venerdì 31 marzo 2017

Paradiso perduto

lasch

«Come può accadere che delle persone serie continuino a credere nel progresso, malgrado le importanti confutazioni che parevano aver liquidato una volta per tutte la validità di questa idea?»

Muovendo da questo interrogativo, Christopher Lasch dà avvio in questo libro – vera e propria pietra miliare di ogni pensiero critico della modernità – a un’affascinante ricostruzione storica, filosofica, sociologica dell’idea di progresso, ultima fede, autentica religione secolarizzata dell’occidente. Il libro parte dall’interpretazione largamente accettata secondo la quale l’idea di progresso rappresenterebbe la versione secolarizzata della fede cristiana nella provvidenza. Opponendosi, infatti, al mondo antico e alla sua visione ciclica della storia, e rivendicando all’opposto una direzione di quest’ultima – dalla caduta dell’uomo alla sua definitiva redenzione –, la cristianità avrebbe permesso all’occidente di concepire la storia come un «processo generalmente in moto verso l’alto».
Per Lasch, tuttavia, nel ventesimo secolo quest’idea del progresso basata sul pensiero di una «finalità» della storia, sulla speranza in un qualche stato finale di perfezione terrena, diventa «la più morta delle idee morte», spazzata via dal fallimento dei totalitarismi e di ogni considerazione utopistica del futuro. Nel secolo scorso si mostra, infatti, in ambito soprattutto anglosassone, l’estrema secolarizzazione della fede nel progresso. La sua idea viene separata dalla città celeste e riportata sulla terra, e la fede nel progresso diventa fede nel «progresso tecnologico» e nell’estensione del benessere materiale, dell’abbondanza e del consumo. È allora anche che ogni critica del progresso viene bollata come una faccenda di oscurantisti, chiacchiera di tutti coloro che «si rifugiano nella devozione, nell’estetica e nel mito».
Il risultato è che questa cieca fede nel progresso appartiene oggi in egual misura tanto alla destra che propone di mantenere il nostro standard di vita smodato a spese del resto del mondo e delle nostre stesse minoranze, quanto alla sinistra che pensa, invece, di estendere gli standard di vita occidentali al resto del mondo. Un programma suicida, per Lasch, perché nel primo caso approfondirà il solco che separa le nazioni povere da quelle ricche e genererà moti di ribellione e terrorismo sempre più violenti contro l’occidente; e, nel secondo, porterà ancora più rapidamente all’esaurimento di risorse non rinnovabili, all’inquinamento irreversibile dell’atmosfera terrestre e alla distruzione del sistema ecologico da cui dipende la vita dell’uomo.
Tutto ciò rende urgente, per Lasch, la costruzione di un punto di vista radicalmente nuovo che tagli corto sia con la convinzione che il nostro standard di vita sia destinato a un costante miglioramento, sia con l’altra faccia dell’ideologia del progresso: quella struggente nostalgia che essa produce per la semplicità passata, per le comunità del «mondo che abbiamo perduto».

(dal risvolto di copertina di: Christopher Lasch: Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, Neri Pozza)

La parabola discendente dell’idea di progresso
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di Alberto Gaiani -

Sul numero dell’Economist che ha chiuso l’anno passato, un articolo titolato The future of liberalism: how to make sense of 2016 avanzava la semplice tesi per cui, nonostante le sconfitte che il pensiero liberale e la democrazia sembra stiano accumulando in diverse regioni del mondo con l’avanzata di personaggi e movimenti politici populisti, reazionari, antielitisti, protezionisti o parafascisti, il liberalismo ha ancora grandi possibilità di incidere sulle scelte politiche, economiche e sociali degli stati, purché sappia uscire dal torpore che lo ha connotato negli ultimi decenni.
I liberali – sostiene l’articolo – devono tornare a parlare agli scettici e ai pessimisti, a coloro che non credono nel progresso o pensano escluda ampie parti della popolazione dall’accesso al benessere. Ma il significato di categorie come liberalismo, populismo, totalitarismo, conservatorismo; e progresso, sviluppo, crescita, benessere è non solo tutt’altro che certo ma probabilmente poco funzionale a descrivere e interpretare i fenomeni che hanno riguardato gli ultimi anni.
Nel 1991, Christopher Lasch, autore di saggi molto celebri come L’io minimo, La cultura del narcisismo e La ribellione delle élite, pubblicò un libro intitolato The True and Only Heaven: Progress and his Critics, già tradotto da Feltrinelli nei primi anni novanta, e ora riproposto da Neri Pozza con il titolo Il paradiso in terra Il progresso e la sua critica (traduzione di Carlo Oliva: (pp. 670, euro 22,00), che nonostante sia inevitabilmente datato per alcuni aspetti, costituisce un riferimento essenziale per provare a mettere a fuoco un lessico politico in grado di spiegare quanto accade. È, nel senso pieno del termine, un saggio di storia delle idee, molto articolato e dettagliato, concentrato in modo esclusivo sulla situazione statunitense, che non indulge mai a un tono generalista, non avanza velleità teoriche, e porta a suffragio delle proprie tesi e dei propri argomenti fatti, riferimenti puntuali, citazioni.
L’idea di progresso è il fulcro di tutto il ragionamento, il filo rosso – spesso lasciato sottotraccia – che permette di problematizzare le categorie politiche dominanti nel dibattito pubblico dell’ultimo secolo e mezzo, ancora oggi utilizzate. Forse – scrive Lasch – «dobbiamo andare più a fondo e chiederci se destra e sinistra ormai non condividano un tale numero di convinzioni di fondo, compresa quella della desiderabilità e dell’inevitabilità dello sviluppo economico», da rendere il loro conflitto, per quanto acceso e lacerante, sconnesso dai temi politici centrali nella vita degli stati e dei loro cittadini.

Contro l’opinione diffusa, Lasch sostiene che l’idea di progresso non ha una radice religiosa e non deve il proprio fascino a una visione millenaristica del futuro, «ma all’aspettativa, apparentemente più realistica, che l’espansione delle forze produttive possa continuare indefinitamente». L’origine di questa prospettiva sta nelle teorie di Adam Smith e dei suoi immediati predecessori: commercio, diritto di proprietà, libero mercato, lotta alla povertà, diffusione dell’istruzione sono i motori concreti di questa espansione inarrestabile. Tuttavia, a partire da un periodo che Lasch identifica nelle riflessioni degli storici e dei sociologi della seconda metà dell’Ottocento, «l’idea di democrazia finì con l’essere associata con una prospettiva di abbondanza universale. L’America finì per essere vista come una nazione non di cittadini, ma di consumatori. L’accostamento di progresso e consumo (…) permetteva agli americani di riabilitare l’ideologia progressista e di darle un fondamento nuovo e apparentemente solido».
Si evidenziarono così, con grande enfasi, i tratti di debolezza dell’ideologia progressista, che si espose a critiche acerrime, e salirono alla ribalta atteggiamenti passatisti, nostalgici, tradizionalisti. Ma anche questo era un errore – sostiene Lasch – uguale e contrario al precedente, un altro uso distorto del passato. L’atteggiamento nostalgico e la fiducia nel progresso tendono a rappresentare ciò che ci sta alle spalle «come qualcosa di statico e immutabile, in contrapposizione al dinamismo della vita moderna». E nonostante le divergenze di giudizio su questo dinamismo moderno, sta di fatto che in entrambi i casi si idealizza il passato e lo si fissa in una rappresentazione inerte e semplificata, perdendo del tutto il senso della sua persistenza, le sue tensioni, e soprattutto ciò che è ancora vitale e attivo nel nostro tempo.
Nel Novecento, una definizione ancora più radicale dell’idea di progresso, venne associata in modo irrevocabile allo sviluppo economico, da un lato, e all’affermazione della democrazia, dall’altro. Ma i problemi derivati erano maggiori di quelli risolti, dal momento che molti fattori – le due guerre mondiali, la consapevolezza dell’esauribilità delle risorse e il rischio sempre più imminente del disastro ambientale, un numero ingente di conflitti regionali, le migrazione di massa – hanno creato le condizioni di una crisi ancora più profonda di quella indotta dalla fiducia ingenua e irriflessa nel progresso. Nel XX secolo hanno visto la luce movimenti che Lasch raccoglie sotto l’etichetta di «immaginazione del disastro» e che si fanno forti di una concezione catastrofica del futuro; per contro, tra alcuni progressisti è maturato un profondo «disincanto tecnocratico».
È in questo contesto che il populismo ha ottenuto la sua grande visibilità. L’ideologia antielitista e antitecnocratica, l’individualismo proprietario, le politiche isolazionistiche e protezionistiche sono apparse come opzioni di successo, via via sempre più attraenti. I tentativi di riformulazione del pensiero liberale sono incappati in numerosi fallimenti, che fossero in questione le riprese del liberalismo classico o le versioni comunitariste. E, in fin dei conti, la teoria progressista sembra oggi un’arma spuntata e inutilizzabile. A farne le spese sono i suoi capisaldi: la partecipazione democratica, la libertà di scambio e di movimento, l’allargamento delle condizioni di benessere economico e dell’istruzione, la difesa dei gruppi sociali più esposti.
Lasch non pronuncia una valutazione conclusiva, perché il suo intento è descrittivo, non normativo. Ma se è vero che l’ideologia progressista ha manifestato limiti rilevanti, è altrettanto vero che i suoi avversari hanno proposto alternative settarie, intolleranti, e retrograde. Dunque, una difficoltà specificamente teorica ci impone di riesaminare e riformulare le parole e i concetti attraverso cui pensiamo e nominiamo ciò che concerne la nostra vita politica, e le categorie che informano la nostra vita associata.

- Alberto Gaiani - Pubblicato su Alias del 19 febbraio 2017 - 

giovedì 30 marzo 2017

Elezioni penitenziarie

 

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Politica di crisi
del Comité érotique révolutionnaire
27 Mars 2017

I -  Miseria delle elezioni presidenziali
«L'amministrazione penitenziaria del campo di lavoro nazionale cambia regolarmente, di modo che noi si possa, dopo un certo tempo, ed occasionalmente, eleggere (solamente) una parte dei nostri amministratori penitenziari. Ciascuno di loro propone una gestione un po' differente della nostra prigione:
alcuni propongono di espellere i prigioneri "stranieri, a vantaggio dei prigionieri "nazionali", altri vogliono più "sicurezza", alcuni  una liberalizzazione dello scambio di prigionieri, di merci e di capitale fra i diversi campi di lavoro nazionale, e ci sono anche alcuni che vogliono "rendere più giusta" la nostra prigione, "più umana" e/o più ecologica! E anche se la loro pratica è relativamente identica (austerità, repressione, riforme), dal momento che si tratta di gestire una medesima prigione in funzione dei medesimi obiettivi: garantire che non ci siano rivolte di prigionieri, grazie ad una dose variabile di repressione e di miseria materialmente aumentata (Media, "tempo libero", consumo), fare in modo che non ci sia troppo deficit nel budget penitenziario - e quindi, se necessario, spendere il meno possibile al servizio dei prigionieri - e soprattutto fare in modo che si abbia una crescita ed il massimo profitto dal campo di lavoro nazionale - a spese dei prigionieri e delle prigioniere ovviamente. »


Comité érotique révolutionnaire, Libérons-nous du travail. En partant du Printemps 2016, Paris, Divergences éditions, 2017).

