "Il capitano Carità, un commerciante di radio di via Calzaioli che si specializzerà in torture, era un assiduo. Ma assiduo era anche Paolo Pavolini, un partigiano che, più tardi, a guerra finita, diventerà una firma del giornalismo. Pavolini aveva una grande dimestichezza con la "maîtresse". Ogni settimana, portava le ragazze in carrozza alle Cascine, perché prendessero aria. Quando gli alleati si avvicinarono alla città e i tedeschi minarono tutti i ponti dell'Arno, "La Rina" dovette traslocare. Portò letti, specchiere e veneri in casa di Pavolini che, intanto, aveva messo a punto un attentato: l'uccisione di un già corposo giovanotto che aveva avuto la debolezza di collaborare a un giornale repubblichino e che, oggi, sta nell' empireo dell'alta politica. Tutto era pronto. Il commando avrebbe dovuto agire alle otto di mattina di un lunedì. Ma, nel mezzo c'era la domenica e fu, nella casa di Pavolini trasformata in compiacente "maison", una domenica di baldoria. Durante il trasloco, "La Rina" aveva perso Dedè, la più bella della quindicina. Pianti, ansie, preoccupazioni. Dedè riapparve proprio quella domenica. La credevamo finita chissà dove e festeggiammo, con una mangiata, troppe bottiglie di rosso e una nottata che la madama ci concesse senza tariffa. Festeggiò anche il padrone di casa che avrebbe dovuto guidare il commando gappista. E, il lunedì mattina, non si svegliò. Un pezzo grosso della nostra Repubblica deve la vita all'umanissimo clima, alla deboscia di una casa di tolleranza, dove probabilmente lui non ha mai messo piede".

- GUIDO VERGANI – da “la Repubblica”, del 27 luglio 1985

mercoledì 25 settembre 2013

Cimeli!?!

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Verrà messa all'asta, a Londra, il prossimo 3 ottobre, la sciarpa che George Orwell portava al collo quando venne ferito da un cecchino. Una pallottola gli trapassò la gola, e sulla sciarpa si possono ancora vedere le tracce del sangue dello scrittore. Sul sito della casa d'aste Bloomsbury, si può vedere l'intero lotto di cui fa parte la sciarpa, insieme ad altri foulard con i colori della CNT, della FAI e del POUM. Il prezzo stimato per l'asta, va da circa 1.000 fino a 1.500 euro.

martedì 24 settembre 2013

Società Idrauliche

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" (...) Per esempio, per me è stata una sorpresa scoprire che Debord lesse con molta attenzione Il dispotismo orientale di Karl August Wittfogel, sinologo e storico tedesco-americano. Su questo libro Debord aveva effettivamente scritto una breve nota di lettura nella rivista «Internationale Situationniste», ma soltanto leggendo le schede di lettura mi sono potuto rendere conto di quanto l’opera di Wittfogel abbia inciso nell’elaborazione del concetto di “spettacolo” . In particolare per quanto riguarda l’identificazione degli amministratori cibernetici e burocratici della società  dello spettacolo con l’antica casta di ingegneri e preti che governavano l’Egitto e la Mesopotamia.(...)"

- dall’Intervista di Riccardo Antonucci ad Anselm Jappe - apparsa su "Il Rasoio di Occam" -

wittfogel

« Il Dispotismo Orientale" di Karl Wittfogel è principalmente un importante contributo alla teoria marxista, sulla questione centrale, e trascurata, dell'importanza economica dello Stato nella storia. E' facile respingerne i numerosi errori, presenti nel libro, in forza della loro stessa enormità . Tutto l'orientamento attuale di Wittfogel si basa sull'identificazione, quasi geografica, del totalitarismo statale "orientale", derivante dal "modo di produzione idraulico", con la società  burocratica attuale.
Viene trascurata, da una parte, l'esistenza,nella società burocratica attuale, di uno sviluppo industriale che ha effettivamente preso il suo primo nutrimento all'interno delle condizioni conosciute dalla borghesia nel medioevo europeo, ma che da allora si sono estese ed adattate dovunque; trascura d'altra parte di estendere le sue analogie fino al ruolo decisivo dello Stato nel capitalismo concentrato dell'occidente. E' perciò in questa prospettiva trascurata da Wittfogel che si rivela al meglio l'attualità  universale di un potere che le analisi di Marx hanno sotto-stimato, a causa della cancellazione economica passeggera che esso ha conosciuto fra il medioevo ed il diciannovesimo secolo (cancellazione che ha effettivamente permesso la "partenza" cumulativa dell'economia e, finalmente, l'apparizione di un "pensiero economico").
La schematizzazione di Wittfogel vuole arrivare alla conclusione che la libertà  occidentale deve al più presto respingere con la guerra gli schiavi idraulici che l'assediano da Pechino e da Mosca. Wittfogel chiude perciò la sua opera con la citazione di Erodoto che afferma che, quando si sa che cos'è la libertà , ci si batte per essa "non solo con la lancia, ma anche con l'ascia". Questo bizzarro ottimismo, che ricorda qui il Dottor Stranamore, viene altrove smentito dal fatto che sono spesso quelli che non hanno mai conosciuto la libertà  ad essersi meglio battuti per essa, come i vietnamiti e le masse di Santo Domingo hanno fatto vedere ai marines di Wittfogel. Il lettore potrà  riconoscere da sé solo i miraggi in cui si smarrisce Wittfogel.
Ma questo non viene certo facilitato dalla pedante prefazione nella quale Pierre Vidal-Naquet si è velocemente insinuato di prepotenza, senza il permesso dell'autore, per dare la sua contro-interpretazione di "sinistra". Questa "critica di sinistra", che viene imposta al lettore per meditare prima di avere accesso al pensiero, sicuramente di destra, dell'autore, è autoritaria tanto nel suo contenuto quanto nel suo modo di presentarsi. Vidal-Naquet è talmente prono allo stalinismo, che riesce a contribuire a perpetuare una visione del mondo a la Wittfogel! Menzogna contro menzogna, voi non avete altro che da fare la vostra scelta. Esempio qualitativo sufficientemente ignobile, Vidal-Naquet si è permesso di scrivere in una nota a pagina 41 della sua prefazione: "Noi intendiamo qui per marxiste le correnti maggioritarie del movimento comunista mondiale. E' ben evidente che le tesi staliniane non hanno avuto alcuna influenza sulle correnti che erano, per definizione, anti-staliniane. Studiare qui le loro posizioni sarebbe privo di interesse per il nostro soggetto."»

