mercoledì 30 settembre 2020

Un’altra strada

Sempre sul suo libro sulla rinuncia di Benedetto XVI ("Il mistero del male"), Agamben commenta a partire da Paolo questa caratteristica della Chiesa che è fondamentalmente una caratteristica del linguaggio e del pensiero: Cristo e l'Anticristo convivono come sostanze all'interno di una medesima entità, male e bene, coesione e implosione. L'evento messianico è quell'evento che sospende tale tensione, risolvendola sia storicamente che metafisicamente: in certo senso, l'avvento del Messia instaura la completezza dell'arco ermeneutico e, quindi, tutto avrà un senso, tutto verrà spiegato, e quella che l'impurità della miscela tra bene e male verrà eliminata.
Per fare un esempio, la narrativa di Kafka viene spesso letta - da Benjamin, Blanchot, Agamben - come se fosse una riflessione su questa impossibile completezza dell'arco ermeneutico (il morto che non riesce ad arrivare mai alla fine della scala; la porta che non si apre; il castello al quale non si riesce ad arrivare, ecc.) Un contemporaneo di Kafka, Mikhail Bulgakov (1891-1940), riesce a rompere questa incompletezza, e non lo fa attraverso la via messianica redentrice di Paolo, ma altrimenti, per mezzo della rottura dell'armonia: Satana e il suo seguito sono a Mosca, in visita, per incontrare poeti, editori, burocrati ed ogni genere di persone che cercano di vivere la propria vita in pieno regime comunista. A Bulgakov gli ci vollero quasi due anni per portare a termine Il Maestro e Margherita, dettando alla moglie le sue ultime revisioni, nel marzo del 1940, qualche settimana prima della sua morte.
L'epigrafe che pone al suo libro, Bulgakov la prende dal Faust di Goethe: « ...Dunque tu chi sei? Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene.»
Ma non è forse di questo che parla Agamben, facendo uso di Paolo e dei Padri della Chiesa? Goethe, come al solito, funziona da baricentro della tradizione, assorbendo e riconfigurando in sé infiniti strati su strati di significato: ci sarebbe una «forza» che custodisce in sé «male» e «bene»; e oltre tutto, «volere» e «operare» si trovano in intima correlazione, sebbene continuino a rimanere in tensione (è per questo che Giuda deve tradire; ecco perché Giobbe ha bisogno di soffrire, ecc.).

fonte: Um túnel no fim da luz

martedì 29 settembre 2020

L'Arci-Istituzione

Se la letteratura è un'istituzione (una «strana istituzione», come dice Jacques Derrida, dicendolo proprio perché essa si trova sempre continuamente a fare i conti con quella che è la propria dissoluzione], essa deve essere considerata come l'istituzione che rende possibili tutte le istituzioni: una arci-istituzione. Dal momento che se il limite del linguaggio è il limite del mondo - come ha scritto Wittgenstein nel Tractatus - il limite del linguaggio come istituzione segna il limite di quella che è la vera e propria costituzione potenziale delle istituzioni. Nel suo libro sulla rinuncia di Benedetto XVI, "Il mistero del male", Agamben scrive che il gesto della rinuncia servì a fare luce sul doppio corpo della Chiesa; una sorta di contraddizione costitutiva di quella che era l'istituzione stessa, la quale racchiude in sé, simultaneamente, due nature: una malefica e l'altra benefica, se non addirittura, il Cristo e l'Anticristo: «  Quest’uomo, che era a capo dell’istituzione che vanta il più antico e pregnante titolo di legittimità, ha revocato in questione col suo gesto il senso stesso di questo titolo. » Ed è proprio dalla massima legittimità dell'istituzione che deve provenire il gesto di rottura con la dinamica stabilita nella, e dalla, istituzione (in forma paradossale, evocando il gesto primario di Gesù, con il suo sacrificio: qualcosa a livello del dispendio assoluto, senza alcuna possibilità di ritorno, o di quella capitalizzazione di cui parla Georges Bataille). Nell'esposizione che ne fa Agamben (che legge storicamente il gesto di Benedetto XVI, e delle sue radici teologiche in Paolo [ Seconda Lettera ai Tessalonicesi ], in Agostino e Tikonio), la Chiesa funzionerebbe come una sorta di dispositivo che serve a ritardare quelli che sono i propri insegnamenti escatologici, dicendo una cosa e facendone un altra, attuando così una strategia perpetua di auto-cancellazione, che paradossalmente è anche la sua unica forma possibile di sopravvivenza terrena (in tale prospettiva - per tornare a Derrida - il suo discorso è ... autoimmune, un attacco protettivo contro sé stessa, o perfino farmacologico, in cui veleno e rimedio si trovano in costante sovrapposizione).

fonte: Um túnel no fim da luz

lunedì 28 settembre 2020

Padre polvo

« Nella sua ultima raccolta di saggi, "Profanazioni" - la quale vuole essere un tentativo di rimuovere gli homini sacri dal loro circolo vizioso di indecisione - il filosofo italiano Giorgio Agamben evoca la famosa conferenza di Foucault, "Che cos’è un autore?". Agamben ricorda la drastica separazione, stabilita da Foucault, tra la funzione-autore e l'autore come individuo, cosa che lo aveva portato a ripetere, in più occasioni, che il marchio dello scrittore risiede nella singolarità della sua assenza, in attesa che lui, nel gioco della scrittura, svolga il ruolo del morto. (...) Ora, queste considerazioni portano Agamben a concludere che un autore esprime e disegna solo una vita che viene giocata nell'opera - e che è stata giocata come opera. Per poter illustrare questo concetto di autore in quanto gesto, il filosofo si avvale del verso iniziale del "Redobre fúnebre pelos escombros de Durango", il poema XIII di "Espanha, afasta de mim este cálice" [di César Vallejo]. Fedele al principio di Mallarmé secondo cui “ rien n'aura lieu que le lieu  “ [non avrà luogo niente se non il luogo], Agamben si chiede se il significato di quel verso – “ Padre polvo que subes de España “ - sia venuto prima o dopo che Vallejo lo scrivesse, il verso. Non c'è niente che ci garantisca che egli abbia prima immaginato, e poi scritto, il verso che ci commuove. Eppure, in effetti, questa ipotesi (il soggetto precede sempre il testo) è  la meno plausibile di tutte quelle che potremmo immaginare. È sicuramente assai più probabile che solo dopo aver scritto queste parole, il sentimento che esse contengono sia diventato reale per l'individuo César Vallejo, cosa che spinge Agamben a concludere che il luogo - o, piuttosto, l'aver luogo - della poesia non si trova, perciò , né nel testo né nell'autore (o nel lettore): ma si trova nel gesto attraverso cui autore e lettore si mettono in gioco nel testo e, simultaneamente, se ne ritraggono e ne fuggono, all'infinito; in modo tale che l'autore è solamente il testimone, non è altro che colui il quale garantisce la propria assenza nell'opera, dal momento che spetta al lettore, a sua volta, ripercorrere questa assenza come se essa fosse un infinito ricominciare del giogo ».

(Raul Antelo, tradotto da "O autor como gesto. À memória de Ronaldo Assunção")

domenica 27 settembre 2020

Amici !!

« Chi non ha amici e li vuole avere è un rompiballe.
Chi non ha amici e non li vuole avere è un grande.
Chi ha amici e non li vuole avere è formidabile.
Chi ha amici e li vuole avere è malinconicamente umano.
»

Gregory Corso

(già pubblicato sul blog il 21 agosto 2006)


sabato 26 settembre 2020

Al punto in cui siamo ...

Covid-19: Sociologia e Negazionismo
- Relativizzazione, false equivalenze, teorie cospirazioniste e semplificazioni eccessive come forme di negazione -
  di Daniel Feierstein

La pandemia del Covid-19 ha sconvolto il 21° secolo con trasformazioni inaspettate. La comparsa di un nuovo virus con elevata capacità di contagio, una letalità di gran lunga superiore a quella dell'influenza, il suo attaccare diversi organi, attraverso processi infiammatori e conseguenza sconosciute, ha spinto l'OMS a raccomandare per la popolazione l'attuazione di strategie di distanziamento. L'irruzione della pandemia ha pertanto generato quelle che sono state delle brusche trasformazioni avvenute nella vita quotidiana, a partire, tra le altre cose, dalla necessità di utilizzare delle mascherine, mantenere la distanza nei luoghi pubblici, ridurre al minimo gli incontri nei luoghi chiusi, sospendere o limitare tutto una serie di attività economiche, stabilire dei protocolli di sicurezza. A tutto questo si è sommato un altro grado di incertezza: se il virus si propaghi o meno attraverso le superfici, se colpisca unicamente le persone anziane o quelle che soffrono di una serie di patologie, con quali postumi ci possa lasciare, se generi o meno una qualche immunità, ecc. In alcuni paesi, la velocità del contagio, e l'elevata richiesta di cure nelle unità di terapia intensiva hanno portato al collasso dei sistemi sanitari, con la conseguente cifra che conteggia i «decessi No Covid associati», vale a dire, i decessi di coloro che soffrono di altre patologi che non sono state curate dal sistema sanitario. L'alto livello di contagiosità ha avuto effetti devastnti sul personale sanitario, che si è visto fortemente colpito dal Covid-19. E tutto questo si è legato ad una profonda crisi economica, la quale stava già covando da diversi anni ma che ha trovato nella pandemia i suo punto di ebollizione. Weber, uno dei padri della sociologia, ci ha insegnato che l'azione sociale deriva dal sentire soggettivo che un soggetto conferisce alla propria condotta, e che tale senso è stato costruito tanto in maniera razionale quanto affettivamente. Però sembra che a questi elementi affettivi non abbiamo attribuito l'importanza che essi hanno in un contesto di catastrofe e di crisi come quello attuale.

