Pagghiaru nel Palermitano, pagliaru nelle province di Agrigento e Caltanissetta, è «stanza di frasche e di paglia, dove ricoverare la notte al coperto quegli che abitano la campagna. Capanna». Così nel dizionario siciliano del Mortillaro; e così io li ricordo, i pagliara (plurale in a) di cui nell'estate si animava la campagna: a guardia del grano falciato, degli orti; e un pagliaru alloggiava intere famiglie, nelle ore calde e quando si faceva pungente il gelo della notte. Non più di quattro metri quadrati, dentro: e vi si ammonticchiavano un numero incredibile di persone. Alle prime piogge, cominciavano a infradiciare; finché, raccolta l'ultima mano di pomodoro, non venivano smontati. E la famiglia tornava in paese, al triste autunno tra le case. Di cose, dentro un pagliaru, ce n'erano pochissime: un paio di pentole di coccio, una per preparare la minestra (quasi sempre minestra: e chi passava di sera vicino a un pagliaru sentiva l'odore della cipolla che bolliva insieme alla zucca, al pomodoro, all'aglio) e una per l'estratto di pomodoro; tanti piatti quante erano le persone, e così le posate dette di stagno, ma erano di peltro, immemorialmente ereditate; pochissima biancheria e, ma non sempre, un paio di vecchie coltri di cotone.
Andare a rubare in un pagliaru, nei rari momenti in cui restava incustodito, sarebbe stato dunque tanto facile quanto infame: e perciò scassapagliara erano detti i ladruncoli, quelli che rubavano povere cose a gente povera quanto loro. Ironia, disprezzo: i pagliara erano sempre aperti, che abilità c'era ad entrarvi e a rubare? E che se ne cavava, poi? Qualche piatto, una pentola, un mazzetto di posate di stagno, un paio di stracci.
Ladro povero, dunque, lo scassapagliara. Senza sentimento. E senza dignità di ladro. La quale dignità sembra consista, oltre che nell'entità del bottino, nella capacità di guadagnarselo con qualche difficoltà: lo scassinamene, l'effrazione. Nessuna difficoltà e nessun frutto: l'estrema abiezione, per un ladro. E perciò su di lui scende il disprezzo del ladro grosso, del ladro che ha mestiere, regole e sentimenti. Del mafioso.
Scassapagliara. E il termine comincia ad avere ora una certa fortuna: nel giornalismo, nel lessico nazionale. Ed ho voluto fissarne il significato originale, nel dubbio che la parola segua la stessa sorte di quella lupara che ormai quasi tutti credono sia un'arma, e precisamente il fucile a canna mozza, mentre è invece il piombo che si usava per la caccia al lupo, per la caccia grossa; i pallettoni, insomma, i goccioloni del Tommaseo.
S'intende oggi per azione di scassapagliara ogni fatto delittuoso che avviene in Sicilia in zona mafiosa ma senza l'intervento della mafia. I colpi più o meno grossi, i delitti più o meno efferati: ma dilettanteschi, senza radici nell'humus fecondo e protettivo dell'ambiente; e anzi l'ambiente subito li rigetta, rendendo facile alla polizia la ricostruzione del crimine e l'identificazione dei colpevoli.
- Leonardo Sciascia - da "Nero su Nero" -
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