- presumibilmente, Guy Debord - su Internationale Situazionniste, n°10, mars 1966, pagg. 72-73 -
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« (...) Nel 1984, leggendo "Le chiuse di Epifanio", qualcosa si spezzò dentro di me. Una sensazione provocata certo dal libro, ma anche dal momento in cui lo lessi: poco dopo aver approfondito la "tesi idraulica" di Wittfogel. Avevo vent'anni, studiavo l'arte dell'irrigazione, ero in cerca di qualcosa di sensato da fare nella vita, e "Dispotismo orientale" mi aveva scosso profondamente. Prima di prendere in prestito quel grosso volume dalla biblioteca di Leeuwenborch non credevo che il male potesse celarsi nel fatto ci portare acqua in regioni aride. Si trattava di un'attività  obiettivamente utile (su cui soltanto i sociologhi potevano eventualmente avere qualcosa da ridire). Ma Wittfogel mi dimostrò, in ben 556 pagine, che i sistemi di irrigazione producono regimi dittatoriali. Che cosa dovevo pensare di tutto ciò? Il libro mi affascinava e disgustava al tempo stesso.
   Karl August Wittfogel, un sinologo fuggito dalla Germania nazista negli anni trenta, aveva presentato la sua opera nel 1957 a New York come "uno studio comparativo dei regimi totalitari". Il titolo "Dispostismo orientale" derivava da un articolo di Marx pubblicato il 25 giugno 1853 dal "New York Tribune", in cui Marx segnalava che i regimi tirannici il più delle volte si sviluppano laddove il clima e il suolo invitano alla costruzione di grandiose opere d'irrigazione. "L'irrigazione artificiale per mezzo di canali e di altre opere idrauliche è la base dell'agricoltura orientale", scrisse Marx. A suo parere, il solo mantenimento  dei sistemi di irrigazione esigeva "l'intervento di un potere centrale". I governanti di queste società "orientali" o "asiatiche" dovevano poter disporre, in qualsiasi momento, della manodopera (forzata) necessaria, ecco il perché del loro comportamento dispotico. Marx aveva liquidato cos' l'argomento, ma Wittfogel riprese il concetto e lo approfondì.
   Come studente del corso di irrigazione ebbi modo di farmi un'idea delle "società idrauliche". Mi lasciai trascinare dalla tesi di Wittfogel, secondo cui l'acqua dei fiumi (per via della sua flessibilità  e manegevolezza) si distingue in maniera fondamentale da tutte le altre risorse naturali. L'utilizzazione di grandi concentrazioni d'acqua richiede un apparato dirigente capace di imporre "corvée" a squadre di lavoratori quanto mai numerose. L'archetipo della società  idraulica esposta da Wittfogel prevede una rigida gerarchia, con un popolo di schiavi alla base e un tiranno solitario al vertice. Questo faraone o imperatore o dio sole, che si è circondato di una corte pietrificata dall'angoscia e servile (talvolta con un eunuco come unico confidente), risiede di preferenza in una "città  proibita". Il sovrano dispone di un esercito, di un servizio segreto e di un sofisticato apparato di sorveglianti e controllori, secondini e boia, ufficiali giudiziari e censori. A ben vedere soltanto l'antica Mesopotamia e l'Egitto dei faraoni rispondevano a simili, rigidi "criteri idraulici". Ciò comunque non minava la sua teoria, argomentava Wittfogel, in quanto la gran parte dei sovrani assoluti si era ispirata a questi stati dittatoriali per elaborare l'arte di governare. La sua indagine comparativa evidenziava che avevano semplicemente copiato il modello faraonico, in maniera più o meno raffinata o appropriata.
   "Dispotismo orientale" era a tratti grottesco. Dovunque si affermassero dei tiranni, il dotto tedesco rintracciava sistemi di irrigazione, e quando non c'erano trovava comunque una Muraglia cinese o un tempio maya eretti sotto coercizione da masse di individui incapaci di autogovernarsi. Mi domandavo come mai canali d'irrigazione o altre grandi opere (idrauliche) non potessero essere realizzate senza staffile o frusta. Quale meccanismo faceva sì che l'irrigazione dei campi producesse in maniera ineluttabile uno stato totalitario? E se per caso fosse stato vero il contrario? E cioè che esclusivamente regimi autoritari fossero in grado di far sorgere colossali opere idrauliche?
   Wittfogel evitava simili domande e parlava di interazione. Prendeva in esame fatti empirici: la storia mostrava una volta per tutte che l'irrigazione determinava coercizione e controllo. Come esempio, proponeva gli stati comunisti a partito unico. Era assolutamente convinto che il popolo russo avesse perso un'occasione irrepetibile per "liberarsi dal giogo asiatico" nel 1917, quando fu rovesciato il potere dello zar. Che fecero allora Lenin e i suoi bolscevichi? Intrapresero la ricostruzione di una variante della società asiatica, sotto altre sembianze. Stalin perfezionò il processo, ponendo le fondamenta classiche delle realizzazioni idrauliche, conferendo così all'Unione Sovietica la struttura arcaica del dispotismo orientale.
   Nell'epilogo Wittfogel sembrava sconvolto dalla sua stessa scoperta: "Ma i miei lettori si rendono contro del carico di responsabilità  che va a gravare sulle spalle dell'uomo libero?".
   Questa conclusione tendenziosa mi irritò. Manipolazione dell'opinione pubblica, pensai nel 1984. Retorica da guerra fredda.
   Ma poi lessi "Le chiuse di Epifanio". L'affinità con le tesi idrauliche di Wittfogel mi colpì come una rivelazione. Platonov mi dette la spinta necessaria per farmi dubitare della scelta del mio indirizzo di studi. Il suo racconto era la parabola letteraria di ciò che il teorico tedesco avrebbe formulato trent'anni più tardi in un trattato di più di cinquecento pagine.