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

mercoledì 29 marzo 2017

Indeterminatezza

jean

Magari è vero che - come dice e sottolinea (con enfasi) Gilles Dauvé - questa in cui ci troviamo immersi non è la "crisi finale", ed è vero anche che il capitalismo continuerà in eterno. A meno che non ci sia una "rivoluzione comunista" che metta definitivamente in soffitta il valore ed il lavoro, lo Stato ed il denaro, insieme alla merce e al mercato.
Insomma, forse è anche vero che ci muoviamo dentro una storia "determinata", secondo la quale al feudalesimo del Medioevo  dovrà NECESSARIAMENTE fare seguito il capitalismo, di modo che - come da manuale (marxista tradizionale) - questo creerà quello sviluppo delle forze produttive necessario a fornire le premesse affinché la lotta di classe degli sfruttati si potrà liberare del capitalismo e, "ovviamente", delle classi.
Oppure no, e invece il gioco è semplicemente finito e, per quanto la cosa ci faccia paura, saremo costretti a fare i conti con la fine di un mondo, quello del capitalismo, senza che ce ne sia, senza che ne sarà, o senza che ne sarà stato, un altro, di mondi, bell'e pronto per sostituirlo.
Comunque sia, con tutto ciò, con il mondo, dobbiamo fare i conti.

Nebbie di guerra
- di G.D. -

« Quanto alla critica rivoluzionaria, essa comincia al di là del bene e del male »
- Internazionale Situazionista, 1967 - [*1]

Nello scenario di quella che una volta veniva chiamata la Mezzaluna Fertile, lo Stato Islamico (SI) cerca di imporsi contro, e non solo, le strutture statali che sono al potere in Iraq o in Siria. Alcune grandi potenze, tanto disunite fra di loro quanto superiori militarmente, ora cercano di fare in modo che questo avvenga, al fine di mantenere il loro controllo sulla regione. Dal caos alla crisi e viceversa.

Terrore

Nel 2002, Isabelle Sommiere ha citato la definizione data trent'anni prima da Friedrich Hacker:
« [...] il terrore è l'utilizzo, da parte di chi è al potere, di quello strumento di dominio che è l'intimidazione; il terrorismo è l'imitazione e l'utilizzo dei metodi del terrore da parte di coloro che non sono - almeno non ancora - al potere ».
A suo avviso, si può stimare « in 169 milioni il numero di vittime del loro stesso governo, contro i 34 milioni di vittime delle guerre fra Stati avvenute nel periodo fra il 1945 ed il 1995 [...] Così le forme convenzionali e non convenzionali della guerra tendono ad avvicinarsi di modo che ormai è falso caratterizzare il terrorismo opponendolo alla guerra statale ed affermando che esso ignora le leggi e le convenzioni di guerra, che attacca i civili e che è sempre indiscriminato ed arbitrario. In quanto tali caratteristiche, tutto sommato, oggi possono benissimo riguardare anche le violenze dello Stato » [*2].
Pierre Miquel, nel suo "La Grande guerre" (Fayard, 1983), intitola il suo capitolo consacrato all'uso dei gas, ai bombardamenti delle città ed al siluramento delle navi civili, "La Guerre terroriste". Il terrorismo fa parte della guerra... e della pace: ci hanno ripetuto per decenni che l'umanità deve la sua sopravvivenza all'equilibrio del terrore nucleare, di fatto un terrore potenziale, nel peggiore dei casi sentito dalle popolazioni come un'angoscia latente, che veniva dimenticata o che saliva alla superficie in funzione degli avvenimenti. Ma l'opinione pubblica soffre di amnesia, e preferisce la psicologia: il terrorista sarebbe l'innamorato della morte, sia di quella degli altri che della propria. Non è passato poi troppo tempo, però, da quando donare la propria vita veniva considerato quanto ci potesse essere di più desiderabile: « Morire per la patria, È il destino più bello [...] Fratelli per una santa causa [...] ognuno di noi è martire » (Chant des Girondins, inno nazionale francese dal 1848 al 1852). Negli eserciti occidentali contemporanei, regna la regola di zero morti, il soldato ucciso deve rimanere un'eccezione, e dev'essere rifiutata l'idea di sacrificio.
Trattare da pazzi fanatici i militanti ed i soldati del Califfato, che impongono la guerra all'Occidente, permette di creare un mostro contro il quale tutto è permesso. Tornando alla realtà, l'embargo imposto all'Iraq fra il 1991 ed il 2002 - secondo le statistiche al ribasso - è stato responsabile della morte di 500 mila persone. A partire dal 2001, la Guerra al Terrore ha fatto fra 1,3 e 2 milioni di morti, la maggior parte dei quali vittime dell'esercito americano [*3].
130 morti a Parigi il 13 novembre 2015, e quanti civili uccisi nei bombardamenti di Raqqa da parte dell'aviazione francese nelle settimane successive?

Religione

« [...] il millenarismo, lotta di classe rivoluzionaria che parla per l’ultima volta il linguaggio della religione [...] è già una tendenza rivoluzionaria moderna »: così Debord commenta « l'utopia millenarista della realizzazione terrestre del paradiso » nel 16° secolo ("La società dello spettacolo", tesi 138).
A causa di un'inversione difficilmente pensabile nel 1967, il millenarismo islamista del 21° secolo parla ancora una volta la "lingua della religione".
Ma cosa vuol dire "religione"? E perché lo si è imposto nei due paesi che una volta erano i due paesi più laici della regione?
Un minimo di riflessione storica è sufficiente a comprendere che la forte secolarizzazione di società come quella francese non indica affatto il percorso logico ed inevitabile che verrà seguito, o che dovrebbe essere seguito, dal resto del mondo.
Sunnita, sciita, sono queste le parole che vengono pronunciate ogni giorno come se si parlasse di cattolici e protestanti nella Francia contemporanea. Pensiamo invece piuttosto all'Europa del 16° e del 17° secolo. Qui non si tratta affatto di fede o di dottrina, bensì di appartenenza concreta: del quartiere o del villaggio dove si vive, della scuola cui si va, del lavoro che si trova, di chi sono i nostri amici, il bar che si frequente, con chi ci si sposa, chi ci aiuta in caso di bisogno. Qui, la religione non è un affare privato, ma segna l'identità che serve a definire, a racchiudere e proteggere tutti quanti insieme. Per un "sunnita", essere emarginato da decenni nella Siria di Assad, come nell'Iraq guidato dal governo "Sciita" installato dagli americani dopo il 2003, significa essere (mal)trattato da uno Stato in cui questo "sunnita" non ha ancora la cittadinanza; un concetto giuridico che nella regione è generalmente privo di qualsiasi contenuto.
Se si parla delle guerre di religione avvenute in Europa nel 15° e nel 16° secolo, questo è perché lo scisma portato dalla Riforma coincide con una serie di guerre, che fanno della religione "la lingua" politica dominante in dei paesi in crisi dove il cattolicesimo ed il protestantesimo diventano i veicoli delle contraddizioni sociali e dei conflitti politici.
Nel Medio Oriente attuale, coloro che chiamiamo "i religiosi" provengono da piccole classi medie che sono state messe da parte dal dominio imperialista e dai regimi dittatoriali, strati sociali esclusi dal potere politico e dalla promozione economica, di cui una parte fornisce dei quadri all'opposizione anti-regime. A seconda del paese, un gruppo (sunnita) ne domina un altro (sciita), altre volte avviene l'inverso. Li si potrebbe paragonare a quella parte istruita delle classi medie che ha animato la resistenza anti-coloniale e la lotta di liberazione nazionale in Asia e in Africa: i letterati in Cina, i laureati senza avvenire sotto il regime coloniale in Vietnam, gli ulema nei parsi arabi. Ovviamente, laddove il potere lascia prosperare i religiosi, senza che si immischino nella politica, ciò serve ad assicurarne gli interessi. Oggi, in un Medio Oriente in cui la confessione religiosa rimane un forte marchio identitario, ci sono dei professionisti che conferiscono ai movimenti sociali una visione del mondo ed un programma intrisi di religione, ma la loro principale motivazione non è quella della dottrina: è un interesse personale e collettivo.
Esperti e giornalisti continuano a ripeterci che uno Stato religioso è una curiosità o una mostruosità Medio orientale dovuta alla specificità dell'Islam, che si rifiuterebbe per principio di separare il religioso dal sociale e dal politico. Ricordiamoci che in Europa dei capi religiosi (e attraverso di loro, un'amministrazione e delle istituzioni) sono stati per molto tempo e con pieno diritto dei dirigenti politici. Stato monastico per trecento anni, la Prussia si è secolarizzata solamente nel 16° secolo, e fino all'inizio del 19° secolo ci sono stati dei prìncipi-vescovi a capo di piccoli territori europei.
Ci viene spiegata l'opposizione fra Arabia Saudita ed Iran come la lotta (millenaria e fratricida, questo va da sé) fra "sunnismo" e "sciitismo", laddove due paesi si affrontano per il dominio della regione. Anche la rivalità franco-inglese nel corso del 18° secolo potrebbe benissimo essere descritta allo stesso modo, la lotta fra grandi potenze per il controllo di una parte del mondo vista come una guerra fra cattolicesimo e protestantesimo.
E quale sarebbe la realtà di un «arco sciita» contro i sunniti? L'Iran sciita ha finanziato il sunnita Hamas. Gli houtisti dello Yemen sono quanto meno degli sciiti eterodossi. Quanto agli alawiti della Siria, sebbene la loro dottrina sia lontana dai precetti dell'Islam... sia sunnita che sciita, Assad aveva ottenuto dai teologi musulmani che fossero riconosciuti come buoni credenti: calcoli e manovre da entrambe le parti. Non si tratta di dogma, ma di appartenenza sociale e di interesse politico.

