martedì 30 giugno 2015

I peccatori del deficit fra peste e colera

deficit

Eurolandia è ridotta in cenere
L'inflazione vien evitata solo al costo di una deflazione radicale
di Robert Kurz

Gli Stati si trovano sempre più intrappolati nelle contraddizioni della politica monetaria. La crisi economica mondiale viene sopportata solo grazie ad un deficit di bilancio senza precedenti, senza che si intravveda una ripresa auto-sostenuta. Ora, il postulato di una politica di risparmio e di sdebitamento delle finanze pubbliche minaccia di strangolare di nuovo la debole situazione economica. Il direttivo del Fondo Monetario Internazionale flirta con "l'inflazione controllata" al fine di poter continuare a rimandare nuovamente il problema divenuto incontrollabile. Non è per caso che la zona euro si trova al centro della crisi monetaria. L'edificio dell'Unione monetaria ha consegnato alla Banca Centrale comune le vecchie sovranità nazionali con i loro differenti livelli di produttività e le loro diverse e diseguali capacità finanziarie. L'obiettivo era quello di esternalizzare una tale contraddizione interna per mezzo della situazione globalizzata del deficit. Nella misura in cui diminuisce la forza di questa situazione, l'eventuale fallimento nazionale dei paesi finanziariamente più deboli di Eurolandia diventa per l'Unione monetaria una carica esplosiva.

Dopo le garanzie e gli aiuti al sistema bancario in crisi, e dopo i programmi di appoggio alla situazione deficitaria, l'Unione Europea ha varato ora un terzo pacchetto, ancora maggiore, di salvataggio per le finanze pubbliche degli Stati candidati alla bancarotta. E' un'ironia che, in una simile situazione, venga accettata l'Estonia nella Comunità dell'euro e venga elogiata per avere assolto al mantenimento di quei criteri di stabilità che ormai non esistono più. La BCE ha già cominciato a comprare i suoi titoli di Stato senza valore. Però, il problema non consiste nel livello nominale del deficit dei presunti "peccatori", ma nella loro mancanza di solidità finanziaria. Il deficit nominale, calcolato in relazione al prodotto interno lordo nazionale, ad esempio, in Germania è maggiore di quanto lo sia in Spagna. Ma la Germania, finora, ha potuto mantenersi a galla grazie alle sue enormi eccedenze di esportazioni, soprattutto nella zona euro. Già fin dal 2009, gli altri Stati dell'Unione Europea insistono sulla riduzione di questo "squilibrio". Contro tutto questo, è stato detto che la Germania non dev'essere punita per la sua capacità di esportare, ma che sono gli altri che devono creare per sé condizioni simili. Condizioni che consistono, tuttavia, nel fatto che la Germania ha il più grande settore di salari bassi di tutta l'Europa occidentale; situazione che si combina con la sua forza finanziaria. Le eccedenze di esportazione che ne risultano, però, possono essere finanziate soltanto attraverso i deficit dei paesi finanziariamente più deboli.

Ora il serpente si morde la propria coda. Il circuito del deficit intraeuropeo è arrivato da un'impasse e porta alla luce la contraddizione dell'Unione monetaria. L'alluvione incontrollata di denaro da parte della BCE ed il completo abbandono dei criteri di Maastricht hanno intanto portato all'inflazione dell'euro, e non solo, visto che in risposta i bilanci degli Stati si sono di fatto ridotti radicalmente. Al momento, la classe politica ed i media tedeschi sono caduti in uno sciovinismo nazionale contro i "peccatori". A sua volta, la sinistra si lamenta a gran voce del "diktat" imposto dalla Germania nella zona euro e dell'erosione della sovranità nazionale. Questo discorso ideologico non vuole capire che esiste  una mutua interdipendenza. La politica di austerità estrema, messa in moto al fine di salvare l'euro, ha inevitabilmente come risultato uno shock deflazionistico. Se il potere d'acquisto indotto dallo Stato si è prosciugato, l'effetto non è solo la svalorizzazione generale della forza lavoro, ma anche la svalorizzazione del capitale fisso e delle merci della zona euro. Questo dimostra come la forza di esportazione, che si presume autonoma. della Germania, nell'Unione Europea, si regge su dei piedi di argilla.

