Una questione di logica capitalistica
- Intervista a Norbert Trenkle -
Frankfurter Rundschau: Lei ha previsto la «fine del lavoro». Che cosa significa questo?
Norbert Trenkle: Dovremmo piuttosto parlare, prima, di una crisi del lavoro, una vera e propria crisi fondamentale che nella realtà procede in maniera contraddittoria. Da un lato, a causa dell'alta produttività, c'è sempre più lavoro che viene razionalizzato; dall'altro lato, per vivere la maggioranza delle persone continua a dipendere dalla vendita della propria forza lavoro. Questo allarga il divario esistente sul mercato tra offerta e domanda, e fa sì che si eserciti una pressione a partire dalla quale le persone si offrono a condizioni sempre più sfavorevoli.
F.R.: Robot, anziché posti di lavoro più adeguati: questo sarebbe un horror? O un paradiso?
N.T.: Dipende. In condizioni capitalistiche, lo sviluppo tecnologico si traduce in una tendenza che fa sì che le persone divengano superflue ai fini della produzione di merci, e a loro rimane solo la scelta tra disoccupazione e lavoro precario. In una società liberata, invece, l'alta produttività potrebbe essere utilizzata per consentire una buona vita a tutte le persone, e per produrre in maniera adeguata secondo termini ecologici.
F.R.: In questi ultimi anni, nella società abbiamo sperimentato sempre più disparità, anche in quella che è la vita lavorativa. Ci sono quelli che traggono benefici dal sistema, e poi ci sono gli altri che, nel peggiore dei casi, si trovano a non essere più di alcuna utilità. Quali sono le ragioni di tutto questo?
N.T.: Ciò avviene perché la dinamica capitalistica attuale non si basa più sul lavoro di massa nell'industria, ma ha trasferito il proprio fulcro sui mercati finanziari e verso i settori di produzione ed applicazione della conoscenza. Anche chi lavora in tali settori, è soggetto ad una pressione permanente per ottenere prestazioni maggiori, ma quanto meno viene ben pagato per questo. La massa degli altri venditori di forza lavoro, invece, deve lottare per dei posti di lavoro che non sono necessariamente «utili per il sistema». Che di tratti di venditori o di fattorini, sono costretti a lavorare in maniera estenuante, fino all'esaurimento, e in caso contrario non sono in grado di pagare le loro bollette.
F.R.: Il salario minimo può aiutare?
N.T.: Il salario minimo, in una certa misura, serve a rallentare questo super-sfruttamento. Ma sta diventando sempre più evidente che viene aggirato su larga scala. E dal momento che nel settore precario la pressione della concorrenza è particolarmente forte, molte delle persone colpite non si difendono.
F.R.: O sarebbe meglio un reddito di base illimitato?
N.T.: Questo potrebbe portare ad avere un sollievo, rispetto a quello che è l'obbligo generale a lavorare, purché esso sia realmente sufficiente per poter vivere. In tal caso, aprirebbe anche uno spazio alla lotta per delle alternative sociali.
F.R.: L'orario settimanale di lavoro va ridotto? Il sabato, il martedì e il giovedì i genitori stiano con i loro figli?
N.T.: Ovviamente. Sarebbe assolutamente sensato e giusto convertire in tempo disponibile per tutti, quelli che sono gli enormi effetti della razionalizzazione. Ma, in ultima analisi, ciò richiederebbe una rottura con la logica capitalista, da momento che è questa a spingere nella direzione opposta, verso il prolungamento dell'orario lavorativo ed un lavoro più intensivo.
F.R.: Che cos'è che potrebbe prendere il posto del lavoro, quando esso non fosse più necessario?
N.T.: Il lavoro non diminuisce in maniera graduale, ma, paradossalmente, nella sua crisi, aumenta quella che è la pressione che esso esercita sulla società. Ed è per questo sono necessari dei movimenti sociali che mettano in discussione la coercizione che ci costringe a dover sopravvivere quotidianamente attraverso la vendita di forza lavoro. Solo in questo modo si può aprire la strada a delle attività sociali libere, senza coercizioni esterne.
F.R.: Le persone libere di raccogliere la mattina l'insalata nell'orto, di occuparsi la sera dei bambini, di scrivere la sera, senza per questo diventare contadini, insegnanti o scrittori, sarebbero più felici?
N.T.: Le persone sarebbero sicuramente più felici se potessero decidere liberamente, insieme agli altri, che cosa fare e in che modo farlo. Ciò, naturalmente, include anche la possibilità di passare da un'attività all'altra. Non significa, tuttavia, che dobbiamo diventare per forza tutti creativi. Questa non sarebbe altro che, ancora una volta una fantasia, un'ossessione della mentalità capitalistica. Libertà può significare anche limitarsi a poche attività, o anche non fare proprio niente tutto il giorno, se voglio. Ma anche questo, come il suo opposto, non dovrebbe essere la norma.
Intervista di Joachim Wille (del Frankfurter Rundschau) a Norbert Trenkle [Gruppo Krisis] - 1° maggio 2015 -
Originariamente pubblicato su krisis.com.br
fonte: blogdaconsequencia
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