I greci hanno contribuito in modo sostanziale a formulare un linguaggio della mente e a svilupparne i concetti. Le nozioni greche di mente e identità umana - che da Omero e Platone giungono fino a Epitteto e Plotino - toccano questioni di interesse ricorrente e universale, riguardano il modo in cui descriviamo le nostre esperienze, reali o potenziali, e il modo in cui ci confrontiamo, o dovremmo confrontarci, con il mondo e con noi stessi. Cosa ci accade quando moriamo? Gli esseri umani sono mortali o hanno la possibilità di conseguire l'immortalità? Come sono legate la mente, l'anima e il corpo? Siamo responsabili per la nostra felicità? Perché si è giunti a pensare che la vita migliore è una vita governata dalla ragione, con i desideri e le emozioni subordinate al suo comando? Che cosa ha significato pensare all'intelletto umano nei termini di una facoltà divina? Anthony Long si chiede quando e come queste questioni siano emerse nella Grecia antica, e dimostra quanto i modelli di mente ereditati dai pensatori greci siano ancora efficaci nel cogliere e illuminare la nostra comprensione di noi stessi e delle nostre aspirazioni.
(dal risvolto di copertina di: Anthony A. Long: La mente, l’anima, il corpo. Modelli greci, Einaudi, Pagine 152, e 20)
Omero, Platone e lo stoicismo L’invenzione di mente e corpo
- di Sandro Modeo -
«La scienza senza la filosofia è arida; la filosofia senza la scienza è vuota». Il famoso aforisma di Albert Einstein (come quello gemello per cui «la scienza senza la religione è zoppa; la religione senza la scienza è cieca») rivela sotto la falsa simmetria una critica più acuta e velenosa verso i pregiudizi antiscientifici che verso quelli di senso opposto.
È una critica da tenere in stand-by accostandosi a un libro notevole di uno dei massimi studiosi di filosofia antica, Anthony A. Long, La mente, l’anima, il corpo (Einaudi); una rassegna analitica dei «modelli greci della mente e del sé» (così il titolo originale) estesa lungo mille anni dall’età omerica allo stoicismo di epoca romana. È un percorso condotto infatti con una chiarezza tematica e una trasparenza-eleganza stilistica esemplari (ben restituite nella traduzione di Mauro Bonazzi), ma che rischia di far scontare al lettore un prezzo (troppo) alto di omissioni e arbitrii, se non di una vera distorsione prospettica.
Semplificando, Long accorpa quei modelli in tre fasi storiche coincidenti con altrettante tipologie: oltre alle due citate, campeggia quella centrale della Grecia classica del V-IV secolo a.C. (l’età di Platone), anche se il testo brulica di tante figure intermedie tra le varie fasi. Il modello «omerico» inquadra i personaggi di Iliade e Odissea come «identità psicosomatiche», in cui «stati mentali e stati fisici» sono versanti plastici di un’unità funzionale, rispecchiati in termini ambi o plurivalenti (vedi il thumos per rendere «il pulsare del sangue», ma anche il «carattere» o «il centro di coscienza») spesso usati come varianti o sinonimi secondo le cadenze dell’esametro. Il modello «platonico» rappresenta invece — rispetto a quello omerico — la transizione ontologica verso il «dualismo estremo» (corpo/mente, materiale/immateriale), riassunta da quella terminologica di psyche , tesa a indicare non più funzioni organiche (il «respiro vitale» esalato alla morte) ma l’«anima» incorporea, immortale e di ascendenza divina: un’entità distante anni-luce dalle presenze fantasmatiche dell’Ade omerico. Quanto ai modelli ellenistici e romani, Long parla di «provocazioni» che poi però smussa e vela: riconosce la matrice materialista dell’epicureismo (per cui l’anima è nel corpo), ma ne rimuove ramificazioni letterarie come Lucrezio (con la sua critica della religione) e Luciano (con la sua irrisione dell’Aldilà); così come ricorda i picchi cognitivi dello stoicismo (l’«assenso» in quanto percezione consapevole), ma ne rimarca poi soprattutto le convinzioni sulla matrice divina dell’intelligenza umana. E riconduce l’uno e l’altro — con parziale forzatura — sotto l’eredità platonica.
E qui sta lo snodo-chiave: nonostante si sforzi di presentare il percorso senza progressi lineari — e nonostante neghi personali «inclinazioni o convinzioni teistiche» —, Long enfatizza in modo iperbolico a ogni pagina la centralità platonica e la relativa cesura dualistica (anima vs. corpo). Tutto legittimo, se questo non implicasse, oltre alle smussature citate, una serie di rimozioni in direzione materialistico-naturalistica (Long le chiama «le omissioni più grandi»), con la flebile spiegazione per cui «una volta che la distinzione tra anima e corpo è diventata moneta corrente», i filosofi greci sviluppano il linguaggio della mente «secondo modalità sostanzialmente indifferenti alla costituzione fisica della mente stessa», anche quando pensano che sia «parte del corpo». Si tratta, di fatto, del consueto escamotage per mostrare come si possa rinunciare al «dualismo di sostanza» (quello platonico) ma non a quello «di proprietà» (mente e corpo, pur composti della stessa materia, obbediscono a livelli descrittivi inconciliabili). Escamotage fragile (il dualismo di proprietà è, psicologicamente, una tautologia, o meglio una strategia adattativa selezionata dall’evoluzione); ma con cui si provvede, in questo caso, a un’estromissione radicale della «scienza» greca intesa sia nella sua inseparabilità dalla filosofia, sia — come sostiene Lucio Russo a proposito della «rivoluzione ellenistica» — nella sua autonomia concettuale e metodologica.