Il perché del Negazionismo
Freud, in quella che è stata la sua concezione del funzionamento psichico, ha analizzato i diversi meccanismi di difesa, quei sistemi che cercano di proteggere la nostra soggettività dalle esperienze che superano la nostra capacità di elaborarle. Il catalogo dei sistemi di difesa che il padre della psicoanalisi identifica, e gli effetti che essi producono nella nostra azione, è assai ricco. Sul piano delle relazioni sociali, questi sistemi di difesa possono uscirne rafforzati, dando luogo a quelle che sono delle forme di rappresentazione. Nell'affrontare delle realtà catastrofiche, fra queste, una delle forme di rappresentazione più comune è il Negazionismo, una costruzione propriamente ideologico-politica che però sfrutta e utilizza i fenomeni psichici della negazione, della smentita, della naturalizzazione e del rifiuto. I sistemi psichici di difesa cercano di proteggerci da un'esperienza che in quel momento non possiamo assimilare. Tuttavia, quando si tratta di rappresentazioni collettive che sviluppano e si articolano con l'azione sociale, possono avere degli effetti devastanti. In vari fenomeni catastrofici (guerre, genocidi, terremoti, tsunami), il negazionismo costituisce una risposta comune anche se, allo stesso tempo, è una sfida al disarmo per qualsiasi società che intenda agire in maniera efficace di fronte a dei nuovi eventi. Vale a dire, trasformare quelli che erano le modalità di risposta che la società aveva prima che comparisse il fenomeno distruttivo. Sotto il nazismo, la popolazione ebraica ha sviluppato spesso delle strategie negazioniste, rifiutandosi di prestare attenzione alle testimonianze dei sopravvissuti che erano fuggiti dai campi di concentramento, minimizzando quelle che erano le dichiarazioni dei leader nazisti o gli indizi che derivanti dalle loro pratiche, razionalizzando spiegazioni come quelle che dicevano «se sfruttano il nostro lavoro, allora per loro non sarà redditizio annientarci», facendo appello all'assurdità economica e politica che, tra le altre cose, avrebbe significato un progetto di sterminio totale. La resistenza ebraica organizzata lo identificò come un problema, ben presto e con estrema precisione, al punto da definire come primo compito politico di tutte le organizzazioni, quello di combattere queste strategie negazioniste in maniera aperta ed esplicita. In aggiunta, considerava impraticabile impegnarsi in azioni armate di resistenze fin tanto che la maggioranza della popolazione non fosse riuscita a spezzare questa propensione ad ignorare la realtà, ed avrebbe così potuto superare il momento negazionista. È assai arricchente leggere le testimonianze di dirigenti come quelle di Jaika Grossman o di Marek Edelman, ed anche l'analisi dei fallimenti delle insurrezioni di Bialystok e di Vilna, che venivano spiegati a partire dal fatto che non era stato possibile avere ragione del negazionismo. Sconfiggere il pregiudizio negazionista è stato fondamentale al fine di poter spiegare l'altissimo sostegno sociale alla Ribellione di Varsavia, diventata la più famosa della storia. Qualcosa di simile è avvenuto durante la dittatura argentina, quando la società ha cercato di convincere sé stessa che i Desparecidos si trovavano in Europa, che i militari non potevano avere assassinato così tante persone, che forse invece erano state mandate in dei «campi di recupero», che le denunce erano solo parte di una «campagna anti-argentina» o che noi argentini avevamo «diritti umani». Tuttavia, a sei mesi dall'inizio di questa pandemia, non è ancora stata svolta alcuna analisi del ruolo che avrebbe potuto giocare il negazionismo, e sul modo in cui avrebbe potuto incidere nelle pratiche sociali, alterando ed ostacolando le strategie di assistenza sanitaria. A questa mancanza va posto rimedio.

Le forme del Negazionismo
Il negazionismo assume aspetti diversi. Sebbene siano numerosi, vale la pena analizzarne almeno quattro di essi, che poi sono quelli più comuni, e che oggi li vediamo apparire nell'Argentina di oggi: 1) la relativizzazione o minimizzazione; 2) la costruzione di quelle che sono false equivalenze; 3) le teorie cospirazioniste; 4) l'eccessiva semplificazione.

1) - Le forme di relativizzazione e minimizzazione tendono sempre a presentare le notizie sulla catastrofe come esagerate ed allarmistiche. In questi mesi, tra le altre cose, si continua a sentire che «i morti non sono poi così tanti», vengono fatti calcoli sulla bassa incidenza dei decessi rispetto alla popolazione totale, si insiste sul fatto che si tratterebbe di una popolazione in età avanzata o affetta da patologie concomitanti (come se questi elementi giustificassero il loro abbandono sociale e la morte). E nel caso del Covid-19, si sommano delle questioni specifiche: da un lato, i morti in una pandemia sono difficili da conteggiare. Ciò è dovuto alla difficoltà di registrarli in quella che è una situazione di collasso ed ai decessi no-Covid associati. Solamente una comparazione dei tassi di mortalità con quelli che sono stati i decessi negli altri anni potrà dare un quadro più preciso, ma tutto questo richiede tempo, e nei casi in cui si cominci a farlo, appare chiaro che i decessi sono molti di più rispetto a quelli che vengono dichiarata da ciascun governo (senza tener conto della notevole diminuzione dei morti per incidenti stradali, o a causa di altre malattie respiratorie, che è stato un prodotto benefico delle misure di lock-down; cosa che assegna un peso ancora maggiore ai decessi Covid). A tutto questo si somma l'«effetto delay (ritardo)»: i morti di oggi non esprimono la gravità della situazione attuale, bensì anno un ritardo di 20 giorni (il numero medio di giorni che intercorre tra il contagio e la morte). Un altro elemento contro-intuitivo consiste nel pregiudizio esponenziale, rispetto al quale ci mettono in guardia i matematici: passare da 4 a 8, in 25 giorni, è una cosa; passare da 10.000 a 20.000, in quegli stessi 25 giorni, è tutta un'altra cosa. Quando si considera la gravità, a volte è ormai tardi per riuscire a produrre un'inversione di tendenza, e questo a causa della distorsione esponenziale e dell'effetto ritardo.

2) - La seconda forma di negazionismo è quella della falsa equivalenza. La si può osservare, per esempio, nel confronto che viene fatto tra i decessi attuali ed il numero medio di morti per incidenti stradali o per malattie respiratorie. Il ragionamento che emerge da una simile equivalenza è: « perché mai dovremmo cambiare le nostre abitudini per questi morti se non lo facciamo anche per le altre? » Oltre a quella che è la diffusa manipolazione delle cifre (è chiaro che le morti Covid abbiano superato gli incidenti stradali, e che superano senza dubbio di gran lunga la media annuale delle malattie respiratorie), ad essere errata è proprio l'equivalenza stessa. È vero che ogni anno la gente muore. Ma questa gente non muore a causa di un virus sconosciuto per cui non esiste né vaccino né cura, e i cui effetti non sono neppure ancora noti. Le altre morte sono quantificabili e sono il prodotto di una realtà che conosciamo. Quando si parla di un virus sconosciuto, allora ogni equivalenza è falsa poiché mette a confronto delle cifre conosciute con quelli che sono dei numeri sconosciuti e mutevoli. Ancora non sappiamo a che livello possa arrivare questa pandemia: non esiste alcun paese che abbia sviluppato un'immunità di gregge, e non conosciamo neppure quali saranno i postumi o i numeri definitivi con cui dovremo confrontarci per un tempo indeterminato.

3) - La terza forma di negazionismo attiene alle teorie cospirazioniste, le quali chiamano simultaneamente in causa una destra fascista, un'altra destra, stavolta libertaria, una sinistra culturale "denuncialista" e, più in generale, tutta quella che può essere definita come l'anti-politica. Il nucleo di tutte queste teorie cospirazioniste si basa sull'idea secondo cui la pandemia sarebbe una grande menzogna e una grande manipolazione che tenta di «disciplinarci». A partire dal fatto che si riferisce a degli elementi realmente esistenti (le attività dei laboratori, la burocrazia degli organismi internazionali, la rabbia contro «la politica», il disciplinamento statale), riesce a interpellare molte persone le quali si sentono minacciate nelle loro libertà. Ciò non significa che i diversi governi non si siano approfittati della pandemia per massimizzare la funzione repressiva (cosa che, per esempio, può essere osservata in Colombia, con estrema durezza). Ma non appare sensato omologare ed equiparare la cura alla repressione. Ciò che colpisce è l'irresponsabilità di chi confondo entrambe le situazioni, partecipando e contribuendo a queste logiche cospirazioniste, inventando termini come «infettatura». Per quanto si possa criticare il governo argentino, è delirante equiparare la cura alla logica dittatoriale.

4) - Infine, abbiamo quella che possiamo definire come «eccessiva semplificazione», che consiste nel cercare risposte facili e veloci per affrontare qualcosa che invece è sconosciuto e complesso. Sono molti gli esempi relativi a questa forma di eccessiva semplificazione, a partire dalla fiducia infondata nel fatto che la soluzione sarebbe stata nei test (i quali, per quanto necessari, ci consento solamente di conoscere la situazione), o dall'utilizzo della formula come quella della «quarantena più lunga del mondo» (cosa che non corrisponde affatto alle aperture che sono state invece messe in atto), oppure dalle attribuzioni di responsabilità riguardo certe condotte o determinate professioni (dai fattorini ai parrucchieri), alla ricerca di importazioni di modelli da altri paesi con delle caratteristiche economiche, sanitarie e sociali assai diverse (Corea, Germania, Svezia, e ora Uruguay). Allo stesso modo in cui avviene per il gioco del calcio, la semplificazione eccessiva ci trasforma in epidemiologi (Direttori Tecnici della Pandemia), i quali sanno come risolverla ed esigono ogni giorno, dai governanti, una tattica diversa che sia quella proveniente dall'urlo della tribuna, senza riuscire a capire perché non venga messa in pratica.

Effetti sull'azione sociale
Una pandemia ci pone di fronte a quelli che sono dei problemi collegati alla negazione. Da una parte, forme psichiche disfunzionali che ostacolano le misure sanitarie, presenti anche in tutte quelle persone che comprendono la gravità della situazione e la interpretano correttamente. Molte della attività sociali oggi esistenti, e che sono una causa fondamentale di contagio, vengono svolte da soggetti che capiscono che cosa sta succedendo ma che non sono in grado di gestire quotidianamente decine di micro-negazioni nel contesto di molte relazioni che potrebbero evitare o gestire con maggiore attenzione. Basta osservare quello che avviene negli studi televisivi, ma lo si può vedere anche nel cattivo uso della mascherina (con il naso all'aria), nei picnic nelle piazze, nelle riunioni familiari, negli incontri con gli amici, in decine e decine di esempi. Dall'altro lato, ci sono dei gruppi di popolazione che sono attraversati direttamente dalle interpretazioni negazioniste, e le cui azioni non possono più essere spiegate solo a partire dalla negligenza, ma in cui essi assumono una difesa consapevole delle proprie azioni (assegnano alla loro azione un senso razionale), e lo fanno a partire sia dalle logiche minimizzanti che da quelle cospirazioniste, eccessivamente semplificatrici, oppure facendo appello a quelle che sono delle false equivalenze.
Sia nella pianificazione delle politiche pubbliche, che nelle campagne di promozione, nella rappresentazione che viene dati dai media, così come nel lavoro delle organizzazioni intermedie ed in quello del personale sanitario, oppure in quelle che sono le nostre interazioni quotidiane dobbiamo conoscere e comprendere queste modalità di funzionamento della negazione e del negazionismo, in quanto requisito indispensabile per proporre azioni più efficaci che ci permettano di affrontare in condizioni migliori questa catastrofe. La lotta contro la pandemia è anche politica, ma lo è nella sua capacità di riuscire a dare alla lotta per il senso comune la prospettiva di trasformare quello che è il carattere delle azioni sociali.

- Daniel Feierstein - Pubblicato su El cohete a la luna, 13 de setiembre de 2020 -

fonte: Comunizar

venerdì 25 settembre 2020

Questioni di classe !