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"Le chiuse di Epifanio" parla di un progetto idraulico demenziale, che si conclude con una decapitazione al Cremlino. A concepire il progetto è Pietro il Grande e la storia si svolge "nella primavera del 1709, agli esordi della navigazione", quando un certo ingegner Bertrand Perry di Newcastle si presenta all'Istituto delle opere idrauliche di San Pietroburgo. Lo zar Pietro desiderava "mettere in comunicazione il Volga e il Don" mediante una via permanente di navigazione. "E' nostra intenzione collegare per l'eternità i principali fiumi del nostro impero in un unico sistema chiuso di navigazione." Tale promessa inaugura l'epoca delle grandi opere. "Al posto del guerriero lordo di sangue e dell'esploratore estenuato entrava ora in scena l'astuto ingegnere." Per quest'offensiva di progresso e civiltà (in termini concreti: per la progettazione e l'escavazione di un sistema di canali) "si è fatto venire Bertrand dall'Inghilterra".
   L'ingegnere straniero riceve pieni poteri, quasi fosse un generale; può mettere al lavoro un esercito di operai per le opere di scavo. Nel cuore della Russia, Bertand, tuttavia, va incontro ad un "cumulo di catastrofi". I suoi migliori collaboratori muoiono di malaria. I più fidati disertano. Le piogge di primavera minacciano di spazzare via le realizzazioni della prima estate. Appena defluite le acque di fusione, il livello del Don si abbassa in maniera spaventosa. A causa di una primavera arida, il basso livello non permette di riempire d'acqua il canale di collegamento. Bertrand, per colmo di sventura, riceve da Newcastle una lettera della sua amata: è incinta di un altro. Nel tentativo di sfuggire alle preoccupazioni personali, si getta anima e corpo nella sua missione. Approfondendo una sorgente sotto il lago Ivan, spera di aumentare l'apporto del Don, ma, mentre gli uomini di Bertrand stanno procedendo alla perforazione da una zattera, l'acqua di sorgente si disperde negli strati più profondi e inaccessibili. Durante un'ispezione delle opere idrauliche commissionate emerge che nemmeno una barca a remi potrebbe navigare dal Don al Volga. L'ingegnere britannico viene condotto in manette a Mosca dove ascolta la sentenza dello zar: morte per decapitazione.
  
   Con "Le chiuse di Epifanio" Platonov, nel 1927, pubblicò un testo che si rivelò profetico. Non soltanto in senso figurato, ma anche letterale: sette anni dopo la sua pubblicazione, il Cremlino ricomincia ad assumere ingegneri per la costruzione del canale Volga-Don. Stalin vuole emulare in dinamismo Pietro il Grande. Lo zar, che aveva dotato la Russia della flotta, aveva potuto soltanto sognare un collegamento tra la sua nuova capitale e il Mar Bianco, mentre Stalin avrebbe costruito il canale Belomor in venti mesi e, per di più, intende riuscire dove l'impresa Volga-Don di Pietro era fallita, nei pressi del villaggio Petrov Val (il fallimento storico su cui era basato il racconto di Platonov). (...)»
  