Stato

Lo Stato islamico è il prodotto di un processo politico che ha fatto seguito alla marginalizzazione dei sunniti, in Iraq come in Siria.
È stata creata un'identità sunnita, dapprima solo politica, poi territoriale, sulla base di una comunità etnico-religiosa che fino ad allora si era adattata, per amore o per forza, ai poteri esistenti, sia che li dominasse (l'Egitto o l'Iraq di Saddam Hussein), sia che si trovasse in minoranza (la Siria). Questa "comunità" si è data un obiettivo politico a partire dal rifiuto del sistema di governo iracheno (favorendo oltre misura gli sciiti) installato dagli americani dopo la loro conquista del paese avvenuta nel 2003. [*4]
Uno Stato che tratta come mezzi-cittadini la metà della popolazione, di solido ha soltanto la sua polizia ed il suo esercito. Nel momento in cui viene colpito da una crisi economica o da uno shock esterno, tutto l'edificio politico ne viene scosso, liberando delle forze centrifughe che fino a prima erano state contenute dalla repressione.
Accanto al Califfato e contro di esso, l'esperienza di Rojava è anch'essa il prodotto della resistenza di un popolo, i Kurdi, ai quali il collasso dello Stato siriano ha consentito di rendersi autonomi. Ma mentre il gruppo "sunnita" si trova ad essere strutturato su un modello religioso ed autoritario, il gruppo curdo trae vantaggio da una lunga esperienza di politicizzazione laica, di auto-amministrazione, di autonomia locale e di coinvolgimento delle donne nella vita sociale e nella lotta armata, senza che, tuttavia, il partito dirigente abbia smesso di dirigere. Di conseguenza, benché i curdi siano essi stessi in maggioranza sunniti come religione, ciò non costituisce una demarcazione, e non è servito per loro da cornice ideologica e politica. Quando il terzomondismo marxista-leninista del PKK si è rivelato inadatto al 21° secolo, i dirigenti curdi non si sono rivolti al Profeta, ma a Murray Bookchin e al suo eco-federalismo, e Rojaca tenta a modo suo di attuare una transizione democratica. Nato come lo Stato Islamico, per auto-difesa, ne costituisce il contro-modello.
Senza dubbio, preferiremmo abitare a Qamishli o ad Afrin, piuttosto cha a Raqqa (o a Bergen più che a Gedda), ma questa preferenza così come il progetto politico particolarmente democratico di Rojava non impedisce il fatto che si tratti di un proto-Stato, capitalista, e che mantenga una società di classe.
Al contrario, i sunniti iracheni, sottoposti a due tendenze - nazionalista ed islamista -, si sono ritrovati in un'alleanza di circostanza fra baathisti ed islamisti: senza questa convergenza fra capi militari e capi religiosi, non c'è nessun Stato Islamico. Il fatto religioso appare determinante, in quanto viene evidenziato sia dallo SI che dai suoi nemici, ma l'Islam serve a mascherare quello senza il quale il Califfato non esisterebbe: un fondamento politico non direttamente religioso. Nello Stato Islamico va vista l'organizzazione di una rivolta in seguito ad una secessione territoriale paragonabile all'inizio di un movimento di liberazione "nazionale", che ha un progetto ed ambizioni globali, in grado di attrarre sostenitori e partigiani in Europa ed altrove.
Se lo Stato Islamico regge, cosa che appare verosimile (a meno che gli Occidentali non decidano diversamente), la regione avrà tre regimi teocratici: in ordine di apparizione, l'Arabia Saudita, l'Iran, lo Stato Islamico. Oggettivamente, per quel che riguarda l'applicazione della sharia, ci sono poche differenze, in quanto il Califfato va solo un po' più lontano nell'esibizione della sua ferocia. Se lo SI evolve, vivrà più o meno in pace con i suoi vicini e si accontenterà di opprimere la propria popolazione senza mandare dei killer per le strade di Parigi o di Bruxelles, e verrà riconosciuto dalla comunità internazionale, come lo sono l'Arabia Saudita ed un Iran che fino a pochissimo tempo fa passava per essere uno degli Stati dell'Asse del Male.
Intanto, come ogni Stato giovane o minacciato, il Califfato proietta l'immagine di un popolo unito. Un "Manuale per le donne proclama": «  Al diavolo il nazionalismo! [...] nel mio Stato, il ceceno è amico del siriano e l'egiziano è il vicino di un kazako. Le appartenenze si mescolano, le tribù si fondono e le razze si uniscono sotto il vessillo del monoteismo, e creano una nuova generazione in cui le culture di numerosi popoli differenti si integrano in una bella ed armoniosa alleanza. » [*5]
La questione è se tale generazione avrà il tempo di durare.

Fallimento

Malgrado la sua immensa capacità di mobilitazione, la religione non è mai sufficiente a fondare uno Stato, né a creare un nuovo tipo di società. Il protestantesimo non ha realizzato il capitalismo inglese. La sharia, compatibile con il modo di vita dei paesi arabi e turchi del 7° secolo e dei secoli successivi, non fornisce alcuna soluzione ai problemi economici e politici contemporanei, né del Medio Oriente né altrove. Dopo 35 anni, la "rivoluzione islamica" iraniana detta i costumi ed ha instaurato un modello originale di governo, ma senza creare dei rapporti sociali profondamente differenti. « L'Islam politico » non ha inaugurato una nuova variante del capitalismo comparabile a ciò che è stato il capitalismo di Stato, con una classe dirigente burocratica distinta e perfino rivale della borghesia classica. Nato in Russia, questo modello era dotato di un sufficiente dinamismo storico da estendersi su una parte del pianeta, anche se spesso in forma caricaturale, ma quanto meno è stato in grado di reggere per qualche dozzina d'anni. Non c'è niente del genere in quello che viene chiamato il mondo "arabo-musulmano". In Iran, l'enorme potere di cui dispongono i mullah e gli ayatollah non ha eliminato la forza e l'esistenza della borghesia, e i due gruppi si mescolano e si compenetrano. L'economia e le esportazioni vengono gestite da Teheran secondo il modello delle grandi imprese di Torino o di Sidney, e lo Stato Islamico non farà di meglio sulla sua modesta scala. Non esiste un capitalismo musulmano. L'Islam politico continuerà a muovere le folle, ma il suo fallimento nel promuovere una prospettiva storica c'è già stato.

Guerra

Politologhi e geo-strateghi hanno sottolineato a sufficienza la mancanza di coerenza della coalizione anti-SI, e non insisteremo oltre. Prendiamo da loro solamente una parola di moda: "asimmetria". Chi è che fa la guerra asimmetrica, e chi la vincerà? All'evidente superiorità tecnologica dei suoi avversari, il Califfato oppone il ritorno della classica "fanteria leggera" ed il terrorismo, l'arma dei deboli, di quelli che hanno delle bombe na non hanno gli aerei per lanciarle [*6]. Contro il Califfato, i partner della coalizione - seppur ridotta al coordinamento - hanno degli obiettivi divergenti, perfino opposti. Ed una vera e propria alleanza anti-SI dovrebbe implicare in primo luogo i grandi paesi vicini, Egitto e Turchia in particolare: non è questo il caso, con un'Arabia Saudita che si trova nel frattempo coinvolta in un'operazione militare nello Yemen. Anche il cemento ideologico - l'antiterrorismo - non funziona: gli occidentali appoggiano il PYD, il ramo siriano del PKK che viene considerata un'organizzazione terroristica.
C'è una contraddizione nella "guerra contro il terrorismo". La guerra ha un senso se fatta contro un nemico identificabile, uno Stato o un partito armato, ed "il terrorismo" non è né l'uno né l'altro, è solamente un metodo, una tattica utilizzata da dei gruppi che si riformano non appena vengono dispersi.
La Guerra al Terrore non risolve nulla. Se alcuni capitalisti possono essere a volte interessati ad una dose di caos, l'eccesso di caos non di meno minaccia non tanto il sistema stesso (fino a quando non ci sarà una rivoluzione comunista, il modo di produzione capitalista continuerà bene o male attraverso le crisi e le catastrofi), quanto gli interessi delle classi dirigenti, la cui perpetuazione richiede una minima stabilità geopolitica.
Senza dover spiegare tutto per mezzo del petrolio, non è irrilevante il fatto che l'Iraq ne detenga la terza riserva del Medio Oriente. Malgrado le speranze riposte nel petrolio di scisto statunitense, la posta in gioco è evidente: l'Iraq e quello che lo circonda conta più dell'Afghanistan.
La soluzione più che militare, sarà politica.

Imperialismi

Se lo Stato Islamico, nuovo avatar di Hitler, è diventato il nemico n°1 della "comunità internazionale", ciò non è dovuto ai suoi errori, ma assai più semplicemente al fatto di accentuare gravemente il disordine in Medio Oriente, regione petrolifera di primaria importanza dominata da più di un secolo dagli occidentali [*7].
Ora, se il Califfato fosse realmente un islamo-fascismo paragonabile al nazismo, e quindi qualcosa contro cui dovrebbe essere attuato tutto, Putin sarebbe un antifascista più conseguente di Obama, in quanto il capo della Russia non esita ad andare in aiuto del dittatore Assad, necessario baluardo contro lo Stato Islamico.
L'antifascismo non ha forse come principio quello di scegliere il male minore contro il male peggiore in assoluto?
Il fatto è che il paragone Hitler-Assad è antistorico. Questo non in ragione del numero di morti: il nazismo ne ha uccisi molti di più, ed ha praticato il genocidio. Ma soprattutto, Hitler minacciava l'esistenza di tre grandi potenze mondiali di quel tempo, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, mentre lo Stato Islamico mette in discussione solamente la suddivisione di una regione chiave. Nella seconda guerra mondiale, ciascuno dei tre imperialismi seguiva i propri interessi, fino a mettersi temporaneamente d'accordo col diavolo al momento giusto, Stalin sostenendo Hitler nel 1939-41, Roosvelt e Churchill facendo provvisoriamente causa comune con Stalin, poi. Il Califfato non rappresenta nessuna minaccia vitale per i paesi che dominano il mondo.
Così ciascuno si limita a rafforzare o a soccorrere chi viene considerato un alleato, attuale o potenziale. I bombardamenti statunitensi e francesi aiutano l'YPG contro lo Stato Islamico, ma non aiutano Assad contro lo stesso Stato Islamico: quando nel 2015 lo SI aveva sottratto Palmyra alle truppe del regime siriano, gli occidentali non sono intervenuti. Al contrario, come ha dichiarato Putin nell'ottobre 2015, aerei e missili russi hanno cercato di ristabilizzare la Siria, ed il loro sostegno ha contribuito a che l'esercito di Assad riconquistasse la città.
In questo conflitto, nessun imperialismo ha un obiettivo prioritario che prevalga su qualsiasi altra considerazione. Ciascuna forza presente si determina, non secondo il criterio "per o contro il Califfato", ma solo seguendo i propri interessi limitati , e quindi contraddittori sia fra di essi come con quelli degli altri belligeranti. Per la Turchia, Rojava è un nemico quanto lo è lo Stato Islamico. Per gli Stati Uniti, la nascita di uno Stato curdo in Siria indebolirebbe questo paese, ma anche la Turchia, che è comunque un suo alleato. La cosa peggiore per Washington, è l'esistenza di un potente perturbatore islamico nel cuore del Medio Oriente, oppure una grave crisi in Turchia? Entrambe le cose.