Quali che siano le critiche che possono essere fatte a Michael Heinrich - il suo "circolazionismo", la sua cecità relativa alla teoria della crisi, il suo sostegno a Die Linke, ecc.; e rispetto a tutto questo si può fare riferimento a Kurz, Lohoff, Backhaus, Reichelt per quelli e per quello che ci interessa -, Heinrich sviluppa però una marxologia assai spesso antagonista rispetto al marxismo tradizionale, argomentando assai bene alcuni punti, come quelli che, per esempio, riguardano la questione ed il significato delle classi e della lotta di classe nella critica marxiana della maturità (la quale non ha niente a che vedere con le elucubrazioni del Manifesto del Partito comunista), viste, rispettivamente, come rapporto derivato dalle categorie di base capitalistiche, e come lotta immanente al capitalismo non necessariamente rivoluzionaria, come invece pretendono molti marxisti (insieme a tutta la teoria proletaria della rivoluzione), i quali immergono il loro soggetto - il Proletariato - nella metafisica del soggetto rivoluzionario. L'analisi di classe, senza la mediazione di una critica categoriale, diventa immediatamente - a causa del suo sociologismo - una delle forme dell'anticapitalismo tronco, ed insieme a questo solo un travestimento della ricca critica marxiana dell'economia politica della maturità (al quale, di per sé, non è a sua volta neanche esente da contraddizioni, cecità ed aporie). Nel testo che segue, vengono affrontati quelli che sono alcuni punti importanti, e almeno qui la cosa viene svolta a partire da una certa congruenza con le correnti critiche del valore e critiche della dissociazione-valore. Questo estratto, inedito, è stato tradotto in francese da un compagno, prendendolo dal libro di Michael Heinrich, "Kritik der politischen Ökonomie. Eine Einführung".  (dalla pagina facebook di Palim Psao)

Classe, lotta di classe e determinismo storico, di Michael Heinrich

Estratto dal libro di Michael Heinrich, "Kritik der politischen Ökonomie. Eine Einführung" [Critica dell'economia politica. Un'introduzione], capitolo 10.3. Il capitolo 10, di cui questo estratto costituisce l'ultima parte, ha come titolo "Il Feticismo delle relazioni borghesi".