- tratto da "Ingegneri di Anime" di Frank Westerman - Feltrinelli -   

lunedì 23 settembre 2013

Noi, Zombie

dayofthedead

Nous les morts-vivants
di Claus Peter Ortlieb

Quando un giornalista famoso, quale è il redattore capo e direttore del Frankfurter Allgemeine Zeitung, pubblica un nuovo libro, il battage mediatico è inevitabile, a partire dagli stretti legami che uniscono l'autore ai suoi colleghi incaricati di recensirlo. In occasione della pubblicazione di "Ego. Das Spiel des Lebens" di Frank Schirrmacher, nel febbraio del 2013, si è cominciato, su Der Spiegel dell'11 febbraio, con un articolo di quattro pagine dove l'autore presenta le tesi principali del libro, per poi rispondere in un'intervista di due pagine. Lo stesso giorno, un ditirambo firmato da Jakob Augstein è apparso sul sito Der Spiegel online; Schirrmacher viene qualificato « il giornalista più emozionante del paese » e «innegabilmente, di sinistra ». Quest'ultimo punto viene confermato da Thomas Assheuer, che ci regala su Die Zeit del 14 febbraio una recensione che non poteva essere più benevola. Come si può vedere, in un primo tempo, le uniche critiche serie sono arrivate dalla « destra », per la penna di Cornelius Tittel, sulla versione online di Die Welt del 17 febbraio. A quanto pare, le valutazioni su Schirrmacher sembrano dipendere dal posizionamento politico di ciascuno. In realtà, tutto questo entusiasmo ha avuto come risultato quello di spingere il libro, nello spazio di due settimane, in cima alla lista dei best seller stilata da Der Spiegel, e mostra semplicemente fino a che punto sia caduto in basso il concetto di « sinistra ».
Il libro gioca sul senso - tanto inafferrabile quanto largamente diffuso nei centri capitalisti - del vuoto e dell'eteronomia, della perdita di senso e di scopo che oggi caratterizza in egual misura la vita privata e quella pubblica. Chiunque cerchi di andare oltre la semplice intuizione per far realmente luce sulla «alienazione» in questione dovrebbe immergersi nelle opere di Marx, Lukács, Adorno e qualche altro classico. Schirrmacher, invece, ci mostra involontariamente come si può fare a meno di tutto questo retroterra teorico; ci fa vedere a cosa rassomiglia una «critica del capitalismo» che non sa cosa sia il capitalismo. Il suo libro ci racconta la seguente storia:
Sessant'anni fa, dei militari, degli economisti e dei fisici americani avrebbero inventato la teoria dei giochi, un modello matematico per le situazione di conflitto, dove ciascuna delle parti in gioco si sforza di massimizzare il suo profitto individuale, con tutti i mezzi e senza alcun riguardo per gli altri. Questo strumento, e la sua implementazione nei computer, avrebbe permesso di vincere la guerra fredda contro l'Unione Sovietica. Poi, finita questa, numerosi fisici implicati nel progetto sarebbero andati a lavorare per Wall Street e, da lì, avrebbero imposto la logica della guerra fredda alla società civile. Ne sarebbe risultata, non solo l'automazione dei mercati, ma anche quella degli uomini e, di conseguenza, la creazione di una nuova specie - il libro gli conferisce il nome di "numero due" - focalizzata esclusivamente sul proprio interesse personale e perfettamente conforme all'ideologia neoliberista. La trascrizione di questa logica automatizzata sugli individui sarebbe avvenuta per mezzo del Personal Computer, che ha messo in rete uomini e mercati.

ego

Questo racconto costituisce il tipico esempio di una critica borghese della tecnica, cioè a dire una critica che fa astrazione dei rapporti di produzione dominante, e che pretende di vedere, all'occorrenza, nella teoria dei giochi e nell'informatizzazione la causa di tutti i mali che si sono abbattuti su di noi dopo il 1989 e la causa del neoliberismo. Oltretutto, la teoria dei giochi è adatta a questo ruolo solo fino ad un certo punto: essa si applica, in effetti, esclusivamente alle situazioni di conflitto dove ciascuna delle parti in causa conosce sia le possibilità d'azione (le regole del gioco) che gli obiettivi prediletti dagli altri giocatori; non funziona quando le preferenze non sono note e devono essere scoperte. Parimenti, va considerato un impasse, la concezione che sottende alla dottrina economica neo-classica, per cui tutti gli uomini condividono un principio soggettivo di profitto che li porterebbe sempre a cercare di massimizzarlo: non solo questa concezione non riesce a dar conto di tutte le situazioni, ma inoltre non può essere dimostrata empiricamente, né essere tradotta, a fortiori, in equazioni o in un modello informatico.
Se la teoria dei giochi si è potuta dimostrare di una qualche utilità, nel corso della guerra fredda, è stato perché ciascuno dei due campi seguiva la medesima logica elementare che consisteva nel volere, sia vincere un'eventuale guerra nucleare, sia impedirla in forza di una dissuasione reciproca. Ma nessuno può dire - come Schirrmacher lascia intendere - che l'Unione Sovietica sia stata vinta, a questo gioco; sappiamo, al contrario, che essa è caduta per altri motivi, notamente economici. L'idea di spiegare il dominio crescente dei mercati finanziari, a partire dagli anni 1980 - una categoria professionale minacciata di licenziamento avrebbe deciso di abbandonare le organizzazioni militari e di andare a lavorare per Wall Street - è un'idea del tutto stravagante: inoltre, ls necessità delle loro competenze avrebbe dovuto farsi sentire già da molto prima. La teoria dei giochi, in effetti, poteva essere esercitata nel dominio dell'automazione del traffico di borsa, dove tutte le parti in gioco hanno delle possibilità di azione conosciute (comprare e vendere titoli finanziari di ogni tipo) e cercano invariabilmente di massimizzare il loro profitto personale. Tuttavia, applicare questa teoria ad altri mercati, dove almeno qualcuno dei partecipanti persegue degli obiettivi non quantificabili, potrebbe rivelarsi problematico; dal momento che la nozione di « automatizzazione degli uomini » rimane del tutto vaga. A tale proposito, si invocano - anche se non hanno niente a che fare con la teoria dei giochi - gli algoritmi di cui si servono Google, Amazon ed altri per studiare i comportamenti di ricerca e di consumo degli utilizzatori, al fine di proporre loro delle offerte pubblicitarie personalizzate. Ma chi ci obbliga ad accettare tali offerte?