Crisi

Le contraddizioni delle coalizioni anti-Califfato hanno un'altra causa, più profonda.
Dopo la fine della guerra fredda si sono formate quattro coalizioni internazionali: Iraq (1991), Kosovo (1999), di nuovo Iraq (2003), e Libia (2011). Il Kosovo dimostra che non c'è necessariamente bisogno di truppe di terra, l'Iraq che le truppe di terra non necessariamente vincono, non più. Se si vuole vincere, serve legittimità, coerenza degli obiettivi (vale a dire una strategia comune), ed un piano d'uscita (per il dopoguerra). Oggi, nei confronti del Califfato, mancano le due ultime condizioni, ed anche in caso di scomparsa dello Stato Islamico continueranno a mancare di fronte al disordine in Iraq ed in Siria.
Se dal 2001 il pantano geopolitico si muove e si estende da un paese all'altro, non è per mancanza di mezzi militari. In questo dominio, gli Stati Uniti ed i loro alleati (a volte riluttanti, come la Francia nel 2003) hanno una superiorità che la Russia non contesta più, e la Cina non ancora. La causa ultima delle contraddizioni strategiche attiene allo stato del capitalismo contemporaneo, e che, a rischio di semplificare, bisogna tentare di individuare.
L'espansione e l'approfondimento del sistema capitalista dopo il 1945, soprattutto in Europa ed in Giappone, è durato per circa trent'anni, fino alla rottura degli anni 1970, dovuta in particolare alla ribellione del lavoro (laddove la storia non vede altro che una crisi petrolifera). Da questo shock proletario quasi mondiale, il capitalismo è uscito vincitore, ed in seguito ha perfino re-inglobato il capitalismo di Stato (i paesi dell'Est europeo) nella sfera capitalista cosiddetta di mercato. Nel 1975, le truppe statunitensi erano state cacciate dal Vietnam: vent'anni dopo, questo paese faceva la migliore accoglienza possibile agli investitori statunitensi ed asiatici.
Tuttavia la fase avviata dopo il 1980 non è stata quella dei Trenta Gloriosi, ancora più forte ed estesa all'intero pianeta. La differenza essenziale non risiede nella spinta dell'Asia e nell'ascesa di un rivale che minaccia gli Stati Uniti e l'Europa. L'ascesa della Cina (o dell'India) non pone la questione dello sviluppo del capitalismo cinese, ma quella dello sviluppo del capitalismo mondiale in Cina [*8].
Nel 19° secolo, Marx analizzava l'Inghilterra come il centro di un sistema mondiale che, senza toccare tutti i paesi, si irradiava dalla Cina all'America Latina. Analogamente, su scala più grande, gli Stati Uniti nel 20° secolo.
Perché è così difficile imporsi nell'ex Terzo Mondo quando dispongono di un'egemonia strategica planetaria, mentre erano arrivati a farlo quando il loro margine di manovra era limitato dalla potenza dell'Unione Sovietica?
La chiave va cercata nel rapporto capitale/lavoro, la redditività del capitale, l'insufficienza della produzione di valore, causa primaria della fuga in avanti della finanziarizzazione, e l'incapacità del capitalismo a rendere salariate le masse di esseri umani che esso strappa dai loro modi tradizionali di vita [*9]. L'apertura dell'Asia al mercato globale riporta su una scala più ampia la tendenza del sistema alla sovraccumulazione, ai rendimenti decrescenti, alla sovrapproduzione e alle bolle finanziarie. Lungi dal pacificare il mondo, la crescita drogata ne aggrava i conflitti ed il caos.

Questa crisi globale (non diciamo finale), differente da quella degli anni 1930, colpisce l'insieme del modo di produzione capitalista, di cui l'Occidente - con alla sua testa gli Stati Uniti, relativamente indeboliti ma sempre dominanti - rimane finora il principale vettore e l'emblema [*10].
Il sistema capitalista globale non è in grado di raccogliere i pezzi di ciò che prima aveva rimesso insieme nelle regioni colonizzate divenute formalmente indipendenti nel 20° secolo, ma sempre sottomesse ai paesi dominanti. Questi nuovi Stati vivono solo in quanto appesi al flusso mondiale del capitale, dipendenti dalle loro esportazioni, soprattutto di materie prime, ed in maniera accessoria di prodotti manufatti. Non vi è alcun Stato nazionale, né borghesia sostenuta da un interesse comune e capace di dinamismo politico. In mancanza di uno sviluppo endogeno, il paese si regge grazie al suo legame con il capitalismo straniero, e mantiene la sua unità grazie alla dittatura. In Egitto nonostante si è disposto di una base economica e sociale che nel 1922 gli ha permesso di accedere ad una semi-indipendenza, la borghesia locale non ha mai avuto la forza di dirigere un paese di cui i militari continuano a tenere le redini.
In dei paesi ancora più fragili, con frontiere artificiali e con popolazioni disunite come la Siria e l'Iraq, quando la crisi del "centro" capitalista si ripercuote su di essi, avviene che li scuota e, per i più deboli, che li smembri.
Malgrado la spinta democratica della "Primavera araba", le classi medie si sono rivelate incapaci di rilevare i regimi dittatoriali. Gli è che quando si dice "società civile", bisogna tradurre con democrazia borghese, ossia parlamentarismo, pluralismo ed alternanza dei partiti, concorrenza politica ed economica, spazio pubblico di discussione e circolazione di idee... tutte cose impossibili senza un minimo di sviluppo economico autonomo. L'esercito libero siriano non è l'emanazione di nessuna "società civile" di un paese di cui esso manifesta soltanto la frammentazione.
In Libia, caso estremo, il paese si è decomposto. L'Iraq non ha uno Stato, ne ha tre. In Siria, accanto ad un governo assai ridotto nascono e muoiono dei poteri locali che si impadroniscono di risorse (petrolio, altrove si tratterà di diamanti o di droga) e delle vie di circolazione (per le merci ed il denaro).
In questa situazione, la mancanza di coesione occidentale non è dovuta alla debolezza militare. Una grande differenza rispetto alla guerra fredda, attiene a che oggi, anche quando si hanno i mezzi per rovesciare i regimi che li infastidiscono, le grandi potenze capitaliste sono incapaci di rimpiazzarli con dei governi abbastanza stabili da garantire il "business as usual".Presenti a partire dal 1945 in una regione dove hanno preso il posto della Gran Bretagna e della Francia, gli Stati Uniti una volta non avevano bisogno di intervenire militarmente. In Libano, nel 1958, le loro truppe sono rimaste solo qualche mese, il tempo di restaurare l'autorità delle élite dirigenti, quasi senza combattere.
Oggi, gli imperialismi che dominano il Medio Oriente non possono né accettare il caos, né ristabilire l'ordine: si accontentano di padroneggiare il disordine. Le grandi potenze non fomentano le guerre locali - civili o fra Stati- ma vi presenziano, dal Libano degli anni 1970 al conflitto attuale passando per la guerra Iraq-Iran, ed i loro interventi servono a placare una fonte di tensione (al prezzo di migliaia di cadaveri) solo per esacerbarne un'altra altrove.
Il neocolonialismo degli anni 1950 e 1960 poteva promuovere nel Terzo Mondo dei regimi che avessero un minimo di stabilità, in quanto permettevano alle vecchie e/o alle nuove classe dirigenti di questi paesi di vivere di rendita (sovente petrolifera), e di attingere alla loro parte di profitti provenienti dal commercio con le metropoli industriali. Questa fase si è chiusa verso la fine del 20° secolo. Apparentemente, la "globalizzazione" ha portato su tutti i continenti ad una nuova crescita di un capitalismo che beneficia di lavoro a basso costo dal Marocco alle Filippine e di un trasporto delle merci a buon mercato. Ma la crisi di redditività colpisce anche l'ex Terzo Mondo, e gli impianti vengono dislocati laddove i salariati vengono pagati meno e sono più docili, se necessario dalla Cambogia all'Etiopia. Parallelamente, la globalizzazione accelera la distruzione delle colture alimentari e costringe ad una migrazione verso le città dove gli sradicati non trovano alcun lavoro. Lo sviluppo autonomo dei paesi ex coloniali rimane debole e fragile. Anche il Brasile, da poco tempo "sesta potenza economica del pianeta", rimane impotente di fronte alle fluttuazioni del mercato mondiale.
Serve un minimo di basi socio-economiche perché le strutture politiche tengano. Le multinazionali vogliono che ci siano poteri politici abbastanza deboli perché non disturbino i loro affari, ma abbastanza forti da mantenere l'ordine di cui hanno bisogno. Quando dopo il 2003 l'Iraq si è ritrovato diviso in tre pezzi, non c'erano più le basi per una Stato, lacerato com'era fra "sunnita" e "sciita". Solo la zona curda del nord del paese è riuscita a costituire un proto-Stato economicamente e politicamente attuabile.

Mutazioni

Il Califfato è l'ennesima reazione all'ingerenza occidentale nel mondo arabo da quando c'è stata la fine dell'impero ottomano, e si presenta come difensore dei musulmani nel mondo. La sua probabile fine non farà scomparire le cause che spiegano la sua creazione, e che rimarranno fonte di mobilitazione, violenta per una minoranza. L'Afghanistan nel 2001 è stato l'unico importante obiettivo del "terrorismo": da allora si è diffuso in una mezza dozzina di paesi, anche in Africa. Il fallimento del Califfato sarà una sorta di ritorno di Al Qaeda: non più controllore di un territorio, favorirà dei combattenti nomadi, senza alcuna base territoriale, senza terra, gli "emigrati" del terrorismo. Eccoci in guerra per trent'anni, ha detto un ex capo della CIA.
La morte di Baghdadi non risolverà più di quanto abbia risolto la morte di Bin Laden o quella del Mullah Omar. L'Islam radicale, per usare questa parola, ha assunto forma territoriale solo con la rinascita del Califfato. Ne ha conosciuto altre (la forma di rete, con Al Qaeda) e ne inventerà di nuove. Per i jihadisti, disporre di uno Stato non è indispensabile, la miseria e la confusione locale sono sufficienti. Quando nel Caucaso, nello Xinjiang, in Nord Africa o in Indonesia si accenderanno i prossimi fuochi jihadisti, a seconda se verranno ritenuti minacciosi o se verranno visti di buon occhio, ciascuno Stato reagirà in maniera differente, partecipando o meno alla "lotta contro il terrorismo".
Il Califfato, ufficialmente creato il 29 giugno 2014, ha la sua realtà sul territorio. In Occidente, ne ha un'altra, quella di spauracchio a vantaggio di ogni potere. Le atrocità che lo aiutano a vincere a Raqqa servono ai governanti di Parigi e di Londra per mobilitare l'opinione pubblica contro di esso.

