giovedì 26 settembre 2013

Casini

Politicamente scorretto e, senza dubbio, fuori sesto rispetto al tempo presente - e per di più con l'aggravante di un brutto titolo -, quest'articolo di Guido Vergani pubblicato su Repubblica nel luglio 1985 ha il pregio di trattare un argomento "sconveniente" situandolo nel proprio contesto; un po' la stessa operazione che fece Lina Wertmüller con "Film d'amore e d'anarchia". La ritengo una lettura interessante, in quest'epoca in cui c'è chi ha riscritto l'Huck Finn di Mark Twain, per poterlo depurare da termini come "negro", e chi addirittura pretende di mettere mano al Mercante di Venezia di Willy the Shake, per privarlo degli aspetti "anti-semiti". Il "già corposo giovanotto"  che - alla fine della storia - ha la fortuna di poter diventare "un pezzo grosso della nostra repubblica" è quello raffigurato nell'ultima foto e che, negli ambienti, era conosciuto con il nomignolo di "Gina". Sì lo so anche questo è politicamente scorretto. Che ci volete fare? Potete sempre farvi un bel bagno con le parole della Boldrini, per ripulirvi!!

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Se nasceva un sentimento nelle case dell'amore
di Guido Vergani

Mentre Yvonne, la polesana, e Wanda, l'emiliana capace di tenere un turacciolo sotto il pelo dell'acqua di un bicchiere con il frenetico guizzare della lingua, accendevano di promesse erotiche i salottini della tolleranza, poteva succedere davvero di tutto. Niente di dannato, niente che assomigliasse a un inferno del sesso. Il "tutto" che succedeva fuori, al di là delle persiane chiuse, perché "quelle case", soprattutto se non erano di battaglia e di marchette all' ammasso, rappresentavano una succursale dei caffè, un luogo di chiacchiere fra amici vivificate dal balenare di un capezzolo, dai languori o dai disponibili fervori di lussuria di quegli harem a prezzo fisso. Succedeva di tutto. Nei pomeriggi e nelle sere di una società maschile che, al di là delle ore familiari e dei vigilatissimi fidanzamenti, escludeva le donne, il casino diventava persino luogo di studio. Si faceva flanella, preparando gli esami di maturità. La "maîtresse" cantilenava: "In camera, andate in camera. Date commercio", ma chiudeva un occhio su quei due ragazzi che, nel "prima categoria" di San Remo, erano intenti al latino e alternavano Seneca ai rapimenti per la bionda Wally: uno studio proficuo, se si pensa che quei due liceali sono, oggi, fra i protagonisti di vertice del giornalismo e della letteratura. Facevano flanella da "Saffo", a Firenze, quelli della "Voce", continuando gli alti discorsi politico-culturali iniziati al caffè delle "Giubbe Rosse" e incuriosendo le quindicine al punto da legittimare, come ricorda Pietrino Bianchi nel suo libro Le signorine d'Avignone, le vanterie di Ardengo Soffici che assicurava: "Noi della Voce abbiamo lettrici attentissime nelle case chiuse".

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L'irsuto cattolicesimo di Giovanni Papini, capintesta di quelle intelligenze, si ribellava alla singolare propaganda di Soffici, ma non si ribelleranno Attilio Bertolucci, Spagnoletti e Cesare Zavattini se la testimonianza di un mentore dell'intellettualità parmense li cita nel gruppo che dal caffè Tanara di piazza Garibaldi portava le sue discussioni di poesia, il suo accanimento letterario nel salotto verde di Borgo Tasso, dove la signora Gina riceveva gli ospiti di riguardo e permetteva lunghissime e dotte flanelle. Una decina d'anni prima, gli avanguardisti del teatro che Bragaglia radunava in una cantina della romana via degli Avignonesi non mancavano di traslocare le loro febbri artistiche fra le femmine del "N. 10", fra le veneri a tassametro, fra le quindicine di primissima scelta reclutate dai tenutari Tabucco e Bottiglion. Avevano diritto a uno sconto sulla "doppia", purché rispettassero senza indiscrete curiosità il grido di "libero, libero" che la "maitresse" lanciava a mo' di ordine tassativo, quando si preannunciava la visita di un personaggio di riguardo. Nel gergo dei casini, quello era il "momento del monsignore".
Non si trattava di alti prelati posseduti da improvvise tentazioni. I "monsignori" erano gli altolocati, i clienti che non volevano essere riconosciuti. Ne vantava anche il "Porlezza" di Milano che, nonostante la tariffa (25 lire per la "semplice"), era, negli anni Trenta, la consueta tappa serale dei "cappotti lisi", il gruppo degli intellettuali che avevano trovato lavoro da Rizzoli, da Mondadori, ma non avevano ancora sfondato e tiravano la vita con i denti: Salvatore Quasimodo, il futuro Nobel, Leonardo Sinisgalli, Raffaele Carrieri, Giuseppe Marotta, Alfonso Gatto, Arturo Tofanelli. Furono loro i ciceroni delle giornate milanesi di Le Corbusier che era già un mito dell' architettura. "Organizzarono un giro by night", racconta Gaetano Afeltra che era, allora, un ragazzino, "Mangiammo al "Pesce d' oro" di largo Santo Stefano. Poi, via nella notte. Lì accanto, c'erano le case del Bottonuto, del Poslaghetto. Ma, dopo una carrellata del liberty, uno sguardo alla "Ca' bruta" di Muzio e ai nascenti marmi dello stile piacentiniano, puntarono verso i veli e i profumi, gli scuri legni di "San Giovanni sul Muro", detto anche "Porlezza" perché faceva angolo con quella via. Io c'ero già stato nel pomeriggio, per festeggiare i miei diciott'anni. Sciura Maria, la portiera, mi vide e borbottò "ancora!". Era sospettosa. Sapeva che quei tipi avevano la frequentazione facile e la "consumazione" difficile, dati i prezzi. Ci aveva inquadrati come flanellisti. Ma Le Corbusier la intimorì, con un gesto che garantiva almeno una "doppia". Salimmo al primo piano. Non ricordo se la grande firma dell'architettura consumò. Ricordo che, mentre veniva assediato dalle signorine in quel salottino dall' arredo alberghiero, chiese carta e matita. La signora Bigina, una " maîtresse" che non incitava alla camera ma non ammetteva neppure pigrizie nei divani, non fiatò. Le Corbusier cominciò a disegnare le linee di un'ideale casa di piacere. Un raptus creativo. Quel disegno sparì. Qualcuno sospetta sia stato l'architetto Pollini, il padre del pianista, a incamerare quel cimelio".