errore

Sembra che il libro di Schirrmacher abbia sedotto più di un commentatore, a partire dalla sua invettiva contro l'economizzazione neoliberista dell'insieme della società e contro l'« homo oeconomicus » che si sarebbe imposto nella realtà per mezzo della figura del «numero due », ma anche contro il deficit che si traduce in termini di perdita sia di sovranità politica - l'arringa della Merkel per una "democrazia conforme al mercato", per esempio, ne fissa bene i contorni - che individuale, per cui gli individui perdono il controllo della propria vita. Un'altra attrattiva del libro, risiede nello status del suo autore; in quanto redattore in capo associato della FAZ, viene giudicato in grado di mettere in atto una « critica del capitalismo dal cuore stesso del capitalismo ». Il fatto che la spiegazione che viene data nel libro per l'avverarsi di questa situazione manchi sia di logica che di fatti storici, non ha, per chi la propone, la minima importanza.
In tutto quest'affare, bisogna ricordare che interesse personale e ricerca del profitto - come tutti sanno - non sono affatto delle invenzioni del neoliberismo; in quanto motori dell'attività economica, l'uno e l'altra sono, al contrario, vecchi quanto il capitalismo. Adam Smith ne vantava già i meriti nella sua opera principale, nel 1776, sperando che, contro ogni ragione, attraverso il meccanismo del mercato « guidato da una mano invisibile » questi due principi contribuissero alla felicità universale. Quanto al ruolo dello Stato moderno, dotato o meno di una costituzione democratica, esso stesso esiste fin dalle origini per assicurare le condizioni necessarie alla valorizzazione del capitale. Non si è mai posto il problema di una democrazia non conforme al mercato. E il margine di manovra, lasciato alla politica all'interno di questo quadro, si riduce sempre di più sotto l'effetto della crisi.
Il neoliberismo costituisce la risposta alla crisi di sovraccumulazione che colpisce in modo inarrestabile dopo gli anni 1970. Anche se non può vincere, ha trovato il modo di compensare, per un certo tempo, l'esaurimento di produzione del plus-valore reale: abbassamento dei salari reali, agevolazioni fiscali per i redditi da capitale, deregolamentazione del settore finanziario e, soprattutto, integrazione degli ultimi domini rimasti della vita sociale dentro il processo di valorizzazione capitalista. Tutto ciò non ha molto a vedere con la teoria dei giochi, e l'automatizzazione (parziale) dei mercati stessi, se contribuisce indubbiamente a questo processo, non ne è affatto la causa. Non riusciamo a capire come il « numero due » di Schirrmacher sia arrivato «ad abbandonare il laboratorio e a soppiantare nella realtà quotidiana la vecchia umanità rimasta allo stato naturale» (Assheuer), dal momento che in nessun punto del libro si tratta di lavoro, quel lavoro di cui il capitalismo non può semplicemente fare a meno.

Dead Man Working

Le cose vanno in modo assai diverso nel libro "Dead Man Working" di Carl Cederström e Peter Fleming che comincia con un'osservazione del tutto pertinente: «Anche i suoi più ardenti sostenitori, riconoscono che il capitalismo ha reso l'anima in un momento più o meno precisato degli anni 1970. Tutti gli sforzi per rianimarlo hanno fallito. Eppure, stranamente, adesso che è morto, sembra diventato (...) più potente e più influente che mai. Questo libro tratta di quello che significa vivere e lavorare in un mondo morto.» Si concentra in particolare sul seguente strano fenomeno: benché l'«era del lavoro» stia volgendo al termine, la lotta per dei posti di lavoro sempre più precari e privi di senso diventa sempre più feroce e adotta delle forme sempre più aberranti. Di fronte alla sparizione del lavoro e, con esso, della «sostanza del capitale» (Marx), il capitalismo sembra incapace di reagire in modo adeguato, per esempio condividendo in modo equo il lavoro che è rimasto. Al contrario, in nome del vantaggio di poter conservare una concorrenza sempre più crescente, si estrae da coloro che hanno ancora un lavoro fino all'ultima briciola di plus-lavoro. Detto ciò, lo sfruttamento del lavoro non è certo una novità, dal momento che senza di esso non ci sarebbe affatto capitalismo. La novità, è che è scomparsa la divisione fra lavoro e tempo libero, fra produzione e riproduzione: « Il capitalismo attuale ha di particolare che la sua influenza si estende ben al di là dei luoghi di lavoro. Il fordismo lasciava ancora i fine-settimana e il tempo libero relativamente intatti. Il suo ruolo era quello di sostenere indirettamente il mondo del lavoro. Oggi giorno, invece, il capitale cerca di sfruttare perfino la nostra socialità, in tutte le sfere della vita. Nel momento in cui ci trasformiamo tutti in "capitale umano", non ci si può più accontentare di dire che abbiamo o facciamo un lavoro. Noi siamo il lavoro. E anche quando la giornata di lavoro sembra essere finita. » Secondo Cederström e Fleming, il risultato è la specie dei « dead men working », i morti viventi che lavorano, incapaci di vivere ed in attesa di una fine che non arriva. Questa nuova specie di uomini ha innegabilmente una spiccata somiglianza con il « numero due » di Schirrmacher, ma essa ha origine da un'evoluzione sociale assai più plausibile.
L'estensione del lavoro a tutte le sfere della vita si accompagna ai tentativi di "gestione liberatrice del personale" (liberation management), volti a far entrare la « vita » nel lavoro, e di cui Cederström e Fleming descrivono le manifestazioni concrete, sovente grottesche. Queste comprendono gli « esercizi per entrare in equipe » a livello delle feste di compleanno dei bambini, dove si invita a mostrarsi « autentici » in ogni circostanza, ad assumere il luogo di lavoro come una sala di soggiorno, a divertirsi, o perfino a dare libero sfogo al proprio odio per il capitalismo in generale, e della propria impresa in particolare. Si cerca in tal modo di far sì che gli impiegati si investano completamente nel loro lavoro e si rapportino, così, molto di più all'impresa.
Solamente che l'equazione  « il lavoro è la vita, e la vita è il lavoro » non regge: le interruzioni di lavoro a causa di malattie psichiche sono aumentate in proporzioni drammatiche, e solo il consumo di psicofarmaci riesce a preservare la capacità lavorativa; esaurimento e depressione vengono oramai considerati come malattie della società, insieme, perfino, al suicidio.
Detto secondo la terminologia della critica del valore: una vita votata esclusivamente al lavoro, senza la più piccola possibilità di rifugiarsi nella sfera della riproduzione - una sfera dissociata, con connotazioni femminili e svalorizzate, che obbedisce ad un'altra logica - chiaramente non è più vivibile, La conclusione che se ne deve trarre, "Dead Man Working", ce lo indica da subito:  « Essere un lavoratore non ha niente di glorioso. Una politica dell'occupazione degna di questo nome non dovrebbe avere più come obiettivo un lavoro più giusto, un lavoro migliore o più o meno un lavoro, ma la fine del lavoro.»
Per questo bisognerebbe - e qui le cose si complicano - mettere fine, allo stesso tempo, al patriarcato capitalista.