Colpisce in particolare, in rapporto alla «mente» e al «sé», la rimozione delle teorie bio-mediche. Pensiamo, in età classica, all’antefatto misconosciuto di Alcmeone di Crotone, che intuisce le differenze funzionali tra vene e arterie e soprattutto riconduce cognizioni e sentimenti al cervello (organo che per Aristotele, un secolo dopo, sarà ancora deputato a raffreddare il sangue); o, va da sé, a Ippocrate e alla sua scuola, con scritti come il De male sacro (sull’epilessia) che liberano il malato dal rapporto colpa morale-punizione divina, riconducendo la malattia a cause puramente naturali. E pensiamo, in età ellenistica — la stessa della geometria di Euclide e del proto-eliocentrismo di Aristarco — a personalità come Erofilo, che, confermando le osservazioni di Alcmeone, descrive nei dettagli il sistema nervoso (in tutto coincidente con la psyche ) e studia per primo i sintomi delle malattie mentali. Ricordando come influenze comuni conducano a strade diverse (il concetto di salute/malattia come equilibrio/squilibrio organico nella scuola ippocratica è attinto dallo stesso concetto di «armonia matematica» di Pitagora che ritroviamo dietro l’«anima razionale» e il «buon governo» di Platone), è impossibile non cogliere nella svolta bio-medica un «modello» cognitivo che va molto oltre l’ambito diagnostico-terapeutico. Un modello che introducendo novità metodologiche (la verifica sperimentale) e desacralizzando (al netto di residui rituali) l’orizzonte psicologico, ridisegna il rapporto tra la mente e il mondo secondo categorie che evitano ogni dualismo (di sostanza e di proprietà) e richiamano semmai in chiave «scientifica» le «unità funzionali» del sublime impressionismo omerico.
In questa prospettiva, la «scienza» greca contiene molte premesse filosofiche di quella successiva. Ed è qui che si insinua il secondo scotoma nella visuale di Long. Il fatto che il libro «attualizzi» il pensiero greco solo in senso dualistico («La loro fisiologia può dirci ben poco sulla nostra esperienza mentale odierna») ha in realtà lo scopo di un arroccamento vetero-umanistico oggi . Quando scrive, nell’incipit, che tuttora non esistono «riscontri scientifici che permettono di decidere, una volta per tutte, se la mente è parte del corpo, o se è invece una sostanza spirituale, oppure un epifenomeno del cervello» (o, subito dopo, che «ancora non sappiamo, scientificamente parlando, cosa sia la coscienza»), Long traduce una rimozione storica in epistemologico-cognitiva.
Eppure, basterebbe conoscere anche solo i rudimenti della teoria del «darwinismo neurale» di Gerald Edelman, degli studi di Antonio Damasio sul rapporto corpo/cervello (o sul ruolo delle aree emozionali nei processi decisionali) e di quelli di Giulio Tononi sui livelli di «integrazione dell’informazione» (corrispondenti a coscienza e inconscio, sonno e veglia) per vedere l’infondatezza di quell’arroccamento. Anzi, in ottica neuroscientifica lo stesso Platone (che per Edelman, a proposito di teoria della mente, «non si può nemmeno dire che si sbagliasse: non è neanche in considerazione») potrebbe essere rivisitato collegando la sua dialettica cognitivo-emotiva ( il «controllo» della ragione sulle passioni) a quella tra regioni corticali e sistema limbico.
Forse ora — riattivandolo dallo stand-by — si può comprendere il senso profondo dell’aforisma di Einstein.
- Sandro Modeo - pubblicato su Il Corriere/la Lettura del 15 maggio 2016
Bibliografia
Con La rivoluzione dimenticata (Feltrinelli, edizione «accresciuta» 2013) Lucio Russo ha ricostruito nei dettagli il «pensiero scientifico greco» maturato nel periodo ellenistico. Il Nobel della Fisica Steven Weinberg sostiene, in un libro tradotto da poco (Spiegare il mondo, versione di Tullio Cannillo, Mondadori, pp. 410, e 28), come la scienza moderna rappresenti una svolta decisiva. Sul pensiero biomedico antico: Gilberto Corbellini, Storia e teorie della salute e della malattia (Carocci, versione rivista 2014)
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