Il salvataggio dell'euro e del sistema bancario, ad ogni modo già in gran misura dipendente dall'alimentazione via flebo da parte dello Stato, e che ora si basa anche su delle obbligazioni dubbie, avverrà solo al prezzo della della depressione nei paesi dell'euro finanziariamente deboli. Sta già succedendo in Grecia; seguiranno Spagna, Portogallo ed altri paesi. Il risultato può essere soltanto un'esplosione della disoccupazione di massa in Germania, che si andrà a ripercuotere sul resto dell'Unione Europea. Una politica di austerità a tutti i costi nei paesi dell'euro con saldo commerciale negativo, che equivale al collasso dell'economia di esportazione tedesca, minaccia di mettere il budget limitato dello Stato tedesco nella stessa situazione in cui si trovano i peccatori del deficit. In quanto la forza finanziaria si trasforma in debolezza finanziaria. Se si verificano le conseguenze deflazionistiche dovute al diktat del risparmio, una nuova giravolta porterà ad una combinazione caotica di tendenze deflazionistiche ed inflazionistiche (stagflazione). Il governo della Merkel non è in grado di imporre i propri interessi all'Unione Europea, ma ondeggia nella scelta fra peste e colera. E neppure il tempo può andare a ritroso, verso uno spazio economico e monetario nazionale, nel senso dello sciovinismo del marco tedesco, che era basato sempre su un orientamento unilaterale verso l'esportazione. Riportato alla sua propria economia nazionale, lo splendore tedesco finirebbe per spegnersi del tutto. Le contraddizioni interne all'Unione Monetaria Europea sono un catalizzatore per una seconda ondata di crisi.

- Robert Kurz - Pubblicato su "Freitag" del 20/5/2010 -

fonte: EXIT!

lunedì 29 giugno 2015

La seconda ondata

lavoroautomobile

Intervista di Peter Jellen. della Rivista Online "Telepolis", a Robert Kurz, del 18 e 19 luglio del 2010

Peter Jellen: Mr. Kurz, negli ultimi tre anni, la crisi economica ha dato luogo a tre fasi di trasformazione: dalla crisi del settore immobiliare alla crisi finanziaria, dalla crisi finanziaria alla crisi economica e dalla crisi economica alla crisi monetaria. Fino a che punto è possibile spiegare questi tre fasi della scalata della crisi per mezzo del suo concetti di crisi economica generale del capitalismo?

