Un uomo rincorre una palla, un altro prende a pugni un sacco pieno di sabbia, un altro ancora salta degli ostacoli messi lì al solo scopo di essere saltati.
Perché lo fanno? Lo sport nel suo complesso sembra aver sostituito riti, assorbito funzioni e paradigmi fondamentali nella cultura primitiva, per riproporli in una forma modernamente accettabile. Non solo, ma fornisce un’efficace integrazione al sistema educativo e alla religione. Per alcuni, rappresenta un’innocua metafora della guerra, per molti altri il farmaco universale grazie a cui è possibile far crescere bene i giovani, sviluppare e fissare sani valori etici e morali, far tornare belli i brutti, prevenire ogni tipo di malattia, allungare la vita media dell’uomo medio. In definitiva lo sport «fa bene», ci aiuta nella nostra lotta contro il male e, in virtù di ciò, fare sport diviene quasi un dovere etico. Invece, lo sport fa male.
(dal risvolto di copertina di: Bruno Ballardini: Contro lo sport (a favore dell'ozio), Baldini e Castoldi)
Meglio l’ozio del Grande Gioco
- di Pasquale Coccia -
Lo sport come farmaco universale che fa bene a tutti. Lo sport funzionale alla religione e al sistema educativo, per far crescere bene i giovani e renderli belli, lo sport che allunga la vita. Fare sport diventa quasi un dovere etico.
E se fossero tutte balle inventate da chi governa il Grande Gioco? Un sistema che vuole rendere agonistico tutto a tutti i costi, anche il gioco della dama, il twirling e la pesca sportiva in riva a un lago. E il mens sana in corpore sano di Giovenale? Una grande truffa. Invece lo sport fa male, sostiene qualcuno. Questo sport ci ha privato dell’aspetto ludico, l’unico vero antidoto sembra essere l’ozio, quello degli antichi romani.
Ne parliamo con Bruno Ballardini, autore di un libro provocazione già nel titolo Contro lo sport (a favore dell’ozio) edito da Baldini e Castoldi, euro 15.
Bruno Ballardini è esperto di comunicazione strategica, ha scritto "Gesù lava più bianco", tradotto e pubblicato in 11 paesi. Ha pubblicato inoltre, "La morte della pubblicità" e l’anno scorso "Isis. Il marketing dell’Apocalisse". Ha insegnato all’Università La Sapienza di Roma e all’Università di Salerno. Ha giocato a pallacanestro, attualmente pratica arti marziali.
Perché ha deciso di scrivere un libro contro lo sport?
Molti anni fa ebbi un incidente sciando e al mio rientro, dopo un anno di riabilitazione, l’allenatore della squadra di basket con cui giocavo disse che ormai ero «troppo vecchio». Così, me la sono legata al dito. No, scherzo… In realtà, dopo essermi occupato del marketing della Chiesa mi è capitato di leggere una frase di Knute Rockne, leggendario allenatore di football americano, che diceva: «Dopo la religione, lo sport è quanto abbiamo di meglio». Ecco, sono partito da lì.
Lei ha affermato che il motto «mens sana in corpore sano» è una truffa. Perché?
Perché così, in forma di slogan, è diventato una falsa promessa che ha abituato generazioni e generazioni di sportivi a tenere separate le due cose impedendo la loro armonica unione. In realtà, l’esortazione di Giovenale è stata ampiamente fraintesa per via di una lettura cartesiana. Ma, in questo modo, diversamente da ciò che avviene nelle discipline orientali, nella nostra cultura si è fissata una schizofrenia mente-corpo che ha prodotto e continua a produrre danni enormi su entrambi i piani, impedendo nella pratica una crescita equilibrata della persona. Anche soltanto per questo, lo sport «fa male».
Che cos’è il Grande Gioco di cui parla nel libro?
È il sistema sportivo nel suo complesso, di cui l’olimpismo rappresenta il fondamento teologico o, se vogliamo dirla in termini di marketing, la vision. È una religione di massa sostenuta dalla fede incrollabile in una folle e anacronistica idea di universalismo nata a fine ‘800 da un aristocratico visionario e trasformata poi, nel breve arco di un secolo, in industria culturale. Il Grande Gioco pretende di rendere agonistico tutto, dalla dama al bridge, dal twirling alla pesca sportiva, ma se potesse, organizzerebbe olimpiadi di qualsiasi cosa, perfino dell’arte e della letteratura. A dire il vero, questo tentativo è stato anche fatto in passato, fortunatamente con scarso successo.
Scrive che «lo Stato è protetto dallo Stadio». Che cosa vuol dire?
Se lo sport-spettacolo non costituisse di fatto una valvola di sfogo per le tensioni sociali, queste tensioni troverebbero compimento soltanto con una rivoluzione. In questo senso, lo «stadio» protegge sempre lo Stato, fosse anche il più canaglia degli stati.