Molte correnti del marxismo tradizionale hanno compreso l'analisi di Marx come se fosse innanzitutto un'analisi di classe e della lotta tra borghesia e proletariato. Oggi, per la maggior parte dei conservatori e dei liberali, i concetti di «classe», e in particolare quello di «lotta di classe», sono «ideologici»; cosa che non vuol dire altro che sono «non scientifici». Di norma, è soprattutto a sinistra che vengono utilizzati questi concetti. È importante ricordare, innanzitutto, che il «discorso di classe» non è in nessun caso specifico del contributo di Marx. Già prima di lui, gli storici borghesi parlavano di classi e di lotta di classe, e David Ricardo, il rappresentante più importante dell'economia politica classica, era arrivato addirittura a sottolineare che le tre grandi classi delle società capitaliste (capitalisti, proprietari terrieri, e lavoratori) avevano degli interessi fondamentalmente opposti. Nel Manifesto comunista (1848), i concetti di classe e di lotta di classe costituiscono il nodo centrale di quella che è l'argomentazione di Marx. [...] Ma in una lettera del 1852, scritta al suo amico Weydemeyer, Marx riassume ciò che egli identificava come la natura del suo contributo alla teoria delle classi, sottolineando come non abbia in alcun modo scoperto l'esistenza delle classi, o della loro lotta: « Ora, per quel che mi riguarda, non è affatto a me che va attribuito il merito di avere scoperto l'esistenza delle classi nella società moderna, non più dell'esistenza della lotta che tali classi conducono. Gli storici borghesi avevano descritto molto prima di quanto facessi io l'evoluzione storica di questa lotta di classe, e degli economisti borghesi ne avevano tratteggiato l'anatomia economica. La mia originalità ha consistito nel: 1) dimostrare che l'esistenza delle classi è legata solo a determinate fasi storiche della sviluppo produttivo; 2) che la lotta di classe porta necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) che questa stessa dittatura rappresenta a sua volta solo una transizione verso l'abolizione di tutte le classi e verso una società senza classi. » [*1]. Qui, il termine «dittatura» non designa affatto una forma autoritaria di dominio, ma solamente il dominio di una classe, indipendentemente da quale sia lo forma politica di tale dominio. I punti 1) e 2), hanno una forte connotazione determinista: nel loro contesto, la storia appare come se - animata dalla lotta di classe - fosse già orientata verso un fine determinato. Si tratta di una concezione che può essere ritrovata, per capirci, nel Manifesto comunista. Se nel Capitale Marx parla ancora certamente di classi, lì non c'è alcun tentativo di un loro trattamento sistematico, e nemmeno un tentativo di darne una definizione. È solo alla fine del III Libro che Marx dà inizio ad un capitolo sulle classi, ed a quel punto, appena dopo poche frasi, il manoscritto si ferma. [*2] A partire dal fatto che ciò avvenga solo a quel punto, si può dedurre che un trattamento sistematico delle classi non costituisca affatto una condizione della descrizione del modo di produzione capitalistico, ma piuttosto un risultato di tutto questo.
Qui, non faremo alcuna speculazione su ciò che Marx avrebbe potuto scrivere dopo queste prime righe del III Libro. Quello che dobbiamo fare, è piuttosto individuare quello che si può dire riguardo le classi e la lotta di classe [...]. Al termine di classe sociale, vanno dati due significati differenti. In senso strutturale, le classi sociali sono determinate da quella che è la loro posizione nel processo sociale di produzione. A partire da questa posizione, ed in questa misura, una persona può appartenere ad una classe pur senza esserne chiaramente consapevole. Questo significa di classe, dev'essere distinto da quello delle classi comprese nel loro senso storico. In tal senso, si tratta  di gruppi sociali che possono essere compresi nella misura in cui si distinguono dalle altre classi in una situazione storica determinata, ecco che allora i membri di queste classi hanno una «coscienza di classe». Nel Capitale, Marx utilizza il termine «classe» in senso quasi esclusivamente strutturale. Quindi, constata che alla base del rapporto capitalistico si trova un rapporto di classe: partendo dai possessori di denaro e dei mezzi di produzione, da una parte, e dei lavoratori «liberi» nel doppio senso di questa parola, mentre dall'altra, Marx designa come classe media, o anche piccola borghesia, dei gruppi che non sono né borghesi né proletari: innanzitutto, gli «indipendenti» come gli artigiani, i piccoli commercianti o i piccoli agricoltori. Le classi in  senso strutturale non possono essere identificate con quelle che è la loro forma (Ausprägung) storica: non è necessariamente proprio del capitalista, fumare il sigaro ed avere un autista, così come non è necessariamente proprio dei lavoratori lasciarsi ridurre ad essere degli operai industriali che vivono nei quartieri operai. La scomparsa di questo genere di stereotipi non è una prova della fine delle classi, ma dimostra solo che c'è stata una modifica di quelle che sono le loro forme storiche (historischer Gestalt).
A partire da quelle che sono delle proprietà formali, come ad esempio l'esistenza di rapporti salariali, non è possibile determinare chi è che appartiene in senso strutturale a quale classe; pertanto, solamente dalla sua funzione in seno al processo di produzione. Più esattamente: la classe può essere colta solo a quel livello di «processo generale [Gesamtprozess] di produzione» a cui Marx arriva nel III Libro del Capitale, dove viene già presupposta l'unità tra processo di produzione e processo di circolazione. A questo livello diventa chiaro come il possesso, o meno, dei mezzi di produzione non sia determinante ai fini dell'appartenenza di classe. Formalmente, l'amministratore delegato di una società per azioni può essere un lavoratore salariato, ma in realtà egli svolge le funzioni di un capitalista, dispone del capitale (anche se questo non è di sua proprietà), organizza lo sfruttamento, e la sua «retribuzione» non viene determinata dal valore della sua forza lavoro, ma piuttosto dal profitto che è stato prodotto. Al contrario, ci sono numerosi lavoratori indipendenti da un punto di vista formale (che possono perfino possedere i propri modesti mezzi di produzione) che, come in passato, devono essere ancora considerati dei proletari, i quali di fatto vivono della vendita della loro forza lavoro, solo che eventualmente ciò può avvenire in condizioni ancora più sfavorevoli di quelle che avvengono in una relazione salariale formale. Certo, è vero che al giorno d'oggi le condizioni di vita (reddito, istruzione, anche i possibili progetti di vita) tra quelle che sono le classi strutturalmente definite della «borghesia» e del «proletariato» rimangono chiaramente distinguibili, ma la realtà relativa a quelle che sono delle vite diverse anche all'interno del «proletariato» stesso (a partire dal lavoro, dal reddito, dall'istruzione, così come a partire dai comportamenti di consumo e dall'uso che viene fatto del tempo libero). Il fatto che una situazione generale di classe si trasformi in una coscienza ed un'azione comune; il fatto che la classe determinata strutturalmente si trasformi in una classe storico-sociale è tutt'altro che scontato: può avvenire, ma anche no. Ma non c'è niente di automatico nel fatto che la rappresentazione di un superamento emancipatorio di quelli che sono i rapporti capitalistici appartenga al proletariato (determinato strutturalmente), o parti di esso, nel momento in cui è diventato una classe storica che ha sviluppato una coscienza di classe. Il proletariato che ha una coscienza di classe, non è automaticamente «rivoluzionario».
Nel processo di produzione capitalistica, la borghesia e il proletariato si confrontano direttamente, lo sfruttamento del proletariato rende innanzitutto possibile l'esistenza del capitale in quanto valore che si valorizza. Le condizioni concrete nelle quali ha luogo la valorizzazione del capitale vengono costantemente contrastate: il valore della forza lavoro deve soddisfare la riproduzione normale, ma ciò che serve per diventare «normale» dipende anche da quelle che sono le rivendicazioni che la classe dei lavoratori riesce ad imporre. Vengono perciò ad essere oggetto del conflitto, la durata del tempo di lavoro e le condizioni in cui si svolge il processo di produzione. In tal senso, ed in questa misura, con il rapporto capitalista, esiste sempre la lotta di classe, che si chiami o meno così. Ed è specialmente nella lotta di classe, che quelli che sono in lotta possono sviluppare una coscienza di classe, ma ciò può presentare degli effetti differenti secondo quelli che sono le circostanze storiche.
Le lotte di classe non assumono solamente la forma di scontri immediati tra borghesia e proletariato, ma possono anche estendersi allo Stato, in quanto le leggi stabiliscono o avversano quelle che sono delle posizioni particolari (limitazioni dell'orario di lavoro, protezione contro i licenziamenti, protezione sociale, ecc.). Inoltre, i conflitti di classe non sono le uniche forme di conflitto esistenti nelle società capitalistiche. I conflitti relativi alla posizione di genere, al dominio razzista o alla gestione dei movimenti migratori sono di grande importanza per lo sviluppo della società.
Assai spesso, il marxismo tradizionale ha considerato i conflitti di classe come se fossero gli unici conflitti veramente importanti. L'«operaismo» italiano, una corrente radicale di sinistra apparsa negli anni '60, considerava addirittura le lotte come fattore determinante nelle crisi capitalistiche. È indiscutibile che le rivendicazioni che la classe dei lavoratori riesce ad imporre rafforzino lo scatenarsi delle crisi. Lo presuppongono perfino gli economisti borghesi, così come i neoclassici moderni, nel momento in cui riconoscono che salari troppo alti, sindacati troppo forti, o regolamentazioni del mercato del lavoro troppo favorevoli alle direzioni aziendali sono la causa della crisi, o della disoccupazione. Le forme e l'intensità della lotta di classe sono senza alcun dubbio di enorme importanza, in quella che è l'analisi dello sviluppo del capitalismo in un paese, in un determinato periodo storico. Ma se, tuttavia, a livello del modo in cui si presenta il modo di produzione capitalistico «secondo quella che è la sua media ideale» (vale a dire, a livello in cui viene esposto nel Capitale di Marx), le crisi si riducono alla lotta di classe, ecco che allora si perde il senso decisivo della teoria delle crisi di Marx. Di fatto, Marx ha cercato di dimostrare che il capitale ha delle tendenze immanenti alla crisi, e che esse sono totalmente indipendenti dalle circostanze, per cui si verificano delle crisi che a loro volta sono del tutto indipendenti dalla situazione della lotta di classe. Ciò significa che si verificano delle crisi che avvengono perfino quando la lotta di classe si è assopita.
Innanzitutto, le lotte di classe sono lotte che avvengono in seno al capitalismo: il proletariato lotta per le proprie condizioni di esistenza in quanto proletariato, per dei salari più elevati, per condizioni lavorative migliori, per definire legalmente i diritti, ecc. In tal senso, ed in questa misura, le lotte di classe non sono il segno della debolezza del capitale, e neppure l'avvisaglia di una rivoluzione imminente, ma sono piuttosto la forma normale del movimento che viene assunta da quella che è la conflittualità tra borghesia e proletariato. La stessa cosa vale anche per la giustificazione delle rivendicazioni formulate, le quali per la più parte rimangono nel quadro stabilito dalla formula trinitaria: quella per cui si rivendichi un «giusto» salario e a partire da questo venga cancellata l'irrazionalità della forma - salario (vale a dire, il salario in quanto retribuzione del valore del lavoro, e non come remunerazione del valore della forza lavoro); cosa, riguardo cui Marx aveva già constatato che essa costituiva la base di ogni rivendicazione dei diritti dei lavoratori, così come vengono rappresentati dai capitalisti. [*3] Ciò significa che quando in una società borghese gli uomini, siano essi dei lavoratori o dei capitalisti, tentano di imporre i loro interessi, come prima cosa questo avviene nelle forme feticizzate del pensiero e della percezione, le quali dominano la coscienza quotidiana.
Qualsiasi cosa succeda, le lotte di classe posseggono inoltre una loro dinamica propria. Esse possono portare a dei processi di apprendimento di radicalizzazione in cui anche il sistema capitalistico viene messo in discussione nella sua totalità. Il feticismo non è propriamente impenetrabile (undurchdringlich). Ed è in particolare durante la fase del costituirsi del capitalismo industriale moderno che le lotte di classe dei lavoratori vengono represse dalla reazione brutale dello Stato (ad esempio, vietando i sindacati e gli scioperi, o perseguendo gli attivisti), cosa che spesso, a sua volta, ha rafforzato i processi di radicalizzazione. Rispetto al 19° secolo e all'inizio del 20°, in molti paesi questa repressione immediata è diminuita (ciò malgrado, in tutta una serie di paesi gioca sempre un ruolo decisivo).
Oggi, nei paesi capitalisti avanzati (führend) esiste una regolamentazione giuridica, più o meno forte, di quelle che sono le forme in cui avviene il conflitto diretto tra borghesia e proletariato: la lotta di classe deve sicuramente potersi svolgere, ma senza costituire un pericolo per il sistema (in Germania, ad esempio, il diritto di sciopero e di coalizzazione sono garantiti legalmente, ma lo è anche il diritto di serrata del datore di lavoro, invece lo sciopero politico è vietato). In modo tale che alcune determinate forme di lotta sono state affrancate dalla repressione diretta dello Stato, così come invece altre vengono represse più violentemente. Pertanto, nella storia del marxismo abbiamo visto sovente due conclusioni sbagliate relative al concetto di classe e di lotta di classe. Da un lato, la situazione di classe e la coscienza di classe sono state collegate in maniera tale che la seconda si sarebbe sviluppata necessariamente più o meno rapidamente; e dall'altro lato, si accettava il fatto che questa coscienza di classe aveva più o meno un contenuto «rivoluzionario».
Ed è per questo motivo che non è raro che ogni lotta di classe venga considerata come se fosse l'annuncio dell'avvicinarsi della lotta finale. Si è pertanto accettato che il proletariato si sarebbe necessariamente sviluppato in modo da poter così divenire una classe cosciente e rivoluzionaria via via che il capitalismo cresceva. Certo, la storia ci mostra delle situazioni in cui certe parti del proletariato hanno agito in maniera rivoluzionaria, ma tali situazioni, tuttavia non sono da intendersi come il risultato di una tendenza generale delle metamorfosi del proletariato in una classe rivoluzionaria, ma piuttosto come l'espressione di circostanze storiche concrete (per esempio, il 1918 nella Germania sconfitta, con la perdita di legittimità della cerchia aristocratico-militare che aveva comandato fino a quel momento). Per questo motivo, il fatto che parti del proletariato avessero un orientamento rivoluzionario è stato solo un fenomeno passeggero.
Tuttavia, numerose «analisi di classe» marxiste che si sono poste la domanda «chi è che appartiene al proletariato?» partivano da questa rappresentazione di un proletariato che avrebbe necessariamente dovuto diventare rivoluzionario. Si pensava che, con un proletariato definito analiticamente, si fosse trovato il «soggetto rivoluzionario». Fino al momento in cui i veri proletari non fossero stati chiari rispetto al loro ruolo, era perciò necessario aiutarli - soprattutto per mezzo di un «partito di classe», un titolo rivendicato da parecchi candidati e per il quale sono state combattute aspre battaglie. Queste due conclusioni errate, le si ritrovano anche nello stesso Marx, oltre che in una concezione deterministica della storia su cui sono state basate, e soprattutto nel Manifesto comunista, vale a dire proprio in quel testo che ha sempre giocato un ruolo assai importante nel marxismo tradizionale e nei partiti dei lavoratori.
Nel Capitale, Marx è particolarmente assai più prudente. Comunque sia, continua a rimanere come un'eco del determinismo storico della sua gioventù. Alla fine del I Libro, Marx tratteggia, in maniera succinta, in tre pagine, la «tendenza storica dell'accumulazione capitalistica» (secondo quello che è il titolo della sezione). Innanzitutto, riassume l'emergere del modo di produzione capitalistico, visto come l'espropriazione di piccoli produttori privati (i piccoli produttori e gli artigiani). Nel corso della cosiddetta presunta «accumulazione primitiva», essi perdono quella che era la loro proprietà dei mezzi di produzione, in maniera tale da essere costretti a vendere la forza lavoro ai capitalisti. Quindi, a quel punto, si verifica un cambiamento fondamentale del processo di produzione che avviene su base capitalistica: le piccole fabbriche diventano delle grandi fabbriche, ha luogo una concentrazione ed una centralizzazione del capitale, la scienza e la tecnologia verranno utilizzate in maniera sistematica, i mezzi di produzione verranno ottimizzati, e le economie nazionali verranno ad essere integrate in un mercato mondiale. Marx prosegue:
« Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati. » [*4]
In questa descrizione, lo sviluppo del proletariato in classe rivoluzionario ed il rovesciamento del dominio del capitale appaiono essere un processo inevitabile. E a tal riguardo, in una nota Marx cita ancora una volta il Manifesto comunista, dove dice della borghesia: «La sua caduta e la vittoria del proletariato sono altrettanto inevitabili ». [*5]
Nel nascente movimento operaio, simili annunci sono stati accolti molto allegramente, perfino quando era moneta corrente fare l'esperienza quotidiana di venire esclusi e sfiduciati da quella stessa società borghese di cui era stata annunciata la fine. Nella stampa socialdemocratica precedente alla prima guerra mondiale, e più tardi in quella comunista, queste tre pagine del Capitale vennero stampate e citate così sovente che la concezione dell'analisi marxista che ne sarebbe rimasta fortemente impregnata. In ogni caso, questi pronostici non vennero assolutamente confermati dalle ricerche di Marx. In che misura il monopolio del capitale si è «trasformato in ostacoli insopportabili» (cfr. Il Capitale)? Questo non è stato verificato. Il fatto che i frutti e i costi sociali dello sviluppo capitalistico fossero ripartiti inegualmente in maniera così estrema non è un ostacolo al suo sviluppo, ma - proprio come evidenziato dall'analisi di Marx -  si tratta del fatto che è questa la forma primitiva del suo movimento. E che il proletariato, con l'affermarsi del modo di produzione capitalistico, è cresciuto di numero e, grazie alla grande industria esso si sia «unito» e «formato» [*6] (e in qualche modo il proletariato avrebbe dovuto organizzarsi in sindacati e politicamente, per esistere in quanto proletariato), questo è certamente vero, ma che si sviluppi necessariamente in una classe rivoluzionaria, certo questa non è una deduzione fatta a partire dall'analisi di Marx. Al contrario, il Capitale ci fornisce degli elementi che permettono di comprendere perché gli sviluppi rivoluzionari sono così rari, perché l'«indignazione» alla quale si fa riferimento nella citazione non divenga immediatamente una lotta contro il capitalismo: con l'analisi del feticismo, dell'irrazionalità della forma - salario e della formula trinitaria, Marx ha mostrato come il modo di produzione capitalista costruisca un'immagine di sé stesso nella quale i rapporti della produzione capitalistica emergono dalle condizioni di tutta la produzione in modo tale che i cambiamenti possono avvenire solo nel quadro delle relazioni capitalistiche. Ci può essere uno sviluppo rivoluzionario, ciò non è escluso, ma è tutto tranne che un risultato necessario. Marx trae, nel passaggio citato, delle conclusioni che si basano su un determinismo storico che non è giustificato a partire da quella che è la sua descrizione delle categorie del Capitale. In tal senso, questo passaggio è l'espressione delle sue speranze, piuttosto che delle sue analisi, si tratta dell'entusiasmo rivoluzionario che in questo caso ha il sopravvento sullo «scienziato freddo». La descrizione del modo di produzione capitalistico, non è tuttavia in alcun modo legata a queste discutibili conclusioni che vengono fatte sulle classi sociali. Non è possibile determinare in anticipo se, e come arriverà alla sua fine questo modo di produzione. Al punto in cui ci troviamo, non c'è più alcuna certezza. C'è solo una lotta, il cui esito rimane aperto.