Robert Kurz: Queste tre fasi costituiscono soltanto l'apparenza dei fenomeni. La crisi del settore immobiliare è stata il detonatore di una crisi dell'indebitamento e finanziaria che era latente già da molto tempo. Essa non ha avuto origine nei cosiddetti eccessi speculativi, in contrasto con un'economia normale di per sé "sana", al contrario, sono state le bolle del debito e le bolle finanziarie ad essere il risultato di una mancanza di valorizzazione reale del capitale. In primo luogo, la sovrastruttura del credito non è assolutamente un fattore esterno, ma è piuttosto parte integrante della produzione capitalista di merci, e si trova ad essa mischiata. Negli ultimi vent'anni, questo rapporto interno è aumentato, fino alla dipendenza strutturale della cosiddetta economia reale nei confronti dei mercati finanziari. Per questo la crisi finanziaria ha finito per portare ad un crisi storica dell'economia.
Tutt'e tre i momenti, tutt'e tre le fasi, erano già presenti nel susseguirsi serrato della crisi, e questo fin dalla prima insolvenza del Messico nel 1982. All'inizio sembrava che si trattasse di un debito della periferia, ma a quel punto aveva già raggiunto i centri capitalistici. All'inizio degli anni 90 era intanto scoppiata la bolla immobiliare giapponese e l'indice Nikkei era sceso di un quarto, rispetto al suo picco. Fino a tutt'oggi, il Giappone non si è ripreso dalla crisi bancaria né dalla stagnazione economica interna che ne è seguita. Alla metà degli anni 90 è esploso l'indebitamento in valuta straniera (dollari) delle Tigri Asiatiche, che ha portato ad una crisi monetaria e ad una forte recessione. Fenomeni simili si sono potuti osservare nelle crisi finanziarie della Russia, alla fine dell'era Yeltsin, e dell'Argentina, alla fine del secolo scorso. Nel 2001 è scoppiata in tutto il mondo la bolla Dotcom e sono spariti dagli schermi i "nuovi" mercati, con la loro capitalizzazione borsistica astronomica delle piccole imprese di Internet, cosa cha ha portato con sé una recessione globale. Tutte queste crisi hanno avuto una cosa in comune: erano limitate ad una regione del mondo, oppure ad un settore, e per questo sembravano controllabili, soprattutto per mezzo della politica dei bassi, o nulli, tassi di interesse da parte delle banche centrali, cosa per cui il Giappone aveva fornito il modello. Questo fiume di denaro da parte delle banche centrali, in particolare dalla FED nordamericana, non solo ha prodotto la più grande bolla immobiliare di tutti i tempi, ma ha anche così alimentato un'inaspettata situazione di deficit, che si è riflessa principalmente nel circuito del deficit del Pacifico, fra gli Stati Uniti e la Cina, circuito che era riuscito per alcuni anni a mantenere l'economia mondiale. Poi, all'inizio dell'estate del 2008, gli istituti economici hanno estrapolato la crescita dei successivi decenni, nonostante fossero tutti consapevoli degli "squilibri" esistenti nella strada a senso unico delle esportazioni che seguivano la via del Pacifico. Ma il problema venne minimizzato e non fu preso sul serio, e si evitò di tener conto della realtà apparente di una "crescita indotta finanziariamente".
Il fallimento della Lehman Brothers, nell'autunno del 2008, portò alla luce del giorno il fatto che l'economia globalizzata delle bolle finanziarie era in realtà del tutto esaurita. La reazione a catena globale che provocò questo, colpì simultaneamente non solo tutti i centri, ma fino all'ultimo angolo del sistema mondiale, dall'Islanda al Kazakistan. L'economia globale basata sul deficit era rimasta senza carburante. E' per questo che non è stato possibile dominare una simile rottura per mezzo di un'inondazione addizione di denaro da parte delle banche centrali. Dappertutto ha dovuto intervenire il debito pubblico, in una dimensione che ha superato perfino quella delle precedenti economie di guerra. I pacchetti di salvataggio per il sistema bancario non hanno sanato i bilanci, li hanno solamente tenuti a galla temporaneamente. Programmi pubblici addizionali di stimolo all'economia, dello stesso ordine di grandezza, hanno potuto impedire di fatto il crollo totale, ma il problema è stato solamente dislocato dalle bolle finanziarie alle finanze pubbliche.
Le conseguenze si sono fatte notare in primo luogo con la minaccia del fallimento della Grecia e con una correlata crisi dell'Unione Monetaria Europea. La Grecia è l'anello più debole della zona euro e la zona euro, a sua volta, è l'anello più debole del sistema monetario internazionale, in quanto l'euro è stato imposto, come moneta artificiale, a livelli di produttività nazionali del tutto diversi fra loro e con una diversa forza finanziaria, ed era adatto solamente alla corrente di esportazione unilaterale di un'economia basata sul deficit. Questa crisi monetaria, tuttavia, ha anche una qualità diversa rispetto alle precedenti; è il preannuncio di una crisi generale delle finanze pubbliche, che andrà a colpire non solo i paesi centrali europei, come la Germania, la Francia e l'Inghilterra, ma anche gli Stati Uniti e la Cina.
