venerdì 4 settembre 2020

Uno sguardo di Medusa sul mondo!

 - immagine: La testa della Medusa, di Peter Paul Rubens (1617-18) -

Che cos'è il pensiero critico
- Pensare in maniera critica, non significa giudicare o denunciare, bensì ascoltare chi resiste -
di Amador Fernández-Savater

Di solito, associamo il pensiero critico a due operazioni:
  - Il sospetto rispetto al dato, al fatto. Il critico non si limita a dare per buone le apparenze, i fenomeni, i dati relativi ai fatti. Ma guarda sotto, dietro le scene e dietro le quinte. Ed è lì che scopre le forze che tirano davvero i fili: il potere, il denaro, ecc.
- Il giudizio e la denuncia. Il critico giudica la realtà a partire da un modello, un ideale, e segnala quali sono i difetti, i limiti, le carenze. Il mondo non è quello che dovrebbe essere, e il critico valuta negativamente, mette alla gogna.
Oggi la critica ha un grande prestigio. Non è ingenua, ma vede ovunque le trappole di un potere onnipresente. Non è conformista, denuncia, non si accontenta, rimane insoddisfatta. Non è né falsa né ipocrita, dice sempre la verità riguardo a quel che pensa. Non è complice, si schiera, prende partito. Il prestigio della critica deriva dalla «lucidità» senza sotterfugi, senza consolazioni e senza alibi.
Mi sembra che con un simile approccio, così ampiamente riconosciuto e celebrato, però, ci siano un bel po' di problemi (a tal proposito, si veda il grande successo che i critici hanno sulle reti sociali). In questo nostro mondo, la critica è massiccia e quotidiana, eppure, tuttavia non riesce nemmeno a scalfire quello che è lo stato delle cose. Perché?
Per suggerire una risposta, vorrei proporre un'altra idea ed un'altra pratica di pensiero critico, in opposizione e alternativa alla prima. Questo pensiero critico dovrebbe essere quello che descrive il conflitto che costituisce la realtà. Tutto ciò che una battaglia in corso, ci fa vedere, udire e sentire. Quel che riguarda la realtà, visto dalla parte di chi non si lascia né conquistare né governare.
Facciamo un esempio di questo genere di atteggiamento. Pensiamo ad Internet. Al giorno d'oggi, affermare fino a che punto essa è subordinata alle logiche del potere e del mercato, fino a che punto siamo noi stessi che riproduciamo una tale logica attraverso ognuno dei nostri tweet e dei nostri «mi piace», fino a che punto siano ingenui quei posizionamenti che vedono nella rete delle possibilità sovversive ed emancipatrici; affermare tutto questo fa sì che si possa ottenere tutto il prestigio derivante da quella che viene definita «lucidità critica». Può darsi che sia così. Ma se è così, lo si deve al fatto che si è perso -  o per meglio dire, che si sta perdendo per strada - una lotta, una battaglia, un conflitto tra quelle che sono le forze distinte che hanno lottato per fare della rete qualcos'altro. E il risultato che vediamo oggi è contingente, provvisorio e casuale, non si trovava già inscritto in una causa originaria, in una fatalità, se non in quella della tecnologia.
La lucidità critica si pone sempre ai margini di una tale disputa, come se non fosse essa  stessa coinvolta ed implicata in ciò di cui parla e che descrive. Si tratta di un pensiero esterno, e non semplicemente per il fatto che il critico non si trova ad essere implicato nel conflitto, ma piuttosto perché non lo sente, non ne trae niente, non lo considera come un dato rilevante al fine di pensare. Una simile esteriorità da parte del critico, di solito, viene presentata come «obiettività».
La lucidità critica guarda il mondo a partire dal punto di vista del potere, a partire da quello che il potere fa con il mondo. È uno sguardo feticizzante dal momento che congela le cose nella definizione che il nemico ci offre di esse, e lo fa sia destoricizzando che rimuovendo dalla vista quelle che sono le forze che lo sfidano. Il suo è uno sguardo di Medusa. La lucidità critica non cambia nulla poiché non tocca i corpi, ma si limita solamente ad aggiungere «consapevolezza» a quella che è un'impotenza. Non descrive dei funzionamenti o delle strategie, riferite ad un conflitto aperto, ma solamente leggi, determinazioni, fatalità. Non vede mai il «dare e avere» nella lotta infinita tra le forze, ma solo un altro «giro di vite» in quello che è l'eterno potere del dominio. In questo modo la critica raddoppia il punto di vista dei vincitori. Oggi si discute dell'impotenza della sinistra. Si spiega, ad esempio che essa è dovuta all'assenza di ideali ed utopie. Non credo. Si tratta, piuttosto, come di una disconnessione, uno scollamento del discorso da tutto ciò che è lotta, tutto ciò che resiste, tutto quello che non si adatta e grida. Gli orizzonti e le alternative vengono sempre dopo, prima c'è la resistenza. La lucidità critica è rassegnata, determinista e impotente. Dal momento che non ha alcun contatto con le resistenze quotidiane, si affida alla superiorità morale, sempre sterile e controproducente. Però, non cadiamo nella critica della critica. Meglio esaminarla brevemente, per poter osservare il suo funzionamento concreto, esaminare alcuni pensieri in grado di fare quello che qui ci interessa: ascoltare e fare ascoltare il fragore della battaglia.