- Michael Heinrich -

NOTE -

[*1] - Karl Marx, Friedrich Engels, Corrispondenza, volume 3, 1852-1853, lettera del 5 marzo 1852. Non posso trattenermi dal mettere la seguente frase tratta dalla lettera: «...Mascalzoni ignoranti come Heinzen, i quali non solo negano la lotta, ma persino l’esistenza delle classi, dimostrano soltanto, nonostante i loro latrati sanguinari e le loro pose umanistiche, di ritenere le condizioni sociali nelle quali la borghesia domina come il prodotto ultimo, come il non plus ultra della storia, di non essere che servi della borghesia, una servitù che è tanto più ripugnante, quanto meno questi straccioni riescono a capire anche solo la grandezza e la necessità transitoria del regime borghese stesso. ... »

[*2]Eccola nella sua totalità: « I proprietari della semplice forza-lavoro, i proprietari del capitale e i proprietari fondiari, le cui rispettive fonti di reddito sono salario, profitto e rendita fondiaria, in altre parole, gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari, costituiscono le tre grandi classi della società moderna, fondata sul modo di produzione capitalistico.
Senza dubbio è in Inghilterra che la società moderna nella sua struttura economica ha raggiunto il suo sviluppo più ampio e più classico. Tuttavia la stratificazione delle classi non appare neppure lì nella sua forma pura. Fasi medie e di transizione cancellano anche qui tutte le linee di demarcazione (nella campagna tuttavia in grado molto minore che nelle città). Ma per la nostra analisi ciò è irrilevante. Abbiamo visto che la tendenza costante e la legge di sviluppo del modo di produzione capitalistico è di separare in grado sempre maggiore i mezzi di produzione dal lavoro e di concentrare progressivamente in larghi gruppi i mezzi di produzione dispersi, trasformando con ciò il lavoro in lavoro salariato ed i mezzi di produzione in capitale. E a questa tendenza corrisponde, d’altro lato, la separazione autonoma della proprietà fondiaria dal capitale e dal lavoro, o la trasformazione dì tutta la proprietà fondiaria nella forma di proprietà fondiaria corrispondente al modo di produzione capitalistico.
La prima domanda a cui si deve rispondere è la seguente: che cosa costituisce una classe? E la risposta risulterà automaticamente da quella data all’altra domanda: Che cosa fa si che gli operai salariati, i capitalisti ed i proprietari fondiari formino le tre grandi classi sociali?
A prima vista può sembrare che ciò sia dovuto all’identità dei loro redditi e delle loro fonti di reddito. Sono tre grandi gruppi sociali, i cui componenti, gli individui che li formano, vivono rispettivamente di salario, di profitto e di rendita fondiaria, della valorizzazione della loro forza-lavoro, del loro capitale e della loro proprietà fondiaria.
Tuttavia, da questo punto di vista, anche i medici, ad esempio, e gli impiegati verrebbero a formare due classi, poiché essi appartengono a due distinti gruppi sociali, e i redditi dei membri di ognuno di questi gruppi affluiscono da una stessa fonte. Lo stesso varrebbe per l’infinito frazionamento di interessi e di posizioni, creato dalla divisione sociale del lavoro fra gli operai, i capitalisti e i proprietari fondiari. Questi ultimi, ad esempio, divisi in possessori di vigneti, possessori di terreni arativi, di foreste, di miniere, di riserve di pesca.» [Qui il manoscritto si interrompe.]

[*3] - « Man begreift daher die entscheidende Wichtigkeit der Verwandlung von Wert und Preis der Arbeitskraft in die Form des Arbeitslohns oder in Wert und Preis der Arbeit selbst. Auf dieser Erscheinungsform, die das wirkliche Verhältnis unsichtbar macht und grade sein Gegenteil zeigt, beruhn alle Rechtsvorstellungen des Arbeiters wie des Kapitalisten, alle Mystifikationen der kapitalistischen Produktionsweise, alle ihre Freiheitsillusionen, alle apologetischen Flausen der Vulgärökonomie. »
« Si comprende quindi l’importanza decisiva che ha la metamorfosi del valore e del prezzo della forza-lavoro nella forma di salario, ossia in valore e prezzo del lavoro stesso. Su questa forma fenomenica che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto, si fondano tutte le idee giuridiche dell’operaio e del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le sue illusioni sulla libertà, tutte le chiacchiere apologetiche dell’economia volgare.» (Il Capitale. Libro I.)

[*4] - « Mit der beständig abnehmenden Zahl der Kapitalmagnaten, welche alle Vorteile dieses Umwandlungsprozesses usurpieren und monopolisieren, wächst die Masse des Elends, des Drucks, der Knechtschaft, der Entartung, der Ausbeutung, aber auch die Empörung der stets anschwellenden und durch den Mechanismus des kapitalistischen Produktionsprozesses selbst geschulten, vereinten und organisierten Arbeiterklasse. Das Kapitalmonopol wird zur Fessel der Produktionsweise, die mit und unter ihm aufgeblüht ist. Die Zentralisation der Produktionsmittel und die Vergesellschaftung der Arbeit erreichen einen Punkt, wo sie unverträglich werden mit ihrer kapitalistischen Hülle. Sie wird gesprengt. Die Stunde des kapitalistischen Privateigentums schlägt. Die Expropriateurs werden expropriiert. » (mew 23, S. 790)

[*5] - « Ihr Untergang und der Sieg des Proletariats sind gleich unvermeidlich » (mew 23, S. 791, Fn 252)

[*6] - Cfr. Il Capitale

fonte: Lire Marx

giovedì 24 settembre 2020

Pozzi !

« Grazie per il premio per la pace. Come voi, credo nella pace. E noi che crediamo nella pace pensiamo che il più nobile impegno sia quello di convincere ogni persona al mondo a vederla nello stesso modo. Ma non tutti accettano questa visione. Il popolo del mondo è come due tribù nel deserto, una tribù vive in un paese con un pozzo, l'altra in un paese senza pozzo. La tribù con il pozzo vuole la pace, l'altra non vuole la pace, vuole l'acqua! La tribù senza pozzo forse è meno civilizzata, non ha una parola per dire pace, ma ne ha una per dire sete che, data la situazione, è più o meno la stessa cosa. Il Comitato per la Pace nel paese con il pozzo, è buono, saggio, gente bella che non ha sete, perciò ha tempo ed energia per il comitato. La gente con il pozzo parla molto di premi per la pace da dare ad altra gente che vive nel paese con il pozzo. Quelli del paese senza il pozzo non parlano molto di premi per la pace. »

Lars von Trier - 10 marzo 2004 (le parole con cui il regista rifiutò il premio che gli aveva conferito il comitato per il cinema di Pace) -

(precedentemente pubblicato sul blog il 1° agosto 2006)

martedì 22 settembre 2020

Preoccupazione & Autofobia

Il nocciolo della preoccupazione teorica riguardo quello che è il tema dell'ascesa del "losurdismo" fanatico, o del neo-stalinismo di rete, è quanto segue: Se si vuole ridurre quello che è tutto il potenziale della teoria di Marx, ad una rivoluzione nazionale immaginaria, che mira a trasformare i paesi periferici in delle piattaforme di esportazione di tipo "vietnamita", in modo da renderle subordinate allo sfruttamento del lavoro astratto e alla produzione di merci di merda; ecco che allora, per fare questo basta essere solamente un marxista-leninista di tipo orientale, oppure uno statalista neo-hegeliano nazional-sviluppista che appartenga al genere "losurdista". Assumere questo presunto "mandato ereditario" proveniente dalle rivoluzioni fallite, sono solo chiacchiere fatte da degli allucinati che delirano a proposito di un partito ossificato che è vivo solo a partire dalle sue proprie mummie e da delle immagini sclerotizzate, e che non vuole altro che finire di sotterrare qualsiasi prospettiva, identificando una volta per tutte la sinistra con i gulag e con le politiche di sterminio interno ed esterno; per non dire della religione del lavoro astratto e del feticismo del valore, il quale sorge magicamente a qualsiasi livello di industrializzazione, con l'aiuto di emissioni di denaro che arrivano fino alla stratosfera. Losurdo non ha alcuna concezione reale di che cosa sia il capitale. Il suo vaneggiamento, in cui delira a proposito di tornare ad un'egemonia senza autofobia, non sopravvive neanche a due minuti di seria riflessione. Ruggiscono come se fossero dei leoni, e sputano fuoco e fiamme come dei draghi, ma non riescono nemmeno a fare eleggere un deputato alla camera.

- Rubem Klaus - Fonte: facebook -

lunedì 21 settembre 2020

The End

Una questione di logica capitalistica
- Intervista a Norbert Trenkle -

Frankfurter Rundschau: Lei ha previsto la «fine del lavoro». Che cosa significa questo?

Norbert Trenkle: Dovremmo piuttosto parlare, prima, di una crisi del lavoro, una vera e propria crisi fondamentale che nella realtà procede in maniera contraddittoria. Da un lato, a causa dell'alta produttività, c'è sempre più lavoro che viene razionalizzato; dall'altro lato, per vivere la maggioranza delle persone continua a dipendere dalla vendita della propria forza lavoro. Questo allarga il divario esistente sul mercato tra offerta e domanda, e fa sì che si eserciti una pressione a partire dalla quale le persone si offrono a condizioni sempre più sfavorevoli.

F.R.: Robot, anziché posti di lavoro più adeguati: questo sarebbe un horror? O un paradiso?

N.T.: Dipende. In condizioni capitalistiche, lo sviluppo tecnologico si traduce in una tendenza che fa sì che le persone divengano superflue ai fini della produzione di merci, e a loro rimane solo la scelta tra disoccupazione e lavoro precario. In una società liberata, invece, l'alta produttività potrebbe essere utilizzata per consentire una buona vita a tutte le persone, e per produrre in maniera adeguata secondo termini ecologici.

F.R.: In questi ultimi anni, nella società abbiamo sperimentato sempre più disparità, anche in quella che è la vita lavorativa. Ci sono quelli che traggono benefici dal sistema, e poi ci sono gli altri che, nel peggiore dei casi, si trovano a non essere più di alcuna utilità. Quali sono le ragioni di tutto questo?

N.T.: Ciò avviene perché la dinamica capitalistica attuale non si basa più sul lavoro di massa nell'industria, ma ha trasferito il proprio fulcro sui mercati finanziari e verso i settori di produzione ed applicazione della conoscenza. Anche chi lavora in tali settori, è soggetto ad una pressione permanente per ottenere prestazioni maggiori, ma quanto meno viene ben pagato per questo. La massa degli altri venditori di forza lavoro, invece, deve lottare per dei posti di lavoro che non sono necessariamente «utili per il sistema». Che di tratti di venditori o di fattorini, sono costretti a lavorare in maniera estenuante, fino all'esaurimento, e in caso contrario non sono in grado di pagare le loro bollette.