Attualmente, si ama credere che i pacchetti di salvataggio serviranno a ripristinare la "fiducia" nel precario sistema finanziario, e che le montagne di crediti inesigibili torneranno ad essere titoli negoziabili, grazie agli enormi programmi di stimolo economico che dovrebbero innescare la "ripresa" di un'economia mondiale auto-sostenuta. Questo discorso di fine-allarme, che si aggrappa all'apparenza dei fenomeni e che viene insinuato trimestre dopo trimestre, ha fatto i conti del droghiere relativamente alle leggi sistemiche capitaliste soggiacenti. Il processo di crisi in corso a partire dal 2008 non è solo il culmine globale delle manifestazioni di crisi parziale degli ultimi trent'anni, al contrario, è anche completamente diversi da tutte le precedenti crisi cicliche o strutturali.
E' maturata così la secolare auto-contraddizione interna della valorizzazione del capitale, che può essere descritta per mezzo di due fasi. In primo luogo, lo sviluppo della produzione, forzato dalla concorrenza, attraverso l'applicazione della scienza alla produzione, ha fatto sì che la percentuale di capitale fisico (macchine, ecc.) fosse sempre più grande in rapporto alla parte di forza lavoro. Per poter utilizzare una sola singola forza lavoro produttiva di capitale, si è reso necessario mobilitare un aggregato materiale sempre più grande (aumento dell'intensità del capitale). In questo modo, i costi morti della valorizzazione del capitale sono cresciuti in misura tale che diventavano sempre meno finanziabili per mezzo dei profitti correnti (le macchine trasferivano soltanto valore prodotto precedentemente, ma non creavano alcun valore). Il risultato venne ad essere un'espansione storica, a tutti i livelli, del sistema di credito (imprese, Stato, privati). Al fine di poter produrre plusvalore attuale, è stato necessario anticipare ogni volta sempre più plusvalore futuro, sotto forma di credito. Una tale contraddizione era sopportabile fino a quando il debito poteva essere ottenuto a partire dalla produzione corrente di plusvalore reale. Con la terza rivoluzione industriale della microelettronica a partire dalla fine degli anni 1970, tuttavia, questo meccanismo di compensazione è venuto meno; la forza lavoro produttrice di plusvalore reale è stata successivamente razionalizzata, in una nuova dimensione storica. Così, le catene di credito, fondate su un futuro sempre più distante, si sono trovate minacciate di rottura e si sono effettivamente rotte in sempre più luoghi. Non è per caso che l'avvento della terza rivoluzione industriale coincida con l'inizio di questa serie di crisi finanziarie, economiche e monetarie, che ha raggiunto oggi il suo culmine.
La cosiddetta rivoluzione neoliberista non è stato un progetto politico soggettivo, ma una fuga in avanti, rispetto al problema oggettivo della mancanza di produzione di plusvalore reale. Il che ora viene rappresentato ingenuamente come errore storico, ossia, l'ampia deregolamentazione dei mercati finanziari era, di fatto, l'unica forma possibile per ritardare il collasso del sistema mondiale. La valorizzazione del capitale è stata virtualizzata sotto la forma di un "capitale fittizio" oramai insuscettibile di essere coperto per mezzo della sostanza del valore reale; l'economia basata sul debito si è trasformata in un'economia di bolle finanziarie (azioni ed immobili), con derivati sempre più avventurosi. Questa relazione si è sviluppata nel corso di più di due decenni, in un'economia reale deficitaria, senza precedenti nella storia capitalista. La congiuntura economica del deficit deve, pertanto, essere così designata perché la valorizzazione apparente non rimane, come nelle precedenti bolle a breve termine, nel cielo finanziario, ma viene destinata, come potere di acquisto non sostanziale, al consumo delle classi medie (nonostante la caduta dei salari reali), così come all'investimento nell'economia reale, essa stessa diventata irreale secondo i criteri capitalistici, stimolando in questo modo la congiuntura economica globale. I milioni di posti di lavoro apparentemente reali nelle industrie volte unilateralmente all'esportazione sono un'illusione ottica, poiché la vendita dei loro prodotti non si basa su profitti e salari reali, ma viene alimentata a partire da una sovrastruttura di credito divenuto dubbio e di bolle finanziarie.
Dal momento che il fiume di denaro delle banche centrali, che ha consumato la sua rottura con la dottrina monetarista del neoliberismo (limitazione della massa monetaria), è stata una disperata misura di emergenza. La recente dislocazione del problema verso il debito pubblico che di certo non risolve il problema, spinge soltanto verso il collasso, che si spera arrivi a breve. In nessun luogo si vedono nuovi potenziali di valorizzazione reale, per i quali i programmi pubblici di stimolo economico possano funzionare da detonatori. Così, il legame interno fra crisi finanziaria, economica e monetaria si rivela come barriera storica intrinseca al capitale, al livello, da esso stesso generato, di sviluppo delle forze produttive e dell'applicazione della scienza alla riproduzione. Il grado di socializzazione negativa raggiunto (sulla base del lavoro e della concorrenza) non può più essere inquadrato nelle categorie capitalistiche.