Con e contro il marxismo: Castoriadis e John Holloway
I primi pensieri provengono direttamente da Marx. Marx ed il marxismo sono un filone importantissimo di quest'altro modo di intendere la critica. Nel fare della storia, la storia della lotta di classe. Nel fare uso della dialettica tra gli opposti come metodo di analisi. Nel pensare l'emancipazione della classe operaia come «il suo proprio compito, la sua propria opera». Nel considerare l'economia come una divisione conflittuale tra i proprietari e i diseredati spossessati delle loro condizioni produttive.
Al giorno d'oggi, quando si leggono quelle analisi sul mondo del lavoro che vengono svolte nei termini della filosofia giuridica-liberale del libero contratto, o si legge la favoletta della buonanotte di Yuval Noah Harari, "Homo Deus. Breve storia del futuro", sul capitalismo che viene visto come se fosse un «elaboratore di dati», ecco che ci si accorge fino a che punto Marx sia ancora parecchio avanti rispetto a noi, e che vada riscoperto ed attualizzato come il vero e proprio classico che è. Ma questo impulso, verso Marx ed il marxismo, ha convissuto sempre con un altro impulso: la teorizzazione presunta come scientifica. Contro di essa, si scaglia il pensatore greco Cornelius Castoriadis quando denuncia che «ne Il Capitale la lotta di classe non c'è». Seguiamo i suoi argomenti:
Secondo Marx, la fase dell'«accumulazione originaria» consiste nell'espropriazione  e nella privatizzazione dei mezzi di produzione. Il capitalismo non è solamente l'ampliamento dello scambio di equivalenti (la Legge del Valore) per farlo coincidere con tutta quanta la società, ma esso è in primo luogo una violenza espropriatrice. In questo modo, nasce così, completamente ricoperta di sangue, una classe di spossessati che, per sopravvivere, non possono fare altro che vendere la propria forza lavoro. Tale forza lavoro - prosegue Marx - non è una merce alla stessa stregua di tutte le altre, ma è quella merce che viene utilizzata per poter produrre più valore. E questo surplus sta all'origine del profitto capitalistico.
Castoriadis è d'accordo sul fatto che la forza lavoro non sia una merce come tutte le altre, ma ciò a suo avviso avviene per motivi diversi: sia il suo «valore d'uso» che il suo «valore di scambio» rimangono indeterminati. Vale a dire, tanto il rendimento effettivo che si può estrarre dalla forza lavoro nell'arco di tempo di una giornata lavorativa (valore d'uso), quanto i costi di riproduzione che stabiliscono e fissano il salario (valore di scambio) sono il risultato di un conflitto che ha luogo e ricomincia ogni giorno.
La lotta quotidiana dei proletari co-determina, in maniera decisiva, quella che è la configurazione del reale. Tutta l'intera storia del capitalismo è dipesa (e continua a dipendere) da tale conflitto: l'evoluzione della tecnologia, dei metodi di gestione del lavoro, della distribuzione della ricchezza, dei livelli di occupazione, dei diritti sociali, ecc. Nell'astrarre la lotta, per riflettere e meglio inquadrare la regolarità delle leggi del capitale, si finisce per cadere in una visione unilaterale che vede solamente ciò che il capitale «fa essere» realtà.