- Claus Peter Ortlieb - apparso sulla rivista "Exit!", marzo 2013 -
fonte : http://palim-psao.over-blog.fr

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domenica 22 settembre 2013

Scassapagliara

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Pagghiaru nel Palermitano, pagliaru nelle province di Agrigento e Caltanissetta, è «stanza di frasche e di paglia, dove ricoverare la notte al coperto quegli che abitano la campagna. Capanna». Così nel dizionario siciliano del Mortillaro; e così io li ricordo, i pagliara (plurale in a) di cui nell'estate si animava la campagna: a guardia del grano falciato, degli orti; e un pagliaru alloggiava intere famiglie, nelle ore calde e quando si faceva pungente il gelo della notte. Non più di quattro metri quadrati, dentro: e vi si ammonticchiavano un numero incredibile di persone. Alle prime piogge, cominciavano a infradiciare; finché, raccolta l'ultima mano di pomodoro, non venivano smontati. E la famiglia tornava in paese, al triste autunno tra le case. Di cose, dentro un pagliaru, ce n'erano pochissime: un paio di pentole di coccio, una per preparare la minestra (quasi sempre minestra: e chi passava di sera vicino a un pagliaru sentiva l'odore della cipolla che bolliva insieme alla zucca, al pomodoro, all'aglio) e una per l'estratto di pomodoro; tanti piatti quante erano le persone, e così le posate dette di stagno, ma erano di peltro, immemorialmente ereditate; pochissima biancheria e, ma non sempre, un paio di vecchie coltri di cotone.

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Andare a rubare in un pagliaru, nei rari momenti in cui restava incustodito, sarebbe stato dunque tanto facile quanto infame: e perciò scassapagliara erano detti i ladruncoli, quelli che rubavano povere cose a gente povera quanto loro. Ironia, disprezzo: i pagliara erano sempre aperti, che abilità c'era ad entrarvi e a rubare? E che se ne cavava, poi? Qualche piatto, una pentola, un mazzetto di posate di stagno, un paio di stracci.
Ladro povero, dunque, lo scassapagliara. Senza sentimento. E senza dignità di ladro. La quale dignità sembra consista, oltre che nell'entità del bottino, nella capacità di guadagnarselo con qualche difficoltà: lo scassinamene, l'effrazione. Nessuna difficoltà e nessun frutto: l'estrema abiezione, per un ladro. E perciò su di lui scende il disprezzo del ladro grosso, del ladro che ha mestiere, regole e sentimenti. Del mafioso.
Scassapagliara. E il termine comincia ad avere ora una certa fortuna: nel giornalismo, nel lessico nazionale. Ed ho voluto fissarne il significato originale, nel dubbio che la parola segua la stessa sorte di quella lupara che ormai quasi tutti credono sia un'arma, e precisamente il fucile a canna mozza, mentre è invece il piombo che si usava per la caccia al lupo, per la caccia grossa; i pallettoni, insomma, i goccioloni del Tommaseo.
S'intende oggi per azione di scassapagliara ogni fatto delittuoso che avviene in Sicilia in zona mafiosa ma senza l'intervento della mafia. I colpi più o meno grossi, i delitti più o meno efferati: ma dilettanteschi, senza radici nell'humus fecondo e protettivo dell'ambiente; e anzi l'ambiente subito li rigetta, rendendo facile alla polizia la ricostruzione del crimine e l'identificazione dei colpevoli.

- Leonardo Sciascia - da "Nero su Nero" -

sabato 21 settembre 2013

ragazzi

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Newark, Stati Uniti, 1943. Robert (Baby Face) Naschik, 16 anni, arrestato con l'accusa di rapina a mano armata, in seguito alle descrizioni fornite alla polizia dagli avventori del bar and grill in cui è avvenuto il fatto. Il giovane, che ha ammesso di aver compiuto trenta, fra rapine e furti, è scappato il 5 luglio dal Riformatorio di Stato del New Jersey. (foto Corbis)

venerdì 20 settembre 2013

Sveglia!

Bussatori

Per lo più, usavano delle lunghe aste fatte di canna di bambù ma, come si può vedere nella foto a sinistra qualcuna si ingegnava utilizzando una cerbottana, per picchettare alla finestra del cliente che aveva richiesto di essere svegliato ad una certa ora, dubbioso di riuscire a levarsi tutte le mattine, da solo, per andare al lavoro. Li chiamavano 'knocker-ups' nella Londra di fine '800 (ma la foto a destra è stata scattata nel 1929!) dove ancora non si erano diffuse ... le sveglie!

giovedì 19 settembre 2013

l’estetica della merce

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Dall'estetica della merce all'estetica della crisi
di Robert Kurz
 