F.R.: Il salario minimo può aiutare?

N.T.: Il salario minimo, in una certa misura, serve a rallentare questo super-sfruttamento. Ma sta diventando sempre più evidente che viene aggirato su larga scala. E dal momento che nel settore precario la pressione della concorrenza è particolarmente forte, molte delle persone colpite non si difendono.

F.R.: O sarebbe meglio un reddito di base illimitato?

N.T.: Questo potrebbe portare ad avere un sollievo, rispetto a quello che è l'obbligo generale a lavorare, purché esso sia realmente sufficiente per poter vivere. In tal caso, aprirebbe anche uno spazio alla lotta per delle alternative sociali.

F.R.: L'orario settimanale di lavoro va ridotto? Il sabato, il martedì e il giovedì i genitori stiano con i loro figli?

N.T.: Ovviamente. Sarebbe assolutamente sensato e giusto convertire in tempo disponibile per tutti, quelli che sono gli enormi effetti della razionalizzazione. Ma, in ultima analisi, ciò richiederebbe una rottura con la logica capitalista, da momento che è questa a spingere nella direzione opposta, verso il prolungamento dell'orario lavorativo ed un lavoro più intensivo.

F.R.: Che cos'è che potrebbe prendere il posto del lavoro, quando esso non fosse più necessario?

N.T.: Il lavoro non diminuisce in maniera graduale, ma, paradossalmente, nella sua crisi, aumenta quella che è la pressione che esso esercita sulla società. Ed è per questo sono necessari dei movimenti sociali che mettano in discussione la coercizione che ci costringe a dover sopravvivere quotidianamente attraverso la vendita di forza lavoro. Solo in questo modo si può aprire la strada a delle attività sociali libere, senza coercizioni esterne.

F.R.: Le persone libere di raccogliere la mattina l'insalata nell'orto, di occuparsi la sera dei bambini, di scrivere la sera, senza per questo diventare contadini, insegnanti o scrittori, sarebbero più felici?

N.T.: Le persone sarebbero sicuramente più felici se potessero decidere liberamente, insieme agli altri, che cosa fare e in che modo farlo. Ciò, naturalmente, include anche la possibilità di passare da un'attività all'altra. Non significa, tuttavia, che dobbiamo diventare per forza tutti creativi. Questa non sarebbe altro che, ancora una volta una fantasia, un'ossessione della mentalità capitalistica. Libertà può significare anche limitarsi a poche attività, o anche non fare proprio niente tutto il giorno, se voglio. Ma anche questo, come il suo opposto, non dovrebbe essere la norma.

Intervista di Joachim Wille (del Frankfurter Rundschau) a Norbert Trenkle [Gruppo Krisis] - 1° maggio 2015 -
Originariamente pubblicato su krisis.com.br

fonte: blogdaconsequencia

domenica 20 settembre 2020

Lettera per lettera, parola per parola !!


All'inizio del 1923, dal momento che si trovava ancora in Austria ad insegnare ai bambini, Wittgenstein entra in contatto con Frank Ramsey, il giovane matematico responsabile della traduzione del Tractatus dal tedesco all'inglese. Wittgenstein scrive una lettera in cui invita Ramsey a visitare la cittadina dove vive, Puchberg. La visita si svolge nel mese di settembre dello stesso anno, e per due settimane i due leggono insieme il Tractatus in modo approfondito e minuzioso: parola per parola, riga per riga, ogni giorno dalle 2 alle 7.
Una simile scena di lettura, in un periodo storico di abbondanza maniacale come il nostro, è profondamente angosciante. La lettura accurata - lettera per lettera, parola per parola, come faceva Foucault durante i suoi corsi (sebbene non l'abbia mai fatta con tutto un libro intero), o come faceva Derrida nei suoi saggi e nelle sue conferenze - oggi sostanzialmente appare come contro-intuitiva. La lettura accanita, oltre ad essere difficile di per sé, implica la difficoltà esterna di dover continuamente rimandare, di riferirsi a quello che è un eccesso di riferimenti, testi e libri che non sono stati letti, o che non si stanno leggendo.
Come nel caso di Wittgenstein, la minuziosità della lettura a volte arriva alla follia - come avviene in "Fuoco pallido" di Nabokov, un altro esempio di un'intensa ed esclusiva scena di lettura. Il lettore comincia a vivere all'interno di ogni sillaba, così come fa quello che l'ha scritta. In tal senso, la lettura approfondita e minuziosa genera un cortocircuito tra azione e reazione, come se il tempo della lettura potesse equivalere a quello della scrittura (un libro perfetto per un'insonnia perfetta, come avrebbe voluto Joyce, ossia, un libro la cui lettura richiede più tempo della sua scrittura). Si può pensare così alla lettura de L'educazione sentimentale, fatta da Flaubert nel salone letterario della principessa Matilde, cugina di Napoleone III, che durò sedici ore, suddivisa in quattro sezioni; oppure alle diverse notti che Kafka trascorreva leggendo integralmente i suoi testi agli amici; o a Fernando Pessoa che nella notte dell'8 marzo del 1914 scrive, in una sorta di estasi, l'intera opera di Alberto Caeiro.

fonte: Um túnel no fim da luz

sabato 19 settembre 2020

“Io non ci ho nessuna colpa”

Punto di riferimento della poesia moderna, Rimbaud ha percorso in soli cinque anni tutte le tappe della sua attività poetica, dai primi versi scritti all’età di quindici anni fino alle ultime prose, terminate quando non aveva ancora raggiunto i vent’anni. Le sue intuizioni e la sua strabiliante tecnica hanno aperto alla letteratura nuovi mondi e prospettive inaudite, dando un impulso e un potere senza pari alla parola poetica. Discostandosi dai modelli del suo tempo, ha espresso desideri e disgusti, speranze e illusioni propri all’adolescenza; ebbro di libertà, si è immerso in un mare di immagini facendo di sé un «veggente» intento a carpire l’ignoto per «cambiare la vita». La sua relazione con Verlaine, finita tragicamente con due colpi di rivoltella, lo portò a scrivere un unico libro, Una stagione all’inferno, testimonianza chiave della crisi dell’occidente nonché lucidissima autocritica; tralasciando i versi, si dedicò infine alla poesia in prosa, creando con le Illuminazioni un universo in movimento, istantaneo, vero caleidoscopio di immagini e di lampi di memoria. Per la sua forza espressiva e il fascino della sua autonomia, l’opera di Rimbaud ha suscitato scompiglio e ammirazione; per le sue straordinarie qualità visionarie, è diventata uno dei modelli fondanti della nostra modernità. Presentato in una nuova traduzione con testo francese a fronte, rivisto sui manoscritti, questo volume contiene le opere poetiche complete di Rimbaud, versi e prose, nonché una scelta di lettere relative alla sua attività letteraria (1870-1875). Sono presenti anche i testi recentemente ritrovati in Francia, per la prima volta riprodotti in edizione italiana.

(dal risvolto di copertina di: Arthur Rimbaud, "Opere", traduzione di Ornella Tajani, a cura di Olivier Bivort. Marsilio €20)

La poesia come rivoluzione
- di Nicola Gardini -

Quando si guarda all’opera di un sovversivo come Arthur Rimbaud, si comprende che la storia della poesia è fondamentalmente rivoluzione sociale. Non tutti i poeti hanno le sue capacità e le sue pretese riformistiche, ma tutti i poeti, anche quelli che più apparentemente continuano una tradizione, provano a intervenire sulla realtà, se non altro allontanandosi per mezzo del ritmo e del canto o di qualche forma di armonia dalle tristezze del linguaggio corrente. Nessun poeta è meno che mago, nelle intenzioni. La messa in crisi della lingua non è che il paradigma di un rinnovamento assai più esteso che coinvolge in una volta le coscienze individuali e le istituzioni pubbliche, insomma tutti i fondamenti del vivere civile, in vista di ideali superiori. Io poeta – io Rimbaud, nella fattispecie – cambio la lingua perché deve cambiare la società; perché deve cambiare il mondo; perché si può essere migliori, più veri. Né – sia chiaro – lingua e mondo si rapportano l’una all’altro su basi puramente analogiche. Qui non si tratta di paragoni: come la lingua, così il mondo; se la lingua…, allora, per somiglianza, anche il mondo… La lingua è il mondo, poiché il mondo è luogo di significati prima che di eventi. Quando si trasformano i significati, si trasforma inevitabilmente la sostanza delle cose e dell’essere umano.
Insofferente di tutto, sempre furibondo, Rimbaud non si limita a criticare quel che ha davanti: la soffocante provincia, la morale borghese, la normatività sessuale, la religione, i fallimenti della politica francese, la pessima scrittura. Lui vuole una rinascita generale, una nuova primavera. La prima parola del suo corpus è appunto “Ver” (il latino per “primavera”). E quale sarebbe il seme della rinascita? Lui stesso. Questo poeta di pochi anni, questo puer, che da sempre si sente diverso e resta coerentemente protestatario ogni giorno della sua vita e, precoce in tutto come nessun altro, sa contemplare d’un colpo d’occhio e contenere in sé inizio e fine, slancio e compiutezza, non lamenta alcuna esclusione: usa la propria diversità come una missione. Nessuna volontà di appartenenza, nessun conformismo mai, neppure nel più conformistico degli spazi, cioè la scuola, dove è emarginato per troppa bravura. L’amore, quello sì; mai l’integrazione.
Rimbaud si sente un protetto di Apollo e delle Muse; ancor meglio: si sente un Cristo. La sua frase «Je est un autre», che scrive a due dei suoi principali corrispondenti (Georges Izambard e a Paul Demeny il 13 e il 15 maggio 1871), significa questo: non esisto se non nell’innalzamento di me (“monter”, “salire”, è tra i suoi verbi prediletti); sono uomo e sono dio. Mira a identificarsi con il suo “génie”, ovvero con una dimensione superiore dell’intelligenza e della sensibilità. La famosa alterità rimbaldiana dell’io, che non smette di correre a sproposito di bocca in bocca, non va presa per alienazione o per de-soggettivizzazione (o spersonalizzazione, capriccio di certo avanguardismo novecentesco). Rappresenta invece un potenziamento del sé, una “transustanziazione”, un’”alterazione” – se vogliamo continuare a giocare con la varietà semantica – del pensiero; un “tradurre” il dato in metafora, nella metafora trovando un nuovo dato. “Traduction” è proprio una parola di Rimbaud (mi sto riferendo a uno dei suoi passi più celebri, «Alchimia del verbo»), un hapax legomenon, che, mentre risulta enigmatico per alcuni, per me indica abbastanza chiaramente il progetto di mutare l’inerzia verbale e mentale in “altra lingua”. In conclusione, il poeta sa che prima o poi, grazie alle sue magie, tutti dovremo parlare e pensare da “stranieri”. Alterandosi, il pensiero si accresce e vede di più, più a fondo. E tale alterazione ha qualcosa del fenomeno incontrollabile, è un’“éclosion”, uno “sbocciare”, che non deriva, alla fine, da nulla di volontario. Che ci possono fare, illustra figurativamente Rimbaud ai due citati signori, il legno e l’ottone se un giorno si ritrovano violino e tromba? Certo, ci vuole impegno a diventare altro: ci vuole un “dérèglement” (“sregolamento”) dei sensi (le facoltà percettive) per diventare “Voyant”, “visionario”. Però, l’impegno arriva fino a un certo punto. “Ce n’est pas du tout ma faute”: “Io non ci ho nessuna colpa”. Lo “sregolamento” stesso è parte dello “sbocciare”.
La carriera di Rimbaud è un’iniziazione perenne; una ricerca che, sostenuta da una vocazione anche troppo presto matura, si riforma continuamente su sé stessa, approfondendo e smentendo i risultati via via raggiunti, pendolando tra fallimento e trionfo, fino alla consunzione ultima della volontà e della parola. Comincia a scuola con alcuni componimenti metrici in latino, il massimo della “regola”, che sanno di Ovidio (da lui quel “ver” che ho ricordato) e di Virgilio (oh eccezionalmente belli, soprattutto quando si considera che l’autore ha solo quattordici anni, e colmi di profezie), passa per ogni sperimentazione e registro (e non pochi capolavori), perviene a una resa dei conti nella prosa poetica di Une saison en enfer e si chiude con il francese introverso, buio delle Illuminations. Poco più di cinque anni di attività, durante i quali il poeta pubblica appena tre poesie, una satira politica e Une saison en enfer (che per altro a lungo non avrà alcuna circolazione). Poi, per oltre sedici anni, il silenzio: i viaggi, il disinteresse per quel che in Francia si va facendo della sua opera, il cancro.
Tutti gli scritti di Rimbaud escono ora per Marsilio con il titolo di Opere, accompagnati dal testo a fronte. La traduzione è di Ornella Tajani e la cura di Olivier Bivort. Si tratta di un bel volume, elegante e informativo, governato da senso della misura e da rara limpidezza di intenti, destinato a rimanere – suppongo – il Rimbaud italiano per molti anni. Bivort ha giustamente deciso di sistemare i testi secondo la data di composizione, lasciando emergere dalla semplice sequenza cronologica la direzione della creatività rimbaldiana. Ha incluso anche i componimenti latini (tradotti da Emilio Pianezzola), che saranno una sorpresa per il lettore meno esperto del Rimbaud “pre-Bateau ivre” o per quello più riluttante ad accettarli fuori dei confini dell’esercizio scolastico, e una scelta di alcune lettere, compresa quella che Rimbaud scrisse a Paul Verlaine dopo la rottura. Sia l’introduzione sia le note di commento sono ispirate alla più sincera volontà di chiarezza e di informazione (spiace solo non trovare alcuna nota sul termine “traduction”, che al bravo curatore forse sarà sembrato fin troppo accessibile). Un’ottima cronologia completa gli apparati esplicativi. La traduzione, che la traduttrice giustifica in una lunga nota, è limpida ed elegante; districa non pochi viluppi e non si sforza di riprodurre isosillabismi, rime o giochi di parola laddove la somiglianza tra le due lingue non venga in soccorso, e in tal modo propone un giusto metodo per tutti i traduttori di opere complete di poesia. Un conto, infatti, è tradurre componimenti singoli, per ragioni artistiche o determinate da circostanze particolari, un conto tradurre un corpus completo per un’ampia diffusione. Suggerisco solo, in vista di una ristampa, di rendere l’“ô” delle esclamazioni con “oh” e non con “o” (come in “Genio”, p. 513) perché sia evitata confusione con la “o” disgiuntiva (“o” andrebbe bene se si trattasse di invocazioni alla seconda persona).