Resistenza

Non cedere al consenso, significa anche mantenere o ridare il loro senso alle parole.
Quarant'anni fa, era frequente teorizzare i palestinesi come dei "senza-riserve" portati inevitabilmente a rimettere ben presto in discussione l'ordine capitalista in Medio Oriente. Questa regione produce oggi dei senza-riserve in misura almeno dieci volte tanto di quanto ne producesse allora la Palestina [*11]. Milioni di persone in Iraq ed in Siria hanno perduto tutto o quasi, l'immensa maggioranza sopravvive come può, ed una minoranza si arruola o viene arruolata al servizio di un campo anti-proletario contro altri campi anti-proletari.
Lo spossessamento non crea affatto ipso facto una riserva di forza rivoluzionaria. Quando la società si disloca e quando lo Stato perde terreno, se il movimento rivoluzionario è debole, quel che "nasce spontaneamente dal suolo della società moderna" [*12] non è un partito rivoluzionario "nella sua più ampia accezione storica", ma delle bande armate che lottano per dividersi il potere e le ricchezze, o per la semplice sopravvivenza.
Si andrebbe altrettanto fuori strada trattando la religione come una vecchia moribonda: arcaismo liturgico e modernità tecnologica non sono incompatibili. Oggi va di moda deridere l'incongruenza storica del programma islamista radicale. Eppure, lo Stato Islamico è poi così "primitivo" quando rispedisce le donne nelle case nel momento in cui il capitale crea delle masse che non è in grado di trasformare in salariati? A partire dalla rivoluzione industriale, secondo le epoche e le loro crisi, il capitalismo ha fatto entrare, uscire e poi di nuovo rientrare delle masse di donne nel mondo del lavoro, combinando pressioni economiche e giustificazioni morali. La "complementarità uomini donne" rivendicata dallo Stato Islamico rinnova la scelta del sessismo a modo suo [*13].
Non seppelliamo troppo presto tutto il nazionalismo. Se quel che è accaduto nella ex Jugoslavia dopo il 1980 non è stato sufficiente, volgiamo lo sguardo verso l'Ucraina di oggi. Oppure, per rimanere in Medio Oriente, guardiamo verso il quasi-Stato curdo che esiste a partire dal 2003 nel nord dell'Iraq.
Gli internazionalisti non possono accontentarsi delle formule risalenti ai tempi in cui l'esercito di leva era la regola. Nei paesi occidentali contemporanei, la mobilitazione riguarda innanzitutto lo spirito, e non si chiede più di uccidere, ma di lasciare che i professionisti uccidano. Il consenso guerriero del 21° secolo non rassomiglia alla Sacra Unione del 1914 [*14]. Lo Stato moderno più che fare appello al militarismo patriottico mantiene stordimento e passività. Ammutinamenti e rivolte prendono strade diverse rispetto a quelle del 1917.
Ciò che non è cambiato, è che anche il regime più democratico non esita a prendere delle misure dittatoriali se ritiene minacciata la sicurezza dello Stato [*15]. Nel 1905, la Russia inviò 300 mila soldati per ristabilire l'ordine in Polonia, ossia più di quanti ne inviasse contro i giapponesi in Oriente: il pericolo interno avrà sempre priorità sul nemico esterno.

- G.D. - giugno 2016 - pubblicato su DDT21 Douter de tout… -

NOTE:

[*1] - Due guerre locali - Internazionale Situazionista n°11, ottobre 1967.
[*2] - Isabelle Sommier, « Du « terrorisme » comme violence totale ? », Revue internationale des sciences sociales, n° 174, 2002
[*3]« Global War On Terror Has Killed 4 Million Muslims Or More », Mint Press News, 3 août 2015  Sur les drones : « Drone Warfare », The Bureau Of Investigative Journalism.
[*4] - Il Lato Cattivo, Question kurde, État Islamique, USA & autres considérations.
[*5] - New York Review of Books, 2 juin 2015.
[*6] - Secondo la formula di William Blum, L’État voyou, Parangon, 2002.
[*7] - In questa suddivisione della regione, il Trattato di Versailles ha contato almeno quanto gli accordi Sykes-Picot del 1916 : Margaret McMillan, Paris 1919 : Six Months That Changed the World, Random House, 2003.
[*8]
- Bruno Astarian, Luttes de classes dans la Chine des réformes (1978-2009), Acratie, 2009.
[*9] - Daniel Cohen lo riconosce a modo suo e con i suoi rimedi : Le Monde est clos et le désir infini, Albin Michel, 2015.
[*10] - Impossibile dire in dettaglio quanto esposto in L’Appel du vide, 2003 ; Irak : Fausses routes, 2004 ; Demain, orage. Essai sur une crise qui vient, 2007 ; Zone de tempête (sur la crise advenue), 2009, tutti consultabili sul sito troploin. Un'analisi più sintetica in De la Crise à la communisation, chap. 4, in pubblicazione per Entremonde nel 2016.
[*11] -  Il Lato Cattivo, Lettre sur l’antisionisme, 2014.
[*12]Karl Marx, « Lettre à Freiligrath », 29 février 1860.
[*13] - Le Présent d’une illusion, 2006, et Tristan Leoni, Du spirituel dans l’homme et le prolétaire en particulier, 2015.
[*14] - Su un punto comunque niente di nuovo: allo Stato non mancheranno dei brillanti spiriti per rafforzare la sua causa, come Freud che nel luglio 1914 dichiara, quando viene a sapere della dichiarazione di guerra dell'Austria alla Serbia: "Tutta la mia libido la offro all'Austria-Ungheria" (Charles Clark, Les Somnambules, Flammarion, 2013, p. 465).
[*15] - « Ennemi Intérieur : Le Monstre sur le seuil », 2016.

 

 

martedì 28 marzo 2017

Modelli greci

modelli

I greci hanno contribuito in modo sostanziale a formulare un linguaggio della mente e a svilupparne i concetti. Le nozioni greche di mente e identità umana - che da Omero e Platone giungono fino a Epitteto e Plotino - toccano questioni di interesse ricorrente e universale, riguardano il modo in cui descriviamo le nostre esperienze, reali o potenziali, e il modo in cui ci confrontiamo, o dovremmo confrontarci, con il mondo e con noi stessi. Cosa ci accade quando moriamo? Gli esseri umani sono mortali o hanno la possibilità di conseguire l'immortalità? Come sono legate la mente, l'anima e il corpo? Siamo responsabili per la nostra felicità? Perché si è giunti a pensare che la vita migliore è una vita governata dalla ragione, con i desideri e le emozioni subordinate al suo comando? Che cosa ha significato pensare all'intelletto umano nei termini di una facoltà divina? Anthony Long si chiede quando e come queste questioni siano emerse nella Grecia antica, e dimostra quanto i modelli di mente ereditati dai pensatori greci siano ancora efficaci nel cogliere e illuminare la nostra comprensione di noi stessi e delle nostre aspirazioni.       

(dal risvolto di copertina di: Anthony A. Long: La mente, l’anima, il corpo. Modelli greci, Einaudi, Pagine 152, e 20)