La moderna economia di mercato tende a dissolvere ogni contenuto nella forma. La forma del valore economico, pur non potendo mai realmente esistere senza contenuto, mira, per la sua logica interna, all'autonomizzazione. Il denaro diventato scopo in sé, rende indifferente il contenuto. Un «guru» del management ha riassunto questo fatto in questa semplice formuletta: «Per avere successo devi credere in qualcosa - non importa in che cosa». I produttori di caramelle credono alla necessità storica delle caramelle e vi prestano ogni giorno un sacro giuramento; i produttori di reggiseni, fondi di investimento o bombe atomiche, si devono riferire con la stessa fede al loro oggetto di mercato. Chi cambia settore muta dunque anche la sua fede e la sua comunità di fede. E con ogni nuovo prodotto nasce una nuova religione del marketing. Lo stesso politeismo si trova sul lato del consumo. Anche se gli attori del mercato totale non hanno più alcuna personalità e non sono più niente in quanto esseri umani, tuttavia anche i più poveri tra di loro sono ancora in qualche modo consumatori di merci. Perfino coloro che sono stati espulsi dalla produzione regolare possono ancora riassumere la loro appartenenza al mondo delle merci secondo la formula: consumo, dunque sono.
Questa formula magica capitalistica conserva la sua forza proprio quando si tratta di un orizzonte di meri desideri, che per mancanza di potere d'acquisto rimangono in gran parte irrealizzabili. Sia che il consumo sia reale, oppure si svolga solo nella fantasia, gli oggetti dei desideri si trasformano comunque in oggetti di culto. Quanto più gli individui perdono d'importanza, tanto più si caricano di significato perfino gli oggetti più insignificanti della vita quotidiana. L'aura secondaria, e quasi religiosa, degli oggetti di produzione e consumo è naturalmente solo simulata. Lo si vede già dal fatto che sono assolutamente intercambiabili.
Dal momento che l'indifferenza della forma capitalistica nei riguardi di ogni contenuto sostanziale diventa insopportabile, il rapporto perduto con la qualità sensibile degli oggetti deve venir ripristinato in modo allucinatorio. Questo processo assume la forma di un gioco, ma non di un gioco intelligente, bensì infantile. Tutti sanno che per la maschera sociale del capitale, il carattere materiale, di volta in volta diverso, di cibi, vestiti o edifici e di tutte le altre cose, è completamente nullo, perché tutte queste cose appaiono sempre come lo stesso oggetto del denaro, il quale cambia la sua forma, come Proteo. Poiché questa nullità del contenuto sociale non deve venir intaccata, la carica allucinatoria delle merci si deve riferire a qualcos'altro: la qualità sensibile persa viene simulata sul piano della forma estetica. Il totalitarismo della forma rimane dunque intatto; l'indifferenza della forma sociale non viene superata, ma travestita esteticamente.

kurz benjamin

L'estetica della merce non deve però venir confusa con l'estetica delle opere d'arte. L'arte tradizionale si pone come uno dei suoi obiettivi quello di superare la contraddizione tra forma e contenuto; e lo fa attraverso il tentativo sempre rinnovato di conferire un'immediata espressione sensibile «alla cosa stessa». Fa perciò parte dell'estetica di un'opera d'arte il rimanere, anche quando diventa «tecnicamente riproducibile» (Walter Benjamin), in un certo senso sempre unica e inconfondibile: non come esemplare singolo, ma nella sua combinazione unica di materia e forma. Anche in milioni di copie, la Giraffa che brucia di Salvador Dalí, il Discobolo di Mirone o una canzone hip­hop di Dr. Dre rimangono una rappresentazione unica e irripetibile. Su questo piano non esiste riproducibilità tecnica.
L'estetica della merce invece è design: non espressione della «cosa stessa» ma, al contrario, vestito della sua universalità astratta come oggetto del vendere e del comprare - e dunque tutt'altro che inconfondibile. L'arte può essere formalmente merce, ma la merce non può mai essere arte per il suo contenuto. Perciò il design non è una questione artistica, ma appartiene all'ambito del marketing. Il design non cerca di conferire a un determinato contenuto qualitativo una forma che corrisponda a questo e al suo contesto; vuole piuttosto caricare la nullità totale del contenuto con un'aura di significato secondario. Come il contenuto sensibile e materiale della merce capitalistica non è autonomo, bensì figura solo come portatore indifferente del valore economico, così anche la forma del design non ha un significato estetico proprio, bensì rimanda a una funzione al di là del suo nesso con la materia casuale.
Questa funzione è l'«immagine» della merce. Da molto tempo, la pubblicità cerca di collegare dei volgarissimi beni di consumo per mezzo di sentimenti positivi. Non si ama l'oggetto stesso, nel modo in cui, per esempio, qualcuno può amare un vecchio mobile che ha accompagnato la sua vita. Piuttosto, un bene di per sé banale (o addirittura idiota) deve diventare «rappresentativo» di determinati sentimenti sociali. Come si sa, le campagne pubblicitarie suggeriscono che insieme ad un sapone si compra, allo stesso tempo, anche fascino e bellezza; insieme ad una cioccolata il successo; e con un'automobile il sex-appeal o la libertà. I sogni e le invenzioni personali vengono piuttosto rimossi in questo modo, poiché 1'immagínazione della merce punta a dei cliché: la donna bella e sicura di sé, l'uomo forte e pieno di successo, la figura giovanile, l'anziano ancora attivo ecc. Benché l'inganno sia relativamente facile da comprendere cognitivamente, esso può ugualmente agire inconsciamente. Questo vale tanto di più quando si sposta la relazione estetica tra la merce e la sua immagine. Nella totalizzazione del mercato aumenta il capovolgimento di mezzo e fine: la pubblicità non rimanda più al prodotto, ma il prodotto annuncia la gloria della pubblicità. Gli oggetti perdono definitivamente la loro dignità.