Dov'è il problema? Dal momento che la lotta non è una «cosa», la resistenza operaia non si lascia «dedurre» a partire da un'ipotesi teorica, ma dev'essere percepita e compresa. La sua forma, la sua intensità, il suo impatto, i suoi agenti non possono essere presupposti. La critica che ci interessa, vede per mezzo delle orecchie. Non si limita solamente ad astrarre e a contemplare (teoria), ma spalanca le orecchie, e attiva tutti quelli che sono i suoi sensi per meglio pensare.
Ad esempio, Socialismo o Barbarie, il gruppo cui per decenni partecipò Castoriadis, ha inventato delle concrete procedure di ascolto (inchiesta operaia, ecc.) attraverso cui veniva percepito che la resistenza proletaria, non solo si esprimeva come un conflitto esplicito per il salario - attraverso delle organizzazioni formali come i sindacati - ma anche come delle lotte informali e quotidiane (sabotaggio, pessimo lavoro, interruzione della catena di montaggio) mediante le quali venivano messe in discussione perfino le condizioni lavorative.
In un senso analogo a quello di Castoriadis, John Holloway parla del duplice carattere del lavoro nel capitalismo: come lavoro astratto, indifferenziato e generale, come lavoro che serve a fare soldi; e come lavoro che serve per rendere concreto, attraverso il proprio tempo, con il proprio lavoro quelli che sono i propri fini. Tra le due cose non esiste identità, o subordinazione completa, bensì tensione, conflitto, antagonismo. Nel lavoro astratto, ha luogo una cattura del fare concreto: intensificare la produttività, rendere ancora più precarie le condizioni, accelerare i ritmi. Ma la determinazione non è mai totale: esiste conflitto. Il fare concreto cerca di difendere la propria temporalità, il suo carattere qualitativo, i suoi propri obiettivi: «far bene le cose», come a volte diciamo. Ci si sottrae, si scappa, si resiste. La tendenza al fare costituisce la contraddizione del capitalismo, ma non si tratta di una contraddizione «oggettiva», o «ciclica», ma piuttosto di una contraddizione vivente e soggettiva. Bisogna darle ascolto, senza presupporla. Non si può dissociare l'analisi del capitalismo e delle lotte come se si trattasse di due cose distinte, che vanno ciascuna per la propria strada. La finanziarizzazione dell'economia, il credito e l'indebitamento , non sono solo un «giro di vite» dato dal capitale in quella che è la sua insaziabile voracità, ma si tratta piuttosto di una «fuga in avanti» rispetto a qualcosa che gli resiste e lo incrina. La lotta è una dinamica attuale che vive nel cuore stesso del capitale, è la sostanza delle sue crisi e l'unica base materiale di un possibile cambiamento.
Pensare il capitale e le lotte come esteriori, significa considerare il capitale come un «soggetto automatico», studiare la sua crisi fine come un «collasso oggettivo», sarebbe in fondo una vuota possibilità... La realtà non viene definita  solo a partire dal potere, ma anche da ogni resistenza che ogni volta dobbiamo ascoltare. Il lavoro, ma anche le tecnologie, le immagini, i linguaggi e i desideri sono il risultato sempre incerto ed indeterminato di un conflitto permanente, di un infinito dare e avere.

