Picasso e Guernica, hanno oramai dato luogo ad un'associazione di parole inestricabile. Commissionato per il Padiglione della Spagna repubblicana presso l'Esposizione Mondiale che ebbe luogo a Parigi nel 1937, "Guernica" riesce ancora oggi, con il suo linguaggio visuale, a dare forma alla sofferenza umana con una potenza senza pari. Il quadro segnò anche l'inizio di quella che sarebbe diventata una "reputazione"; quella di un Picasso pacifista che sfidava il fascismo e che tale sarebbe rimasto anche durante l'occupazione di Parigi, per poi aderire al Partito Comunista Francese (PCF) al momento della liberazione della città. La storia sarebbe, più o meno, questa: esiliato dalla Spagna e pienamente consapevole dell'entità della minaccia alla civiltà, costituita dai falangisti, Picasso si unì alla "famiglia comunista", diventando una delle voci più forti nella lotta contro la tirannia fascista e capitalista, insieme. Il petto, a questo punto, tende a gonfiarsi, incontrollabile! Ci viene messa a disposizione una bella figura retorica: l'esule dalla sua propria terra, poi l'impeto della ribellione che gli dà voce, e infine l'autocrate depravato che lo condanna al silenzio. Ci si può far rientrare, in questo, Omero ed Hemingway, allo stesso modo. E ce n'è abbastanza perché ci si possa dimenticare che stiamo parlando di un pittore.
Ma la storia tende sempre a raccontarsi, in barba anche - e forse soprattutto - alle figure retoriche; così succede che Genoveva Tusell Garcia pubblica uno studio su "The Burlington Magazine" (scaricabile qui), in cui, citando la corrispondenza intercorsa fra il pittore ed il governo del generalissimo Franco, dimostra come - sebbene prevalesse un atteggiamento di ostilità nei confronti di Picasso - alcuni membri del governo consideravano potesse essere vantaggioso addomesticare un po' la sua reputazione e condividere i suoi successi. Perciò, nel 1957, si avvicinarono al pittore per discutere sulla possibilità che le sue opere ritornassero nei musei spagnoli, organizzando anche, per l'occasione, una retrospettiva.
La cosa "straordinaria" sta nel fatto che, non solo Picasso partecipò a questi colloqui, ma accettò in via provvisoria le loro condizioni: "Spero che Franco possa vivere più a lungo di me" - disse, riferendosi "con un misto di ostinazione e tristezza" alla sua posizione politica, considerata come un obbligo. I rappresentanti del regime sapevano bene dove sarebbero andati a finire gli "obblighi di Picasso", se il loro piano fosse andato in porto. La prospettiva che si presentava loro davanti, era quella di "uccidere il mito politico di Picasso". Ma a causa di una fuga di notizie riguardo ai colloqui in corso e per colpa di alcune indiscrezioni che emersero sulla stampa francese (si parlava erroneamente del fatto che perfino il "Guernica" avrebbe fatto un "viaggio in Spagna"), non ci fu alcun seguito.
Le prove prodotte dalla Garcia, pongono dei seri interrogativi circa il modo in cui viene scritta "la storia", e le domande non sono quelle che ci può aspettare. Perché qui non si tratta di mettere in dubbio le convinzioni di Picasso, il suo odio per il fascismo, o la sincerità che sottende alla realizzazione del "Guernica". Anzi, sono proprio queste certezze a conferire urgenza al bisogno di trattare simili questioni. E la questione riguarda i fatto di come, dopo Pétain e il governo collaborazionista di Vichy, quello che emerse con forza nel panorama politico francese fu una vera e propria "fame di eroi". Il PCF, stalinista, si dovette occupare di svolgere un enorme lavoro di "relazioni pubbliche" per rimpiazzare l'immagine del patto sovietico con i nazisti, per mezzo di tutta una serie di immagini emotive legate alla Resistenza e alla Liberazione. A tal fine, Picasso era come il cacio sui maccheroni: a differenza di molti suoi compagni non poteva essere rigidamente inquadrato negli schemi provenienti da Mosca. Lo zdanovismo non era il gioco di Picasso. Desideroso di trarre profitto dalla sua notorietà, il PCF elaborò un piano che consisteva di due passaggi. Cominciò ad avallare, appropriandosene, una percezione pubblica di Picasso (basata su una presunta "libertà estetica" e sull'impegno per la "pace"); ma non la sua arte. Il partito separava l'uomo dal suo lavoro. Insomma, Picasso era l'artista più famoso del mondo, ed era un comunista. Solo che la sua arte era irrilevante per la sua politica. E la sua politica era determinata dall'affiliazione al Partito e alla potente macchina di propaganda.
Tutto quanto questo, di fatto, è sopravvissuto allo scorrere della storia e, ancor oggi, ha deformato il nostro giudizio. In tutti questi anni, è stato continuamente riciclato dagli studiosi che invece cercavano di estrarre l'arte di Picasso da un contesto politico che ritenevano sgradevole e cercando di risolvere il gap che separava l'uomo dalla sua opera, innalzando la sua opera al livello del mito. Si sono bevuti la storiella del Partito che faceva di Picasso un guerriero della "guerra fredda", ed hanno allucinato, nelle sue ultime opere, un impegno che si sarebbe svolto sotto forma di allusioni ad eventi globali e a cause umanitarie. L'impegno personale di Picasso è provato dalle lettere che riceveva - e cui raramente si prendeva la briga di rispondere.
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