È per questo motivo che lei considera gli ultrà, da tutti ritenuti brutti, sporchi e cattivi, come la parte più sincera della società?
Certo, «sincera» nel senso che esprime senza alcun filtro tutto il proprio disagio sociale, che in realtà sarebbe disagio comune al resto della società civile se questa non fosse distratta dallo spettacolo. Lo sport fornisce una sublimazione ipocrita della violenza costringendola in una gabbia di fair play e di bon ton che spesso, nonostante tutto, vengono meno mostrando la nostra condizione naturale. Fin dal 1917, Thorstein Veblen rappresento` lo sport come un mezzo di liberazione paragonabile alla guerra. Io sono contrario alla violenza ma se esiste c’è un motivo. Significa che lo sport non è riuscito affatto a sublimarla o a incanalarla come vorrebbero i sociologi dello sport. E se si arriva al punto in cui non c’è più alternativa alla violenza allora, extrema ratio, che almeno venga usata per il bene comune, magari rivalutando l’idea di rivoluzione. Invece, gli ultrà sfogano la violenza all’interno del sistema dello sport-spettacolo venendone fagocitati. Alla fine non ottengono nessun riscatto sociale e restano delle vittime del Grande Gioco.
Parla di sportivizzazione del «loisir». Che cosa vuol dire?
È una questione ben nota a tutti gli studiosi di storia dello sport. La società capitalista e post capitalista pretende di gestire non solo il tempo del lavoro ma anche il tempo libero. Nulla resta disimpegnato. All’inizio, il loisir comprendeva tutte le attività ricreative, poi il sistema ha gettato la maschera ed ha imposto lo sport, sub-directory dello sport-spettacolo, annientando ad esempio l’educazione fisica per tutti che ha subito una «privatizzazione» con il fitness. Contemporaneamente, c’è stata l’industrializzazione del tempo libero, con le vacanze organizzate, in cui nulla è lasciato alla libera iniziativa dei singoli. Rispetto a tutto questo meccanismo, perfino l’ozio è rivoluzionario.
Lei sostiene che oggi la vittoria sia l’unico valore di riferimento a livello sociale. La cura per questa malattia?
Chiediamoci prima di tutto che senso abbia «vincere» sempre e a tutti i costi. E poi, abbiamo veramente bisogno di premi? Dobbiamo rifiutare la competizione cui ci hanno abituati, rigettare le classifiche che dallo sport sono arrivate a contaminare tutti gli aspetti della nostra vita compresa la cultura. Cosa importa sapere quali sono i dischi e i libri primi in classifica? Non ha alcun senso stabilire chi sia il migliore musicalmente o sul piano della scrittura ma le classifiche orientano le scelte del pubblico in una logica strettamente di marketing impedendogli di scoprire da solo ciò che val la pena di essere scoperto, che potrebbe anche non essere il primo in classifica. Tutto questo uccide il mercato della cultura. Occorre fermare questo meccanismo perverso, rigettare soprattutto il marketing che è diventato motore di una guerra continua di tutti contro tutti e in definitiva non può che produrre guerra. Anche quella vera. Quando invece dovremmo tornare a costruire una società fondata sulla collaborazione.
Scrive che il Grande Gioco va smantellato, perché è in gioco la salute mentale dell’umanità. Come si fa a smantellarlo?
Cominciamo prima di tutto a boicottare lo sport spettacolo che rende l’umanità passiva. Invece di assistere al gioco, è meglio, molto meglio, giocare in prima persona. Eliminiamo anche tutte le attività inutili per riappropriarci della nostra vita: che senso ha pagare anche cento euro al mese per camminare su un tapis roulant quando ogni giorno si può fare gratis un giro a piedi intorno all’isolato?
Per lei l’unica cosa che possiamo fare è giocare e oziare. Davvero abbiamo perso la dimensione ludica della vita e dello sport?
Sì, lo sport come sistema non ha più ragione di esistere. Bisogna uscire dagli stadi e tornare al gioco di strada senza pubblico, e senza classifiche. Meglio tornare al gioco vero, anzi meglio far diventare la vita un gioco. Riprendiamoci la nostra esistenza, non lasciamola più gestire da altri. Dobbiamo decidere noi le regole del gioco e, se vogliamo, anche cambiarle di volta in volta, creativamente: perché giocare sempre gli stessi giochi? Come sosteneva Huizinga, il gioco è una cosa leggera eppure maledettamente seria. È tutto qui il senso della vita. In alternativa, c’è anche l’ozio, che non significa affatto non far nulla ma recuperare tutte le attività che possono nutrire il nostro essere: è l’otium dei latini. Loro avevano già capito tutto.
- Intervista di Pasquale Coccia - Pubblicata su Alias del 29 ottobre 2016 -
Nessun commento:
Posta un commento