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Soffici e Prezzolini maturavano in casino i contenuti della "Voce". Le avanguardie di Bragaglia rispettavano la tradizione amatoria in via degli Avignonesi. Le Corbusier progettava al "Porlezza". Intere generazioni di italiani ossigenavano di visioni erotiche gli studi, le meditazioni per la tesi di laurea sotto gli sguardi, materni, protettivi delle "orizzontali", mentre le direttrici dall'alto della cassa ruminavano lo sprone: "Fate lavorare le signorine che sono brave". Nei casini succedeva di tutto: un tutto che spesso aveva poco a che fare con la voglia d'orgasmo. Nella quotidianità, era un continuare la vita, le serate al caffè, l' abitudine degli incontri al biliardo, le amicizie, i sodalizi intellettuali, in una sorta di bagnomaria del voyerismo, dell'occasione facilissima se d'improvviso arrivava l'uzzolo di una "sveltina". I casotti erano ovviamente il luogo deputato dei riti fallici legati all'addio al celibato, al debutto della virilità quando scattavano i 18 anni (ma la scolorina e la complicità delle "maîtresse" permettevano di anticipare quelle fatidiche date), alle feste dei coscritti, ai riti goliardici che obbligavano le matricole di Pavia a correre, in gara, verso la "Grotta Azzurra", trasportando in carriola un "anziano" per vincere un'intera giornata di carezze e sgroppate. Erano la garanzia di orgasmi igienici e digestivi, di fisiologiche cadenze settimanali per chi non aveva mogli e amanti, per i timidi. Erano considerati la necessaria palestra di rodaggio per i giovani e, al "Dollaro" di Napoli, Tosca, una veemente, bruna ciociara, si pubblicizzava passando fra i clienti e dichiarando: "Ne ho sverginati ottocento". Ma non è mai questo aspetto più marcatamente sessuale che le melanconiche memorie degli ex clienti portano in primo piano. Raramente, le narrate nostalgie (sono quasi sempre nostalgie per la lontana giovinezza, non rimpianti per il sistema delle case archiviato dalla legge Merlin) enfatizzano il lato erotico della tolleranza perché, in tal senso, la materia era scarsa e per niente orgiastica.
I "paradisi" erano fuggevoli assai più di quei venti minuti stabiliti, nel 1862, dal governo Rattazzi come tempo medio di una "semplice", con una visione piuttosto generosa delle cadenze di una marchetta. Fuggevoli e sostanzialmente frigidi, da conigli. La memoria di quel sesso non indulge mai a descrizioni di acrobazie, di molteplici e dannati deliri, di partite a tre, di amplessi sotto l'occhio del "guardone" a cui, per 75 lire negli anni Cinquanta, la "maîtresse" riservava un pertugio sulle prospettive amatorie. Grigio di chiome e bolso di orgasmi, qualcuno tramanda le qualità erotizzanti delle dorate sedie a trono del milanese "Disciplini" destinate ai lavori di bocca, degli specchi di "San Pietro all' Orto" che moltiplicavano, in un gioco di riflessi a catena, le sinuosità delle "faticatrici". Ma, nel tema sesso, la memoria batte e ribatte su virtù lontane mille miglia dall'idea dell' erotismo sfrenato e dannato.