Omero, Platone e lo stoicismo L’invenzione di mente e corpo
- di Sandro Modeo -

«La scienza senza la filosofia è arida; la filosofia senza la scienza è vuota». Il famoso aforisma di Albert Einstein (come quello gemello per cui «la scienza senza la religione è zoppa; la religione senza la scienza è cieca») rivela sotto la falsa simmetria una critica più acuta e velenosa verso i pregiudizi antiscientifici che verso quelli di senso opposto.
È una critica da tenere in stand-by accostandosi a un libro notevole di uno dei massimi studiosi di filosofia antica, Anthony A. Long, La mente, l’anima, il corpo (Einaudi); una rassegna analitica dei «modelli greci della mente e del sé» (così il titolo originale) estesa lungo mille anni dall’età omerica allo stoicismo di epoca romana. È un percorso condotto infatti con una chiarezza tematica e una trasparenza-eleganza stilistica esemplari (ben restituite nella traduzione di Mauro Bonazzi), ma che rischia di far scontare al lettore un prezzo (troppo) alto di omissioni e arbitrii, se non di una vera distorsione prospettica.
Semplificando, Long accorpa quei modelli in tre fasi storiche coincidenti con altrettante tipologie: oltre alle due citate, campeggia quella centrale della Grecia classica del V-IV secolo a.C. (l’età di Platone), anche se il testo brulica di tante figure intermedie tra le varie fasi. Il modello «omerico» inquadra i personaggi di Iliade e Odissea come «identità psicosomatiche», in cui «stati mentali e stati fisici» sono versanti plastici di un’unità funzionale, rispecchiati in termini ambi o plurivalenti (vedi il thumos per rendere «il pulsare del sangue», ma anche il «carattere» o «il centro di coscienza») spesso usati come varianti o sinonimi secondo le cadenze dell’esametro. Il modello «platonico» rappresenta invece — rispetto a quello omerico — la transizione ontologica verso il «dualismo estremo» (corpo/mente, materiale/immateriale), riassunta da quella terminologica di psyche , tesa a indicare non più funzioni organiche (il «respiro vitale» esalato alla morte) ma l’«anima» incorporea, immortale e di ascendenza divina: un’entità distante anni-luce dalle presenze fantasmatiche dell’Ade omerico. Quanto ai modelli ellenistici e romani, Long parla di «provocazioni» che poi però smussa e vela: riconosce la matrice materialista dell’epicureismo (per cui l’anima è nel corpo), ma ne rimuove ramificazioni letterarie come Lucrezio (con la sua critica della religione) e Luciano (con la sua irrisione dell’Aldilà); così come ricorda i picchi cognitivi dello stoicismo (l’«assenso» in quanto percezione consapevole), ma ne rimarca poi soprattutto le convinzioni sulla matrice divina dell’intelligenza umana. E riconduce l’uno e l’altro — con parziale forzatura — sotto l’eredità platonica.
E qui sta lo snodo-chiave: nonostante si sforzi di presentare il percorso senza progressi lineari — e nonostante neghi personali «inclinazioni o convinzioni teistiche» —, Long enfatizza in modo iperbolico a ogni pagina la centralità platonica e la relativa cesura dualistica (anima vs. corpo). Tutto legittimo, se questo non implicasse, oltre alle smussature citate, una serie di rimozioni in direzione materialistico-naturalistica (Long le chiama «le omissioni più grandi»), con la flebile spiegazione per cui «una volta che la distinzione tra anima e corpo è diventata moneta corrente», i filosofi greci sviluppano il linguaggio della mente «secondo modalità sostanzialmente indifferenti alla costituzione fisica della mente stessa», anche quando pensano che sia «parte del corpo». Si tratta, di fatto, del consueto escamotage per mostrare come si possa rinunciare al «dualismo di sostanza» (quello platonico) ma non a quello «di proprietà» (mente e corpo, pur composti della stessa materia, obbediscono a livelli descrittivi inconciliabili). Escamotage fragile (il dualismo di proprietà è, psicologicamente, una tautologia, o meglio una strategia adattativa selezionata dall’evoluzione); ma con cui si provvede, in questo caso, a un’estromissione radicale della «scienza» greca intesa sia nella sua inseparabilità dalla filosofia, sia — come sostiene Lucio Russo a proposito della «rivoluzione ellenistica» — nella sua autonomia concettuale e metodologica.
Colpisce in particolare, in rapporto alla «mente» e al «sé», la rimozione delle teorie bio-mediche. Pensiamo, in età classica, all’antefatto misconosciuto di Alcmeone di Crotone, che intuisce le differenze funzionali tra vene e arterie e soprattutto riconduce cognizioni e sentimenti al cervello (organo che per Aristotele, un secolo dopo, sarà ancora deputato a raffreddare il sangue); o, va da sé, a Ippocrate e alla sua scuola, con scritti come il De male sacro (sull’epilessia) che liberano il malato dal rapporto colpa morale-punizione divina, riconducendo la malattia a cause puramente naturali. E pensiamo, in età ellenistica — la stessa della geometria di Euclide e del proto-eliocentrismo di Aristarco — a personalità come Erofilo, che, confermando le osservazioni di Alcmeone, descrive nei dettagli il sistema nervoso (in tutto coincidente con la psyche ) e studia per primo i sintomi delle malattie mentali. Ricordando come influenze comuni conducano a strade diverse (il concetto di salute/malattia come equilibrio/squilibrio organico nella scuola ippocratica è attinto dallo stesso concetto di «armonia matematica» di Pitagora che ritroviamo dietro l’«anima razionale» e il «buon governo» di Platone), è impossibile non cogliere nella svolta bio-medica un «modello» cognitivo che va molto oltre l’ambito diagnostico-terapeutico. Un modello che introducendo novità metodologiche (la verifica sperimentale) e desacralizzando (al netto di residui rituali) l’orizzonte psicologico, ridisegna il rapporto tra la mente e il mondo secondo categorie che evitano ogni dualismo (di sostanza e di proprietà) e richiamano semmai in chiave «scientifica» le «unità funzionali» del sublime impressionismo omerico.
In questa prospettiva, la «scienza» greca contiene molte premesse filosofiche di quella successiva. Ed è qui che si insinua il secondo scotoma nella visuale di Long. Il fatto che il libro «attualizzi» il pensiero greco solo in senso dualistico («La loro fisiologia può dirci ben poco sulla nostra esperienza mentale odierna») ha in realtà lo scopo di un arroccamento vetero-umanistico oggi . Quando scrive, nell’incipit, che tuttora non esistono «riscontri scientifici che permettono di decidere, una volta per tutte, se la mente è parte del corpo, o se è invece una sostanza spirituale, oppure un epifenomeno del cervello» (o, subito dopo, che «ancora non sappiamo, scientificamente parlando, cosa sia la coscienza»), Long traduce una rimozione storica in epistemologico-cognitiva.
Eppure, basterebbe conoscere anche solo i rudimenti della teoria del «darwinismo neurale» di Gerald Edelman, degli studi di Antonio Damasio sul rapporto corpo/cervello (o sul ruolo delle aree emozionali nei processi decisionali) e di quelli di Giulio Tononi sui livelli di «integrazione dell’informazione» (corrispondenti a coscienza e inconscio, sonno e veglia) per vedere l’infondatezza di quell’arroccamento. Anzi, in ottica neuroscientifica lo stesso Platone (che per Edelman, a proposito di teoria della mente, «non si può nemmeno dire che si sbagliasse: non è neanche in considerazione») potrebbe essere rivisitato collegando la sua dialettica cognitivo-emotiva ( il «controllo» della ragione sulle passioni) a quella tra regioni corticali e sistema limbico.
Forse ora — riattivandolo dallo stand-by — si può comprendere il senso profondo dell’aforisma di Einstein.

- Sandro Modeo - pubblicato su Il Corriere/la Lettura del 15 maggio 2016

Bibliografia
Con La rivoluzione dimenticata (Feltrinelli, edizione «accresciuta» 2013) Lucio Russo ha ricostruito nei dettagli il «pensiero scientifico greco» maturato nel periodo ellenistico. Il Nobel della Fisica Steven Weinberg sostiene, in un libro tradotto da poco (Spiegare il mondo, versione di Tullio Cannillo, Mondadori, pp. 410, e 28), come la scienza moderna rappresenti una svolta decisiva. Sul pensiero biomedico antico: Gilberto Corbellini, Storia e teorie della salute e della malattia (Carocci, versione rivista 2014)

lunedì 27 marzo 2017

Il potere del dono

dono

«In un saggio gli aspetti oscuri dei regali: dalla mela di Eva al vaso di Pandora, dalla carità elargita per andare in Paradiso alla beneficenza fatta per ottenere delle deduzioni fiscali.»

Queste pagine offrono un'analisi alternativa che mette in luce l'uso del dono per perseguire propositi cattivi. Che sia quello di ribadire uno status sociale, stabilire una supremazia o ottenere qualcosa in cambio, più spesso di quanto pensiamo è un mezzo della prepotenza. Attraverso una ricerca basata su una documentazione che attinge dall'antropologia, la storia, la sociologia e il diritto, l'autore esplora un territorio solo apparentemente familiare, mettendone in luce gli aspetti più insidiosi e non di rado drammatici. (dal risvolto di copertina di: Cosimo Carlo Mazzoni, Il dono è il dramma, Bompiani, pp.292, euro 14)

Ogni dono, in fondo, è una gran fregatura
- di Felice Modica -

Forse ha ragione Paperon de' Paperoni, il papero più ricco del mondo uscito dalla penna di Carl Barks, quando afferma categorico: «Se è gratis non vale niente». Zio Paperone si è convinto così, studiando alla dura università della vira; il giurista Cosimo Carlo Mazzoni, invece, arriva alla medesima conclusione con un dottissimo saggio che analizza la questione durante un lungo arco temporale, che parte dalla Bibbia e dalla mela di Adamo, passando per l'antica Grecia del vaso di Pandora e del cavallo di Troia, per arrivare ai giorni nostri: Il dono è il dramma (Bompiani, pp.292, euro 14).
Non si tratta di un pamphlet, ma di uno studio molto serio che possiede la virtù rara (specie in Italia) di conciliare il rigore scientifico con la chiarezza espositiva. Sembra quasi un ossimoro, ma Mazzoni è un giurista di piacevole lettura... Il volume capovolge il senso comune secondo cui lo scambio di regali è un segno di amicizia o di affetto e scava sui significati reconditi del dono, mostrandone il lato oscuro, gli aspetti perversi, come questo possa perfino essere portatore di disgrazia. Sempre più spesso, ad esempio, accade che, in quest’epoca mercantile, lo spirito filantropico nasconda vere deduzioni fiscali dietro finta liberalità. O che la carità sia una forma dissimulata di paternalismo autocompiacente. O, perfino, che gli scambi di doni normalmente in uso tra congiunti e amici, rispondano a logiche inconfessabili e fintamente spontanee. In questi casi (volutamente esasperati) - e in molti altri - il dono è dramma, può addirittura celare intenzioni malvagie.

Ciò non vuol dire, beninteso, che il dono non possa essere espressione di autentica generosità, sentimento d’amore, atto gratuito, gesto spontaneo. Il saggio rivela che, comunque, spesso il dono non è tutto questo, descrivendone «l’altra faccia», gli inconfessabili aspetti negativi. Nel volume non mancano i riferimenti letterari, storici, filosofici, indispensabili per stendere una vera antropologia del dono, i cui risultati demistificatori della sua funzione benefica saranno sorprendenti. Per far ciò, l’autore, intrecciando parole e immagini tratte da testi biblici e da cronache quotidiane, dalla mitologia greca e dalle ritualità di oggi, affronta il tema in quattro sezioni: la Gratuità, lo Scambio, la Beneficenza, l'Anonimato.
Gratuità equivale spesso a inutilità. Un atto gratuito non ha scopo. Ma, dietro questa futilità, può nascondersi un’apparenza di generosità, possono celarsi disegni poco chiari, obbedienti a ritualità sociali. La gratuità è anche il tratto del dispotismo, del potere assoluto. Citando Jean Starobinski, la sparsio degli imperatori romani che gettano le monete d’oro affinché il volgo possa azzuffarsi nel tentativo di raccattarle. Il gesto, compiuto durante i Saturnali,
aveva lo scopo di rendere visiva e pregnante la relazione tra dominante e dominati. I doni gettati, i missilia, «davano conto tangibile di una sovranità fondata sulla violenza e generatrice di violenza ritualizzata». La gratuità può pure celare uno scambio dissimulato. Doni contro altri omaggi, o contro benevolenza, gratitudine, affetti, amore.

