La questione della tecnica precede quella del linguaggio? Oppure sono complementari, supplementari, ed entrambe operano in un costante movimento, dal momento che ciascuna di esse occupa uno spazio vuoto che viene lasciata dall'altra in proprio quello che è il suo movimento perpetuo di domanda e risposta? Come mostra Friedrich Kittler - riferendosi a Balzac e a Poe - è nel campo della letteratura che si nota come le due questioni - tecnica e linguaggio - siano indissociabili, dal momento che spesso la fiction si presenta come se fosse una fenomenologia differita rispetto alla tecnica stessa, vale a dire, come la narrazione di un processo di «incarnazione» o di «materializzazione», di quello che è il fantasma della tecnica, nei personaggi e nelle trame (come avviene con Venerdì che impara a scrivere in "Foe" di Coetzee). Questa relazione, viene pensata da Derrida in maniera tesa, quando per esempio riflette sull'uso che Nietzsche fa della macchina da scrivere; o quando Ricardo Piglia (in diversi momenti della sua opera, ma in special modo in "Solo per Ida Brown") parla di Tolstoj, dicendo che sia stato proprio lui, il primo in Russia ad usare la macchina da scrivere e la bicicletta; oppure quando, sempre lo stesso Piglia, commenta l'utilizzo che Manuel Puig fa del registratore, e di come questo trasformi il suo stile, tutto il suo progetto letterario nel suo insieme. Roberto Esposito scrive che «prima del linguaggio», il soggetto «ha dovuto abitare un’altra "casa", un altro involucro antropico, capace di metterlo al riparo dalle potenze predominanti». Ritengo che questo «prima», insieme alla creazione di questa «casa», sia ciò che entra in gioco nei commenti di Barthes, quando ad esempio parla de "La preparazione del romanzo", oppure nelle tecniche di scrittura automatica dei surrealisti, ecc…
fonte: Um túnel no fim da luz
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