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La loro forma estetica si stacca virtualmente dalla materia, diventando il design di un'immagine a forma di merce. In questo contesto troviamo anche il fondamento sociale delle filosofie postmoderne e delle teorie dei media, che vogliono appianare sul piano della teoria la differenza tra essenza e fenomeno, concetto e oggetto, significato e significante. Esse riflettono inconsapevolmente il distacco progressivo del design dal corpo della merce. La trasformazione specificamente postmoderna della gnoseologia in estetica è sempre già un'estetica della merce. Il design autonomizzato dell'immagine delle merci si mette al posto del godimento di oggetti reali. Nell'ex-socialismo di stato, ugualmente produttore di merci, gli uomini partecipavano, sul piano socio-psicologico ed estetico, al capitalismo privato dell'economia di mercato, in quanto raccoglievano i contenitori vuoti ed il materiale di imballaggio delle merci occidentali come oggetti artistici e di culto, per esempio bottiglie vuote di Coca-Cola. Un feticismo simile si vede quando oggi bambini e giovani trasferiscono la loro immaginazione sui nomi e sui simboli di alcune marche di vestiti, giocattoli e giochi elettronici. Non è la particolare qualità sensibile e pratica a diventare status symbol, ma la marca. L'estetica del segno astratto sostituisce l'estetica dei contenuti.
Quando la riproduzione materiale, il godimento sensibile, l'estetica delle cose stesse e la prassi reale vengono socialmente abbassate ad effetti collaterali e senza importanza, allora il design, in quanto mera immagine, può sostituire quasi completamente l'oggetto degradato. Non a caso, la commercializzazione totale va di pari passo con una medializzazione altrettanto totale. La realtà ingombrante deve sparire perché il capitalismo vada liscio e senza frizioni. Guy Debord ha descritto precocemente questa tendenza come «società dello spettacolo». L'autonomizzazione del design continua con la vittoria della pseudo-realtà simulative dei media sulle esperienze e sulle relazioni reali. L'immaginazione permanente di cliché distrugge l'infinita varietà del reale. Nel gergo giovanile postmoderno, sia gli atteggiamenti personali che gli eventi reali vengono chiamati «film».
Se la realtà è il «film» peggiore, allora il «film» è forse la realtà migliore.

kurz superman

Questo sviluppo del capitalismo postmoderno che ci ha portato fino alla perdita assurda del concetto di realtà, sarebbe impossibile se non trovasse il suo corrispettivo nella forma dei soggetti stessi. Negli anni Ottanta si è compiuta e radicalizzata la tendenza storica, del moderno sistema produttore di merci, ad attuare la dissoluzione di tutti i legami sociali attraverso un'ultima grande avanzata dell'«individualizzazione». Ognuno è il proprio Dio, il proprio schiavo, il proprio allenatore e il proprio film dell'orrore. Anche questo estremo avanzamento dell'individualità astratta viene investito dall'estetica della merce: ognuno è la propria opera d'arte totale [Gesamtkunstwerk]. Come gli índividui adesso si trasformano non solo con la loro forza-lavoro, ma letteralmente dalla testa ai piedi in «merci bipedi», così essi immaginano se stessi come un design vivente. Il mondo dei produttori e consumatori di merci diventa un grande palcoscenico (o schermo) e ogni uomo l'attore di se stesso.
Al posto di relazioni e conflitti sociali subentra la «messa in scena di se stessi», di finte personalità che lavorano all'estetizzazione della loro biografia. Riferiscono immediatamente a se stessi tutto ciò che vedono e sentono: il mondo esiste, sempre ed ovunque, solo perché fa parte del «mio» design. Tutto ciò ricorda fortemente i sintomi clinici della schizofrenia. Non solo indumenti e oggetti di arredamento, ma anche scenari storici, paesaggi interi, la propria famiglia e infine pure il partner nel letto appaiono come meri accessori dell'autorappresentazione messa in scena. Perfino la prima colazione in casa si trasforma in uno spot pubblicitario. Anche la critica sociale e il corpo diventano immagini autonome o mero materiale d'imballaggio. Da qualche anno, ogni estate si radunano a Berlino centinaia di migliaia di giovani per la "love parade". Si tratta non solo di una parodia commercializzata delle manifestazioni politiche di una volta, ma soprattutto di una rappresentazione massiccia di design erotico. I guardiani conservatori della morale si scandalizzano inutilmente di fronte alla messa in scena di denudamenti bízzarri: questi giovani non sono più sessuali di quanto lo siano dei manichini da vetrina. Più si sessualizza il design e più diventa pudico il comportamento. L'attività erotica reale degli individui postmoderni è caduta sotto il livello dell'epoca vittoriana.
Inevitabilmente, la metamorfosi del "Sein" che si trasforma in design si estende alla fine anche ai fenomeni del degrado sociale ed economico, alle crisi ed alle catastrofi. Il postmodernísmo è possibile perfino in una variante misera. Se e quando nel passato la povertà è stata estetizzata, si trattava sempre della povertà degli altri. Le viventi opere d'arte totali postmoderne estetizzano invece la propria povertà. Perfino il lavoro più misero, genere McDonalds, diventa un soggetto estetico importante, poiché ad esercitarlo è nientemeno che il rappresentante di un'autobiografia che viene messa in scena. L'indifferenza del design autonomizzato nei confronti di ogni contenuto si dirige così contro i soggetti stessi della messa in scena. Naturalmente, quest'estetizzazione della crisi non è prolungabile all'infinito. Presto o tardi verrà raggiunta una soglia critica. Ma come si comporteranno allora gli uomini degradati a design del proprio essere merci?
L'estetizzazione della violenza da parte del fascismo ha forse già prefigurato la fine terribile del postmoderno.

- ROBERT KURZ _

fonte: ozio produttivo