- Nicola Gardini - Pubblicato sul Sole del  29/03/2020 -

venerdì 18 settembre 2020

Un posto dove nascondersi

Vedi figliolo... devi pensare al tipo di vita che vorresti fare.  Pensaci per bene. Fanne un posto in cui vorresti stare. Un ranch, una casa al mare, un attico, non importa quale sia, ma un posto in cui puoi andare a nasconderti. Così quando tutti rompono le scatole, o non puoi smettere di pensare a tua madre, puoi andare li'. » 

( Earl Hurley / Kris Kristofferson a Frank Flannigan  / Emile Hirsch / nel film "The Motel Life" (2012) di Alan e Gabe  Polsky tratto dall'omonimo romanzo di Willy Vlautin)

giovedì 17 settembre 2020

Posti dove andare

BorgoTordo

Facce senza dio (Devil's Angels) è un film del 1967 prodotto da Roger Corman, e diretto da un misconosciuto Daniel Haller su soggetto e sceneggiatura di Charles B. Griffith .
Cody (un John Cassavetes dubbioso) è a capo di una banda di motociclisti (The Skulls). Per sfuggire ai poliziotti che li stanno braccando - per aver provocato la morte incidentale di un passante - decide di guidarli verso un posto che con ogni probabilità non è mai esistito: Borgo del Tordo; un villaggio che dovrebbe trovarsi adagiato in una qualche baia, luogo utopico di pace e di tranquillità, di cui forse qualcuno, un tempo, gli ha parlato. A Borgo del Tordo, il gruppo non ci arriverà mai. Il verificarsi di una concatenazione di eventi, farà sì che Cody, alla fine, lascerà la banda e si allontanerà, da solo, sulla sua moto. Verso Borgo del Tordo?

(già pubblicato sul blog l'11 luglio 2006)

martedì 15 settembre 2020

Piccola storia delle risorse umane

Le meraviglie della vita moderna spiegate in poche parole
- Un'Antropologia della Rivoluzione Industriale -
di Peter Harrison

Preambolo
Ne "Il Capitale", Marx ha indicato quali sono i due modi per creare un surplus a partire dallo sfruttamento dell'altrui lavoro. Il primo è l'estrazione del «plusvalore assoluto». Estrarre plusvalore assoluto significa trarre profitto dal lavoro di altri facendoli lavorare più a lungo o più duramente, oppure mettendo al lavoro un maggior numero di persone. Questo modello economico si scontra con quelli che sono dei limiti prevedibili: le persone muoiono a causa dell'eccesso di lavoro; non si riescono a trovare abbastanza persone per farle lavorare; mantenerli in salute costa troppo; e così via. Il secondo modo per creare profitto consiste nel migliorare quella che è l'organizzazione dei compiti che vengono svolti, e nell'introdurre dei macchinari che facciano sì che il tempo di lavoro diventi più produttivo. Questo secondo modo viene chiamato estrazione del «plusvalore relativo»; ed è il principale motore del capitalismo. I profitti che vengono resi disponibili a partire da questo secondo modo di produrre, non dipendono da fattori assoluti, come il numero dei lavoratori o la disponibilità di risorse, ma dalla capacità degli imprenditori di innovare la produzione, l'approvvigionamento, e i metodi di distribuzione, in modo che i profitti possano aumentare in relazione ad altri fattori che rimangono costanti, o che potrebbero perfino diminuire. Ad esempio, nuovi metodi o macchinari può voler dire - come tutti sappiamo - che servono meno lavoratori.
A tal proposito, in tutto questo testo utilizzo la parola capitalismo al fine di sottolineare il fatto che «avere un capitale» significa accumulare intenzionalmente dei fondi per poter fare dei futuri investimenti nell'industria. Capitale, non significa solo denaro sotto il letto, ma esso è profitto che dev'essere specificamente usato per poi tornare a produrre ancora più ricchezza.

La Storia vista come se essa fosse un "buon  soldato"
In un cartone animato che ho visto su Internet qualche tempo fa, c'è un singolo fotogramma nel quale si vede - in un'ambientazione medievale - una coppia di mezza età in una camera da letto. Uno dei due guarda il sole che sta sorgendo glorioso da dietro le colline ed esclama qualcosa del tipo: «Grazie al cielo! Guarda cara! Finalmente è arrivata la Riforma!»
Questo cartone animato - che non sono riuscito a ritrovare - riesce a dire tutto ciò che ho sempre voluto circa la tendenza a vedere il «passato» come se fossimo sempre in attesa del «futuro». Si tratta di una narrazione della storia che gli accademici definiscono «teleologica» - nel senso che «lo scopo» della storia è «il presente», a cui la storia porta. Ma per quanto esista un termine per definirla, continuano ad esserci molto accademici che assecondano pigramente quest'idea che la storia sia qualcosa che assomigli ad una specie di Spirito cosciente che si batte per un bene superiore. Non è certo una coincidenza che quest'idea sia stata formulata - nel bel mezzo di quella che è stata l'irruzione tecnologica dell'Europa - dal filosofo Hegel, il quale sosteneva che «il fine ultimo razione del mondo» è la sintesi trascendente, con la ragione, del «piano della divina Provvidenza». Ci troviamo, a quanto pare, bloccati nella nozione progressista secondo cui la storia – sebbene essa sia un percorso accidentato (Hegel ha suggerito che avrebbe potuto essere vista come un «mattatoio» in cui si fanno i sacrifici al futuro) - è una narrazione che in definitiva dimostra come gli esseri umani stiano diventando più intelligenti. È vero che ci sono sempre dei «brontoloni» che si lamentano in maniera miope del fatto che la loro gioventù sarebbe stata migliore, ignari del fatto che anche i loro genitori si sono lamentati, e prima i loro nonni... ma per lo più, la maggior parte di noi potrebbe convenire che la società attuale si trova all'apice di quello che finora è stato il progresso, in attesa di essere eclissata dal prossimo grande cambiamento tecnologico. (Eppure, ci sono ora molti di noi che sospettano che, anziché andare verso un futuro fatto di macchine volanti, stiamo correndo verso l'Armageddon ecologico, ma questa è un'altra questione.)
Il cartone animato della Riforma si basa sul fatto che si tende ad immaginare le persone del passato come se stessero lì solo ad aspettare che le cose vadano meglio. In maniera analoga, condividiamo l'idea comune secondo cui le «persone che vivevano nelle caverne» dovevano essere semplicemente sempre alla disperata ricerca di miglioramenti delle loro vite mentre venivano inseguiti dalle tigri dai denti a sciabola. Fondamentale, in queste interpretazioni del passato, rimane il fato che gli esseri umani del passato vengono pensati proprio come noi, come se fossimo stati improvvisamente trasportati indietro di 100.000 anni. In un  punto di vista del genere, ci sono 4 problemi. Il primo riguarda il fatto che se noi pensiamo che gli esseri umani «selvaggi» dovevano combattere per sopravvivere, allora come diamine sono riusciti a farlo per almeno 200.000 anni, prima che emergessero i primi Stati e le le prime civiltà? Il secondo problema è quello che, se per gli esseri umani era così difficile sopravvivere senza civiltà, come fanno allora a sopravvivere ora gli altri animali? Se per loro la vita è davvero una lotta quotidiana senza fine?
Forse si potrebbe argomentare che non hanno una coscienza in grado di dire loro quanto brevi e brutali siano le loro vite... ma se è così, allora come hanno fatto gli esseri umani coscienti ad affrontare 200.000 anni di consapevolezza che la loro vita era terribile, e come fanno oggi a fare i conti con questa cosa le attuali tribù selvagge? Quelle popolazioni avrebbero dovuto essere continuamente tormentate dalla depressione e dal suicidio, e pertanto anche quelle tribù che oggi vivono sul nostro pianeta senza avere uno Stato dovrebbero soffrire di un tale malessere, Naturalmente, non era affatto così, e non lo è neppure oggi. E l'unica ragione per cui i popoli delle tribù e gli indigeni di oggi soffrono di depressione e di suicidio è perché sono stati trascinati nella civiltà, ed è stato portato loro via, tutto quello che avevano una volta. Come ha osservato Émile Durkheim nel 1893, uno dei doni della civiltà moderna è il «suicidio della tristezza».
Il terzo problema riguardante questo concetto consiste nel fatto che si mescola con quelle che sono sgradevoli rappresentazioni del passato – tipo quelle che illustrano il «Medioevo» in Europa e l'inizio dell'industrializzazione - come se fosse sempre stato così. Steven Pinker, ad esempio, nel suo libro "The Better Angels of Our Nature" nega snobisticamente un Medioevo in Europa asserendo che «per noi, raffinatezza, autocontrollo e considerazione sono state per noi una seconda natura che doveva essere conquistata», e  che allora le persone «erano, per dirlo in una parola, disgustose». Per quanto noi si guardi indietro a quelli che sono gli aspetti della civiltà, e si possa essere grati per non dover sopportare oggi quei particolari rigori, perché mai si dovrebbe dipingere il passato in maniera simile?
Il quarto problema è che se guardiamo al passato in questo modo, ecco che siamo costretti a concludere logicamente che tutte le società precedenti sono state un po' inadeguate, o semplicemente un po' stupide nell'affrontare le cose. Il rovescio della medaglia di un simile punto di vista che si auto-compiace della nostra attuale imponente "sapienza", consiste in un giudizio pericolosamente negativo di quelle «tribù non contattate» che vivono senza civiltà. Si pensi a Bolsonaro e a Narendra Modi.