Ancora, la beneficenza è, per così dire, una conseguenza delle differenze tra le classi sociali, che attraversa l’intera storia dell'Occidente cristiano nel rapporto tra ricco e povero. È uno tra i mezzi utilizzati per ridurre le distanze, riequilibrando gli squilibri economici. Tentativo sempre ingloriosamente fallito, pietra di paragone di governi e utopie. Le sorti del povero - materiali e spirituali - sono state storicamente prese in carico dal Cristianesimo, che ha fatto dell’elemosina uno strumento di aiuto materiale per l’indigente e di elevazione spirituale per chi la fa. Il povero diventa così una sorta di categoria morale. La beneficenza si chiama carità, è una virtù teologale. Osserva Mazzoni che «i Padri della Chiesa hanno fatto dell’atto dell’elemosina la prima parte di un contratto nel quale la contropartita è la ricompensa divina». Con lo Stato moderno tutto si capovolge. La povertà è innanzi tutto dramma sociale. Dopo la Rivoluzione francese, il problema non può più essere rimesso alla bontà del singolo, alla compassione dell’individuo, ma diventa compito dell’autorità statale. Alla compassione subentra il desiderio, anzi, la vocazione dello Stato moderno di «rimuovere le cause che di fatto impediscono alle classi povere, al proletariato, il pieno sviluppo della personalità individuale e la partecipazione alla vita sociale».
Infine, il dono anonimo. Dal Vangelo di Matteo risulta chiaro che il vero dono è quello che non deve apparire come tale. Eppure, anche dietro questo gesto, può celarsi l’ansia dell’ignoto. L'anonimato come insincero, di chi abbia qualcosa da nascondere, di inquietante perché segreto.

- Felice Modica - Pubblicato su Libero del 19 febbraio 2017 -

domenica 26 marzo 2017

La concorrenza e la corruzione

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Oggi stiamo vivendo in un'epoca di profonda sconfitta del proletariato. Gli sfruttati provano vergogna per i loro propri interessi materiali e, per mascherarli, tentano di affermare - difendendoli - quelli che sono gli interessi della"imprenditorialità", della "competività", e gli interessi che vengono loro presentati come se fossero quel che è diventato l'unico "onesto" ed "universale" "imperativo caregorico kantiano".
I loro propri interessi, dal momento che si tratta solo di semplici esseri umani fatti di carne ed ossa, causano loro vergogna in quanto vengono considerati da essi stessi come se si trattasse invece di "corruzione", in quanto sono gli interessi commerciali, imprenditoriali e finanziari ad apparire loro come fossero gli interessi che incarnano libertà, uguaglianza, giustizia, ecc..

Per fare un esempio, ci si vergogna di affermare con chiarezza di volere una vita facile e provvista di ogni bene senza dover essere per questo sottomessi ai "vincitori de mercato", e si vergonagno in quanto il loro interesse è quello di non lavorare a vita e sempre più intensamente, ecc..
Si afferma quasi all'unanimità che tutti questi desideri sono "corruzione"; per loro, gli interessi sono "corrotti", e gli unici ad essere non corrotti, i "disinteressati", sono tali in quanto rispettano le "regole del gioco", in quanto sono i "vincitori del mercato" ovvero gli imprenditori, ecc..

Ciò che è interessante è il fatto che, per la maggior parte del tempo questa competizione dichiarata a parole, per la maggioranza delle persone viene messa tacitamente in atto al fine di lavorare il minimo possibile cercando di fare quello che gli piace di più fare, sotto il controllo dei capi e dei proprietari. Ma, poiché la fiducia reciproca viene ampiamente superata dalla fiducia in coloro che pagano, o possono pagare, i salari (lo Stato o l'impresa), allora ecco che evitano di parlare apertamente, fra di loro, dei loro interessi (che sono visti come competizione che minaccia la loro sopravvivenza ed il loro posto di lavoro). In tal modo, non riescono a creare un linguaggio in grado di esprimere i loro interessi umani, dal momento che hanno paura di esprimersi gli uni con gli altri. Si vergognano dei propri interessi che, come abbiamo visto, confondono con la "corruzione". Ad esempio, la maggioranza si rivolta contro certe misure planetarie (come l'aumento delll'età pensionabile, l'esternalizzazione, ecc.) però, nella misura in cui non sviluppano un linguaggio proprio, assumono il linguaggio della classe dominante per esprimere tale rivolta, che pertando si converte in "rivolta per l'ordine" (vale a dire, la classica definizione del fascismo alla João Bernardo), una rivolta espressa nel linguaggio e nella forma della classe dominante, il linguaggio di coloro che non sarebbero "corrotti", il linguaggio di     quelli che hanno la proprietà privata dei mizza di vita e di produzione; e i quali, nella pratica quotidiana delle guerra di tutti contro tutti per la sopravvivenza, confidano materialmente nel fatto che, se rispettata, tale pratica garantirà la loro sopravvivenza contro i concorrenti, contrariamene a quanti vogliono prendere il "loro posto di lavoro".
Ne consegue che la rivolta di questi si esprime come appello ad una "forza maggiore" (ad esempio. Trump, Bolsonaro, oppure le richieste di capi che possano punire e ricompensare con maggior forza o rigore) che risolva tutti i problemi per mezzo della repressione e della mattanza, per difenderli contro i loro simili che vengono visti come "nemici" (sia contro i più poveri che contro gli stranieri, i migranti, ecc.).

Affinché i proletari possano creare un linguaggio autonomomo, può essere utile riprendere e perferionare l'etica di Ippocrate, la quale offre un'interessante contrapposizione riguardo al concetto di "corruzione" incessantemente usato dalla classe dominante. Dopo tutto, nel suo senso essenziale, corruzione vuol dire fare qualcosa in cambio di qualcos'altro (alla ricerca di ricompense o per mezzo di punizioni), anziché ed al contrario di fare qualcosa che valga di per sé, qualcosa la cui necessità, umanità ed etica svolge l'attività di produrre qualcosa che si giustifica da sé...

fonte: http://humanaesfera.blogspot.it/

sabato 25 marzo 2017

Oppiacei

Controlosport

Un uomo rincorre una palla, un altro prende a pugni un sacco pieno di sabbia, un altro ancora salta degli ostacoli messi lì al solo scopo di essere saltati.
Perché lo fanno? Lo sport nel suo complesso sembra aver sostituito riti, assorbito funzioni e paradigmi fondamentali nella cultura primitiva, per riproporli in una forma modernamente accettabile. Non solo, ma fornisce un’efficace integrazione al sistema educativo e alla religione. Per alcuni, rappresenta un’innocua metafora della guerra, per molti altri il farmaco universale grazie a cui è possibile far crescere bene i giovani, sviluppare e fissare sani valori etici e morali, far tornare belli i brutti, prevenire ogni tipo di malattia, allungare la vita media dell’uomo medio. In definitiva lo sport «fa bene», ci aiuta nella nostra lotta contro il male e, in virtù di ciò, fare sport diviene quasi un dovere etico. Invece, lo sport fa male.

(dal risvolto di copertina di: Bruno Ballardini: Contro lo sport (a favore dell'ozio), Baldini e Castoldi)

Meglio l’ozio del Grande Gioco
- di Pasquale Coccia -

Lo sport come farmaco universale che fa bene a tutti. Lo sport funzionale alla religione e al sistema educativo, per far crescere bene i giovani e renderli belli, lo sport che allunga la vita. Fare sport diventa quasi un dovere etico.
E se fossero tutte balle inventate da chi governa il Grande Gioco? Un sistema che vuole rendere agonistico tutto a tutti i costi, anche il gioco della dama, il twirling e la pesca sportiva in riva a un lago. E il mens sana in corpore sano di Giovenale? Una grande truffa. Invece lo sport fa male, sostiene qualcuno. Questo sport ci ha privato dell’aspetto ludico, l’unico vero antidoto sembra essere l’ozio, quello degli antichi romani.
Ne parliamo con Bruno Ballardini, autore di un libro provocazione già nel titolo Contro lo sport (a favore dell’ozio) edito da Baldini e Castoldi, euro 15.
Bruno Ballardini è esperto di comunicazione strategica, ha scritto "Gesù lava più bianco", tradotto e pubblicato in 11 paesi. Ha pubblicato inoltre, "La morte della pubblicità" e l’anno scorso "Isis. Il marketing dell’Apocalisse". Ha insegnato all’Università La Sapienza di Roma e all’Università di Salerno. Ha giocato a pallacanestro, attualmente pratica arti marziali.

Perché ha deciso di scrivere un libro contro lo sport?

Molti anni fa ebbi un incidente sciando e al mio rientro, dopo un anno di riabilitazione, l’allenatore della squadra di basket con cui giocavo disse che ormai ero «troppo vecchio». Così, me la sono legata al dito. No, scherzo… In realtà, dopo essermi occupato del marketing della Chiesa mi è capitato di leggere una frase di Knute Rockne, leggendario allenatore di football americano, che diceva: «Dopo la religione, lo sport è quanto abbiamo di meglio». Ecco, sono partito da lì.
Lei ha affermato che il motto «mens sana in corpore sano» è una truffa. Perché?
Perché così, in forma di slogan, è diventato una falsa promessa che ha abituato generazioni e generazioni di sportivi a tenere separate le due cose impedendo la loro armonica unione. In realtà, l’esortazione di Giovenale è stata ampiamente fraintesa per via di una lettura cartesiana. Ma, in questo modo, diversamente da ciò che avviene nelle discipline orientali, nella nostra cultura si è fissata una schizofrenia mente-corpo che ha prodotto e continua a produrre danni enormi su entrambi i piani, impedendo nella pratica una crescita equilibrata della persona. Anche soltanto per questo, lo sport «fa male».

Che cos’è il Grande Gioco di cui parla nel libro?

È il sistema sportivo nel suo complesso, di cui l’olimpismo rappresenta il fondamento teologico o, se vogliamo dirla in termini di marketing, la vision. È una religione di massa sostenuta dalla fede incrollabile in una folle e anacronistica idea di universalismo nata a fine ‘800 da un aristocratico visionario e trasformata poi, nel breve arco di un secolo, in industria culturale. Il Grande Gioco pretende di rendere agonistico tutto, dalla dama al bridge, dal twirling alla pesca sportiva, ma se potesse, organizzerebbe olimpiadi di qualsiasi cosa, perfino dell’arte e della letteratura. A dire il vero, questo tentativo è stato anche fatto in passato, fortunatamente con scarso successo.

Scrive che «lo Stato è protetto dallo Stadio». Che cosa vuol dire?

Se lo sport-spettacolo non costituisse di fatto una valvola di sfogo per le tensioni sociali, queste tensioni troverebbero compimento soltanto con una rivoluzione. In questo senso, lo «stadio» protegge sempre lo Stato, fosse anche il più canaglia degli stati.

È per questo motivo che lei considera gli ultrà, da tutti ritenuti brutti, sporchi e cattivi, come la parte più sincera della società?