Il punto di vista della plebe: Foucault e Diego Sztulwark
Ascoltare ogni volta quelle che sono le resistenze, significa domandarsi se queste assumano sempre ed ogni volta la medesima forma e seguano la stessa logica. È questo ciò che Foucault ha cercato di proporre nel 1977, in una sua famosa intervista con Jacques Rancière, dal titolo "Poteri e strategie".
In tale intervista, Foucault chiama «plebe» quelle resistenze «che ad ogni avanzata del potere rispondono attraverso un movimento che cerca di liberarsi di esso.» La plebe non si oppone al potere come se si trattasse di un duello, una battaglia napoleonica, un corpo a corpo; ma piuttosto «abbiamo plebi» laddove ci sono relazioni di potere, ed entrambi attraversano l'intera superficie sociale. In questo approccio di Foucault, ad essere messo in discussione è lo schema e la logica della contraddizione. Ci sono relazioni di potere e plebe sia nel proletariato che nella borghesia. Non sempre il conflitto oppone due blocchi simmetrici, ma si tratta piuttosto di una dinamica viva cangiante, mutevole e nomade. Che cos'è allora la critica? Foucault parla di «pensare per funzionamenti». Qualcosa di molto distinto e assai diverso da un giudizio o da una condanna morale, da una lamentela vittimistica o da una denuncia, o da una proiezione di sogni o di utopie. È questa, la descrizione delle distinte strategia che si dispiegano nel conflitto, dei diversi movimenti messi in atto dalle forzi presenti in campo. Non si tratta di spiegare tutto quanto a partire da un punto di origine o da un nucleo centrale di dominio (il Potere, il Valore, lo Spettacolo, ecc.), ma piuttosto di descrivere i funzionamenti concreti ingaggiati in un dato conflitto. Strategie mobili, dinamiche specifiche, e non la Grande Contraddizione.
«Assumere il punto di vista della plebe, che è quello dell'inverso e del limite in relazione al potere, è indispensabile per svolgere l'analisi dei suoi dispositivi, a partire dai quali può essere compreso il loro funzionamento e le loro trasformazioni». Solo a partire dalla vita dannata dei folli, dei malati o dei prigionieri e dalle loro resistenze si può comprendere il manicomio, l'ospedale, la prigione. Solo a partire dall'anomalia si può comprendere la normalizzazione».
La critica totalizzante è pigra e ripetitiva, perché a qualsiasi punto della società applica a priori lo stesso schema, gerarchizzando le resistenze (prima gli operai delle donne, prima le donne dei trans...) anziché analizzare l'impatto di ciascuna lotta, di quello che ciascuna mette in gioco e in discussione, la propria estensione e le sue specifiche connessioni. Non ascolta le singolarità. Quello che rivolge, è uno sguardo dall'alto, come a volo d'aquila, mentre il punto di vista espresso dalla plebe produce «saperi strategici». Un buon esempio di un tale procedere critico-strategico, sembra essere oggi il modo in cui certi femminismi latino-americani costituiscono conoscenza e movimento, nei quali il «genere» funziona come una sorta di prospettiva a partire dalla quale si può percepire, descrivere e connettere le diverse forme di sfruttamento del lavoro formale ed informale, le diverse violenze che vengono esercitate contro i corpi e le trame comunitarie (dall'indebitamento fino al femminicidio), le varie insubordinazioni e ribellioni al sistema capitalista patriarcale. Non a priori, secondo quello che è uno schema teorico, ma piuttosto concretamente, punto per punto.
La plebe è anche uno degli elementi principali del libro di Diego Sztulwark, "La Ofensiva sensible". Oggi, quando la linea del fronte ci attraversa nel mezzo, la plebe ci si trova dentro, diventa interna. Il neoliberismo è il tentativo di confondere desiderio e mercato, di trasformarci in soggetti di un rendimento 24 ore su 24, di sottometterci al comando della produttività totale, ma i nostri corpi di schiantano e urlano. Buchi e crepe si aprono dappertutto: ansia, depressione, stanchezza. Sono questi i «sintomi». Di fronte alla patologizzazione o alla colpevolizzazione dei sintomi, Sztulwark ci esorta ad ascoltarli, ad allearsi con essi, a pensare a partire da essi. Sono i fori attraverso cui possiamo vedere, e andare molto al di là. La critica non consiste più in un discorso esterno che assomma coscienza a quella che è un'impotenza, ma passa piuttosto per il corpo ed elabora qualcosa che è parte del corpo. Ormai, non descrive più semplicemente ciò che il potere mette in atto, ma guarda e considera ciò che si rompe, che si incrina e che non si lascia catturare. Non giudica, non denuncia a partire da una sua superiorità morale, ma parla e cerca il contagio a partire dalle ferite, dai guasti, dai cedimenti. La critica sintomatica ci fa sentire il frastuono di una battaglia che si svolge dentro e fuori di noi. Assumere questo punto di vista della plebe interiore, che è nuovamente il punto di vista dell'opposto e del limite, in relazione al potere, torna di nuovo ad essere indispensabile per poter svolgere l'analisi dei dispositivi neoliberisti: il Coaching, la trasparenza, la sicurezza, la fluidità, la comunicabilità. Senza riuscire a cogliere il malessere che erode tutte le relazioni sociali, non siamo in grado di capire niente di quello che è il nostro presente. Per esempio, potremmo vedere in quelli che sono i fascismi postmoderni che stanno emergendo oggi l'ennesimo «giro di vite» del capitalismo, quando in realtà sono invece una risposta alla crisi del neoliberismo, incapace di imporre pienamente i suoi modi di vita. Indeterminazione e co-determinazione, incrinature e comportamenti, saperi strategici e funzionamenti, plebe e sintomi... Percorsi diversi che servono a reinventare la critica vista come pensiero del conflitto, come metodo della crisi, come ascolto del rumore che fanno quei buchi che si aprono sempre più in quello che è il dominio.

Amador Fernández-Savater - www.filosofiapirata.net  —  21 febbraio 2020

Riferimenti:

Cornelius Castoriadis,  "Marxismo e teoria rivoluzionaria" (1964-1965)
John Holloway, Crack Capitalism (2012) Derive Approdi editore
Michel Foucault, "Poteri e Strategia" Mimesis edizioni
Diego Sztulwark, "La ofensiva sensible" e "No hay neoliberalismo sin una violencia contra la sensibilidad"

fonte: https://www.eldiario.es/

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