L'errore della civiltà
Anziché considerare la storia dell'umanità come se fosse una continua narrazione che ha sotto il cofano - a spingerla - il motore del progresso, sarei portato piuttosto a sostenere che ci sono stati due eventi fisici significativi, accaduti in passato, cruciali per poter comprendere la società umana attuale. Entrambi questi eventi, sono stati delle «disgrazie»; come Étienne de La Boétie scrisse nel 1553 a proposito del primo. Il primo di questi due eventi fu la comparsa della gerarchia e dello sfruttamento che si espresse nella costituzione di uno Stato, o di una civiltà: un contesto in cui le persone si sottomettono ad una «servitù volontaria», come ebbe a notare La Boétie. Il secondo evento è stato l'emergere del capitalismo come forma economica dominante a livello globale. Ed è a proposito di questo secondo evento, che voglio approfondire.
Con ogni probabilità, tutti noi abbiamo una vaga idea di che cosa sia il capitalismo: la proprietà privata - o statale - dei mezzi di produzione, il lavoro salariato, un'economia monetaria, alienazione, «società dei consumi», offerta e domanda, e così via. Ma il capitalismo non è sempre esistito. C'è stato qualcosa di specifico che lo ha portato all'esistenza, e noi percepiamo in qualche modo che il capitalismo è differente da tutte le altre precedenti forme economiche a causa di un singolare fenomeno; quello della Rivoluzione Industriale. Improvvisamente, trecento anni fa, si è passati dalla produzione manuale col telaio alla tessitura coi telai a motore... quindi ai treni, alle automobili, alla scissione degli atomi, ai computer, agli smartphone.
La Rivoluzione Industriale NON è stata il culmine naturale di cinquemila anni di ascesa e caduta della civiltà a partire dalla Mesopotamia, NON è stato il risultato della crescente intelligenza dell'umanità che ha permesso agli individui di padroneggiare ciò che noi chiamiamo scienza e tecnologia: ma si è trattato dell'intrecciarsi ed unirsi insieme dell'industria tessile, dominata dall'etica del lavoro dei Protestanti; dell'oro delle Americhe; e dalla Tratta Atlantica degli Schiavi.
Ma il fattore chiave è stata la nuova strategia di realizzazione del profitto sviluppata dagli imprenditori tessili. Questi commercianti, hanno creato, in maniera efficiente, delle vere e proprie reti di approvvigionamento e distribuzione intorno all'unità produttiva principale - il tessitore di lana che lavorava in casa - assicurandosi e facendo sì che i loro tessitori avessero telai a mano efficienti in modo da garantire una maggior produttività. L'oro e la schiavitù, ed il Protestantesimo, hanno solo aiutato a supportare quello che era il nuovo metodo economico e a garantire che avesse lo spazio ed il tempo per diffondersi e propagarsi verso le altre imprese, e a diventare un modello universale di successo. Il nuovo metodo economico era quello dell'estrazione del «plusvalore relativo», come lo aveva definito Marx. Il metodo si adattava perfettamente a quella che era l'emergente etica del lavoro del movimento Protestante in Europa - ed il denaro e la schiavitù avrebbero tenuto in piedi il nuovo scenario fino a quando non si fosse pienamente affermato. Ma è stata l'estrazione del «plusvalore relativo» - in una parola, il capitalismo - che in definitiva, ed essenzialmente, ha innescato la Rivoluzione Industriale.
Jairus Banaji - nel suo libro "Theory as History", in cui esamina le società agrarie prima che diventino pienamente capitaliste, in particolare nell'India del 19° secolo - sostiene che per definire un'impresa capitalista, così come ha fatto Marx, non importa se i lavoratori siano schiavi o contadini o lavoratori salariati, bensì dal fatto che i profitti vendano usati per generare profitti ancora maggiori, investendo in metodi di produzione migliorati, e dal fatto che il denaro non viene lasciato inattivo.

L'umanità mineraria
Nel capitalismo, le persone sono diventate un tipo speciale di risorsa all’interno di un'impresa; una risorsa che può essere sempre adattata a lavorare a ritmi diversi, in situazioni nuove, con macchinari e processi sempre nuovi. Tutto ciò è successo a partire dal fatto che gli imprenditori si sono resi conto che gli esseri umani erano adattabili e potevano imparare nuove tecniche. Lo storico E.P. Thompson ha scritto in maniera estesa, tra le altre cose, sulla resistenza dei lavoratori alle nuove forme di lavoro, e su come queste resistenze siano state disaggregate per mezzo della disciplina di fabbrica. Nel periodo di tempo del 19° secolo, in cui la classe operaia europea emerse, sebbene molti sognassero un mondo migliore, tutti avevano assorbito l'etica del lavoro che veniva promossa dalle classi dirigenti. Spesso, gli schiavi e i popoli appena colonizzati - che nella loro vita precedente erano stati guerrieri o qualcosa del genere - morivano semplicemente a causa dell'incessante lavoro che venivano costretti a svolgere.
La Rivoluzione Industriale ha rappresentato il culmine delle diverse forze combinate insieme, piuttosto che essere espressione di un trionfo della volontà umana congiunta nel suo insieme. L'organizzazione sociale e la sorprendente tecnologia che vediamo nel mondo che ci circonda, più che un'invenzione delle persone brillanti che sono state bene istruite, è il prodotto dell'imperativo che spinge ad aumentare sempre più il plusvalore relativo, che è il particolare modo capitalistico di far crescere i profitti. Quella che è stata la comparsa della macchina a vapore, è dovuta più alla strategia di acquisizione di plusvalore relativo che alla genialità riconosciuta di James Watt. Le conseguenze derivanti dall'acquisizione sistematica di plusvalore relativo sono state l'aumento della ricchezza monetaria per un'intera classe; che ora, sostanzialmente, sapeva che per rimanere ricca doveva continuare ad innovare e ad investire. Il sorgere della "scienza" di cui disponiamo oggi, non ha rappresentato il culmine di eoni di ingegnosità umana; ma è stato il risultato di questo particolare metodo di ottenimento della ricchezza, così come lo è ancora oggi. Fu solo durante «il grande spartiacque del XVI secolo», come scrive Banaji, che divenne evidente che in Europa occidentale, la produzione capitalistica era diventata il modo economico dominante. È solamente nel contesto di un modo di produzione pienamente capitalista che l'intera società viene ad essere orientata, oltre che determinata, dall'aumento di quella che è la produttività relativa di ciascun lavoratore. Ed è questo il motore e la base dell'innovazione tecnologica. Ed è per questo che oggi, quando il capitalismo è ormai diventato parte perfino del nostro stesso DNA, assistiamo ad una proliferazione di James Watts. Pertanto, le enormi "conquiste" tecnologiche che ci sono state durante e dopo la Rivoluzione Industriale non rappresentano un qualche magico apogeo della storia umana, ma sono solo il risultato specifico di una società che è nata e cresciuta organizzando sé stessa sul principio secondo cui doveva essere in grado di estrarre una quantità infinita di profitto da quella risorsa perennemente adattabile che è l'essere umano.

Peter Harrison - Pubblicato per la prima volta online il 16/2/2020 su CounterPunch, revisione del settembre 2020 -

Riferimenti:

Anderson Stephanie, 2009, "The Two Lives of Narcisse Pelletier, in "Pelletier: The Forgotten Castaway of Cape York", Melbourne Books, Australia.
Banaji, Jairus. 2011, "Theory as History: Essays on Modes of Production and Exploitation", Haymarket Books, Chicago.
Boétie, É. de La, 2008 [1553], "The Politics of Obedience: The Discourse of Voluntary Servitude", Harry Kurz (trans.), Ludwig von Mises Institute, Auburn.
Durkheim, Emile 1997 [1893], "The Division of Labour in Society", W. D. Halls (trans.), The Free Press, New York.
Hegel, G. W. F. 2011, "Lectures on the Philosophy of History", Ruben Alvaredo (trans.), Wordbridge Publishing, Aalten.
Mandel, E. 1976, "Introduction", in "Capital, A Critique of Political Economy", Volume I, Ben Fowkes (trans.), Penguin Books, London
Marx, K. 1976, "Capital, A Critique of Political Economy", Volume I, Ben Fowkes (trans.), Penguin Books, London
Pinker, S. 2012, "The Better Angels of Our Nature: The Decline of Violence in History and its Causes", Penguin Books, New York.
Survival International, survivalinternational.org
Thompson, E. P. 1967, "Time, Work-Discipline, and Industrial Capitalism", in "Past and Present", No. 38. (Dec., 1967), pp. 56-97.
Weber, M. 2003 [1904-5/1920], The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism, Talcot Parsons (trans.), Dover Publications, New York.