Certo, «sincera» nel senso che esprime senza alcun filtro tutto il proprio disagio sociale, che in realtà sarebbe disagio comune al resto della società civile se questa non fosse distratta dallo spettacolo. Lo sport fornisce una sublimazione ipocrita della violenza costringendola in una gabbia di fair play e di bon ton che spesso, nonostante tutto, vengono meno mostrando la nostra condizione naturale. Fin dal 1917, Thorstein Veblen rappresento` lo sport come un mezzo di liberazione paragonabile alla guerra. Io sono contrario alla violenza ma se esiste c’è un motivo. Significa che lo sport non è riuscito affatto a sublimarla o a incanalarla come vorrebbero i sociologi dello sport. E se si arriva al punto in cui non c’è più alternativa alla violenza allora, extrema ratio, che almeno venga usata per il bene comune, magari rivalutando l’idea di rivoluzione. Invece, gli ultrà sfogano la violenza all’interno del sistema dello sport-spettacolo venendone fagocitati. Alla fine non ottengono nessun riscatto sociale e restano delle vittime del Grande Gioco.

Parla di sportivizzazione del «loisir». Che cosa vuol dire?

È una questione ben nota a tutti gli studiosi di storia dello sport. La società capitalista e post capitalista pretende di gestire non solo il tempo del lavoro ma anche il tempo libero. Nulla resta disimpegnato. All’inizio, il loisir comprendeva tutte le attività ricreative, poi il sistema ha gettato la maschera ed ha imposto lo sport, sub-directory dello sport-spettacolo, annientando ad esempio l’educazione fisica per tutti che ha subito una «privatizzazione» con il fitness. Contemporaneamente, c’è stata l’industrializzazione del tempo libero, con le vacanze organizzate, in cui nulla è lasciato alla libera iniziativa dei singoli. Rispetto a tutto questo meccanismo, perfino l’ozio è rivoluzionario.

Lei sostiene che oggi la vittoria sia l’unico valore di riferimento a livello sociale. La cura per questa malattia?

Chiediamoci prima di tutto che senso abbia «vincere» sempre e a tutti i costi. E poi, abbiamo veramente bisogno di premi? Dobbiamo rifiutare la competizione cui ci hanno abituati, rigettare le classifiche che dallo sport sono arrivate a contaminare tutti gli aspetti della nostra vita compresa la cultura. Cosa importa sapere quali sono i dischi e i libri primi in classifica? Non ha alcun senso stabilire chi sia il migliore musicalmente o sul piano della scrittura ma le classifiche orientano le scelte del pubblico in una logica strettamente di marketing impedendogli di scoprire da solo ciò che val la pena di essere scoperto, che potrebbe anche non essere il primo in classifica. Tutto questo uccide il mercato della cultura. Occorre fermare questo meccanismo perverso, rigettare soprattutto il marketing che è diventato motore di una guerra continua di tutti contro tutti e in definitiva non può che produrre guerra. Anche quella vera. Quando invece dovremmo tornare a costruire una società fondata sulla collaborazione.

Scrive che il Grande Gioco va smantellato, perché è in gioco la salute mentale dell’umanità. Come si fa a smantellarlo?

Cominciamo prima di tutto a boicottare lo sport spettacolo che rende l’umanità passiva. Invece di assistere al gioco, è meglio, molto meglio, giocare in prima persona. Eliminiamo anche tutte le attività inutili per riappropriarci della nostra vita: che senso ha pagare anche cento euro al mese per camminare su un tapis roulant quando ogni giorno si può fare gratis un giro a piedi intorno all’isolato?

Per lei l’unica cosa che possiamo fare è giocare e oziare. Davvero abbiamo perso la dimensione ludica della vita e dello sport?

Sì, lo sport come sistema non ha più ragione di esistere. Bisogna uscire dagli stadi e tornare al gioco di strada senza pubblico, e senza classifiche. Meglio tornare al gioco vero, anzi meglio far diventare la vita un gioco. Riprendiamoci la nostra esistenza, non lasciamola più gestire da altri. Dobbiamo decidere noi le regole del gioco e, se vogliamo, anche cambiarle di volta in volta, creativamente: perché giocare sempre gli stessi giochi? Come sosteneva Huizinga, il gioco è una cosa leggera eppure maledettamente seria. È tutto qui il senso della vita. In alternativa, c’è anche l’ozio, che non significa affatto non far nulla ma recuperare tutte le attività che possono nutrire il nostro essere: è l’otium dei latini. Loro avevano già capito tutto.

- Intervista di Pasquale Coccia - Pubblicata su Alias del 29 ottobre 2016 -

venerdì 24 marzo 2017

Il lato oscuro

weber

Banalità di base: breve nota critica su Max Weber ed il capitalismo

In Max Weber, l'attività viene definita come capitalista quando si tratta di un'attività «che si aspetta un profitto dall'utilizzo di tutte le circostanze favorevoli ad uno scambio, vale a dire che si basa su delle occasioni di profitto (formalmente) pacifiche» [*1]. Quel che Weber non vede, è che l'analisi dello scambio così come esso avviene nella società capitalista, «non riguarda un prodotto cui capita di essere scambiato, senza tener conto della società in cui ciò avviene; non riguarda la merce separata dal suo contesto sociale nel modo in cui può avvenire in maniera contingente in molte società» [*2].

L'errore centrale di Marx Weber è allora quello di non vedere che la semplice esistenza dello scambio dal quale si potrebbe trarre un guadagno attaraverso un calcolo (cosa che Marx comprende ancora in maniera problematica come «forma antidiluviana» quando parla del capitale mercantile in una società non capitalista [*3]), è sproporzionata rispetto allo scambio di merci nella totalità sociale capitalista: questa situazione descritta da Weber non ha NIENTE «del capitalismo». E se d'altronde la distinzione fondamentale fra commercio e capitalismo stabilita da Ellen Meiskins Wood è appropriata per quanto riguarda Weber (fa sia di Weber che di Braudel due tipici esempi del «modello della commercializzazione» che in effetti vanno buttati nel bidone della spazzatura teorica), rimane il fatto che la sua tesi sull'origine agraria del capitalismo, così come la ricava quanto a meno a partire da dei presupposti problematici del «marxismo politico», può apparire pertinente solo per un istante.

Quel che è interessante in Weber è il fatto che egli illustri perfettamente il lato oscuro, o il rovescio, della retroproiezione delle categorie moderne su tutta la storia umana: la sua definizione di ciò che costituisce «un comportamento capitalista», non è solamente una proiezione del presente sul passato, ma è anche una proiezione del passato sul presente, è quello che potrebbe essere chiamata una retroproiezione in feedback. Dopo aver naturalizzato e ontologizzato il contesto-forma delle forme capitaliste di base che vengono allegramente proiettate all'indietro sulla Cina, l'India, Babilonia, l'Egitto e l'antico Mediterraneo, taglia nel passato il mattone elementare ontologizzato in queste società passate che ritiene di riconoscere, in maniera anacronistica, come facenti parte di un «comportamento capitalista», per poi costruire a partire dall'aggregazione di questi mattoni in una totalità i concetti di «nichtrationalen Kapitalismus» (per le società del passato) e di forma razionale di capitalismo (per le società contemporanee). La costruzione concettuale di Weber illustra completamente l'economia circolare delle retroproiezioni e delle proiezioni in feedback, che finisce per definire il pensiero economico borghese come un pensiere eminentemente autoreferenziale in quanto preso in trappola nella gabbia d'acciaio della «forma di pensiero oggettivo» generato nel rapporto sociale capitalista.

Ma più in generale, la definizione weberiana di capitalismo, che ha come base l'individualismo metodologico e che si concentra quindi sul processo di circolazione e sull'attività razionale dell'agente economico, si colloca come un contenuto della forma di coscienza borghese feticizzata, aderendo alla fine alla formulazione neoclassica «fine secolo» di tale forma di pensiero. Del resto, si riconosce la posizione naturalizzante e trans-storica di Max Weber, che è logicamente quella dell'ideologia borghese del progresso e dei Lumi nel seguente passaggio che d'altronde viene citato positivamente da Maxime Rodinson (in "Islam e Capitalismo" [*4]): «in questo senso, il capitalismo e le imprese capitaliste, e perfino con una considerevole razionalizzazione di calcolo capitalistico, sono esistiti in tutti i paesi civili del mondo..., in Cina, in India, a Babilonia, in Egitto, nell'antichità mediterranea e nel Medioevo allo stesso modo che nei tempi moderni» [*5].

NOTE:

[*1] - in Max Weber, «Prefazione», a l'Etica protestante e lo spirito del capitalismo.
[*2] - Moishe Postone, Tempo, lavoro e dominio sociale.
[*3] - Per una discussione su questo punto, Robert Kurz, «3.Der Begriff der "Nischenform" und der methodologische Individualismus», in Geld ohne Wert. Grundrisse zu einer Transformation der Kritik der politischen Ökonomie, Horlemann, 2012, pp. 57-67.
[*4] - Un'opera problematica sotto molti punti di vista, anche nella definizione di ciò che è il capitalismo ed i suoi riferimenti weberiani.
[*5] - in Max Weber, «Prefazione», a l'Etica protestante e lo spirito del capitalismo.

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme http://www.palim-psao.fr/

giovedì 23 marzo 2017

Grazie per il caffè

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Qualcosa bisogna pure che lo dica quaggiù dentro, che lo metta nero su bianco, sia pure solo per dire che torno a scrivere.
Per qualche strano caso della sorte, il giorno del mio compleanno, il 24 febbraio scorso,  non ha coinciso con l'ultimo giorno della mia vita, ma mi ha solo dato modo di poter citare quanto scriveva Samuel Langhorne Clemens a proposito delle esagerazioni circa la notizia che riferiva della sua morte!

Eppure, in questi giorni, più che a Mark Twain, il mio scrittore di riferimento è stato John Griffith Chaney London - meglio noto come Jack London - insieme al suo personaggio che egli stesso aveva creato nella sua ulima opera, Darrell Standing, the Star Rover.

Non so voi, ma per me non è stato affatto semplice districarsi fra la morte e i ricordi, fra i corsi ed i ricorsi, fino al momento in cui mi sono dovuto rendere conto che non era "successo niente", tranne il fatto che ero "tornato" e che, nel tornare mi ero "perso", come delle cose che fossero scivolate via dalle tasche, alcune cose; avevo perso soprattutto quasi tutti i mesi delle settimane, diverse date e qualche - pochissimi - nome. Ed il gusto e la passione per per il caffè che che per qualche inspiegabile ragione mi è diventato discustoso, al gusto ed all'aroma.

Insomma, caffè o meno, è andata più  meno in questo modo. Ovviamente, le cose avrebbero avuto un altro esito  senza la persona che ha fatto di tutto per salvarmi testardamente la vita. E come dicevo all'inizio, bisognava pure che scrivessi qualcosa, per poter dire grazie a chi amo  e a a coloro da cui sono amato, dire grazie a proposito dei miei amici, di chi si è preoccupato per me.

Grazie e a presto.