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Le "signorine", lo scrive Mario Soldati, erano "amabili e soccorrenti figure" e i rapporti "squisitamente e profondamente umani". Se Paolo Valera, reporter ottocentesco nel "ventre" di Milano, descriveva spietatamente il cadavere di Ermenegilda Bianchi, la "zia", l'imperatrice delle "maîtresses" ("Ho provato ad alzarle la palpebra che faceva sepolcro alle sue porcaggini e ho subìto un'impressione disgustosa"), Soldati parla di queste registe dei casini, del "Massena", del "Raffaello" di Torino, dei romani "Fontanella Borghese" e "Grottino", ricordando "il garbo paziente e insinuante, la dolcezza, la familiarità, il senso di sicurezza e di protezione". La memoria, insomma, tradisce una realtà: in quelle case, il maschio non era gallo, ma pulcino e spesso spaurito, bisognoso, appunto, di "figure soccorrenti". Non è, dunque, il sesso a infittire le sempre tenere evocazioni dalla parte dell'ex clientela. E' ricorrente, invece, una debolezza d'orgoglio. Nell'esercito dei frequentatori, ormai nonni, sono pochi quelli che non sbandierano un amorazzo da casino. Ai tempi, venivano chiamati, nel gergo delle case, "lime", "capperi", "torcinoni". Erano, scriveva Giancarlo Fusco, i "fidanzati della tolleranza". I più spavaldi si vantavano: "L'ho fatta godere". Ma i più dicevano agli amici: "Mi ha dato un appuntamento fuori, quando finisce la quindicina". Nella memoria, ognuno ha una ricambiata cotta sullo sfondo di "Borgo Tasso" a Parma, di Vico Lepre e del "Castagna" (nel dopoguerra, la maîtresse timbrava una scheda e, ogni tre marchette, ne regalava una) di Genova, del "Ferrovia" di Napoli, dell'"Orientale" di Venezia. E' il solo risvolto di letto, d'alcova nei ricordi e non a caso il sesso ne esce intenerito dall'amore, dalle passioncelle. Nessuno mitizza l'erotismo della tolleranza, mentre le melanconie tambureggiano sugli arredi, sulla "belle èpoque" dei lampadari, delle statue di "San Pietro all'Orto" che era provvisto di una camera con botola e passaggio segreto sino alla strada per chi voleva concedersi un orgasmo in clandestinità, sulla perfetta dentatura delle ragazze del milanese "Alberto Mario" che pagava alle "signorine" i servizi di un odontoiatra, sui profumi delle case che era soltanto un sovrabbondare di colonie, di essenze per debellare l'indebellabile sentore di lisoformio, di creolina, di permanganato di potassio, di sudori e umori degli amplessi. Nella "recherche" dei casini perduti, l' autentico "leit motiv" è quel "succedeva di tutto", a testimoniare come i bordelli non fossero che una succursale della vita quotidiana separata soltanto dalle persiane inchiavardate.

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"In anni grami, passava in casino anche la storia e il clima del casino la poteva cambiare", racconta un fedelissimo della "Rina" di Firenze. Passava la politica, il fascismo e l'antifascismo. "La "Rina" era il punto d' incrocio fra repubblicani e gappisti", racconta. "Il capitano Carità, un commerciante di radio di via Calzaioli che si specializzerà in torture, era un assiduo. Ma assiduo era anche Paolo Pavolini, un partigiano che, più tardi, a guerra finita, diventerà una firma del giornalismo. Pavolini aveva una grande dimestichezza con la "maîtresse". Ogni settimana, portava le ragazze in carrozza alle Cascine, perché prendessero aria. Quando gli alleati si avvicinarono alla città e i tedeschi minarono tutti i ponti dell'Arno, "La Rina" dovette traslocare. Portò letti, specchiere e veneri in casa di Pavolini che, intanto, aveva messo a punto un attentato: l'uccisione di un già corposo giovanotto che aveva avuto la debolezza di collaborare a un giornale repubblichino e che, oggi, sta nell' empireo dell'alta politica. Tutto era pronto. Il commando avrebbe dovuto agire alle otto di mattina di un lunedì. Ma, nel mezzo c'era la domenica e fu, nella casa di Pavolini trasformata in compiacente "maison", una domenica di baldoria. Durante il trasloco, "La Rina" aveva perso Dedè, la più bella della quindicina. Pianti, ansie, preoccupazioni. Dedè riapparve proprio quella domenica. La credevamo finita chissà dove e festeggiammo, con una mangiata, troppe bottiglie di rosso e una nottata che la madama ci concesse senza tariffa. Festeggiò anche il padrone di casa che avrebbe dovuto guidare il commando gappista. E, il lunedì mattina, non si svegliò. Un pezzo grosso della nostra Repubblica deve la vita all'umanissimo clima, alla deboscia di una casa di tolleranza, dove probabilmente lui non ha mai messo piede".

- GUIDO VERGANI – da “la Repubblica”, del 27 luglio 1985

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