Peter Jellen: Quali sono ora i rischi dell'inflazione o della deflazione?

Robert Kurz: Inflazione e deflazione sono solo due diverse forme della svalorizzazone degli stati di aggregazione del capitale. La disoccupazione strutturale di massa, la precarizzazione e i bassi salari su scala mondiale, come risultato della terza rivoluzione industriale, hanno già portato ad una svalorizzazione deflazionaria della merce forza-lavoro, ossia, secondo Marx, della componente "variabile" del capitale (la sola che produce nuovo valore). Il rovescio è stato l'economia delle bolle finanziarie, la costruzione di diritti o crediti non sostanziali e, pertanto, fittizi, come l'inflazione degli attivi (asset inflation). La catena globale di questa inflazione degli attivi può mantenersi per molto tempo, senza trasformarsi in una grande svalorizzazione del suo stesso mezzo che è il denaro, in quanto si estende attraverso molte zone monetarie. Nonostante questo, tale svalorizzazione era prevedibile nella fase finale dell'ultima congiuntura del deficit, quando i tassi di inflazione in molte economie emergenti, inclusa la Cina, si avvicinavano al 20% e ci si attendeva, negli Stati Uniti, un tasso dal 6 al 10%. In fin dei conti, la creazione di potere d'acquisto senza sostanza, attraverso le bolle finanziarie, nonostante le loro complesse vie di mediazione globale, aveva portato al medesimo risultato finale del ricorso classico alla stampa di moneta.
Tuttavia, questo scenario era lontano quando il crollo dei mercati finanziari fece bruciare, in un colpo solo, miliardi di dollari e di euro di attività fittizie, o li rimandò nelle casse delle banche sotto forma di titoli tossici, realmente senza valore, ma garantiti dagli avalli statali, e che vennero contabilizzati fuori dal bilancio. L'inflazione degli attivi non si trasformò in inflazione di denaro, ma in deflazione degli attivi. Dal momento che, in questo modo, il meccanismo finora esistente dell'economia di deficit era velocemente arrivato ad un'impasse, bisognava che seguisse una riduzione ugualmente rapida dell'eccesso di capacità globale della produzione (in particolare nell'industria automobilistica), che era stato costruito soltanto grazie al potere d'acquisto fittizio, a partire dalle bolle di indebitamento e di finanziamento; quindi, una svalorizzazione generalizzata del capitale fisso nelle fabbriche (mezzi di produzione) e del capitale di merci sul mercato (merci invendibili), associata ad un nuovo focolaio di svalorizzazione della forza-lavoro (licenziamenti collettivi). Fino ad ora continua di fatto un'onda globale fallimenti, ma la deflazione del capitale fisso e del capitale in merci può essere rallentata temporaneamente grazie ai giganteschi programmi statali finanziati a credito. Sia nel settore finanziario come nel settore produttivo è stato, così, impedito il famoso "risanamento", contro le tanto amate leggi di mercato, poiché, in assenza di nuovi potenziali di valorizzazione reale, dopo questo "risanamento" rimarrebbe soltanto un deserto economico.
La rimozione dell'eccesso di capacità, tuttavia, è stata solamente ritardata; verrà eseguita, in un futuro prossimo, dalla crisi delle finanze pubbliche. Tutti i programmi di stimolo e di aiuto economico sono, in ultima analisi, consumo pubblico improduttivo, sebbene, con essi, le imprese che sono sotto i riflettori vengono mantenute in vita per mezzo della respirazione artificiale. Lo Stato avrebbe dovuto fornire il credito per questo consumo attraverso la tassazione (imposte) sui profitti e sui salari, a partire dalla produzione di plusvalore reale. Ed è qui che il serpente si morde la coda, in quanto tutta la manovra si rende necessaria solamente proprio perché la produzione di plusvalore reale ormai non avviene con un volume sufficiente. L'ultima ratio in una situazione così disperata equivale a lavorare alla stampa di denaro, così come avviene, com'è noto, nell'economia di guerra, ora però con la finalità di prolungare artificialmente la vita del modo di produzione capitalistica.
Le banche hanno già chiuso alcune valvole di sicurezza, accettando parzialmente come "garanzie", contro le loro stesse regole, titoli tossici delle banche, o comprando titoli pubblici, potenzialmente senza valore, dei candidati alla bancarotta nazionale (BCE). In questo modo, da un lato, si aumenta lo sviluppo di un enorme potenziale di inflazione, ossia, la svalorizzazione dello stesso mezzo capitalista che è il denaro, dal quale partono tutti gli stati di aggregazione del capitale e nel quale essi devono essere convertiti. Una volta che l'inondazione di denaro dei pacchetti di salvataggio e programmi di stimolo pubblici viene iniettata direttamente nelle rispettive zone monetarie (al contrario dell'inondazione di denaro delle banche centrali verso i mercati finanziari trans-nazionali), il periodo di incubazione per la realizzazione del potenziale inflazionistico è molto minore rispetto a quello dell'economia trans-nazionale delle bolle finanziarie. Come contropartita, si evita, proprio per questo, di accendere la stampante di denaro. L'attuale relativa stabilizzazione, ad un grado inferiore rispetto a quello dei tempi del boom della congiuntura del deficit, viene supportata unicamente attraverso i programmi pubblici; tenendo in conto la situazione reale della valorizzazione, lo Stato dovrebbe sovvenzionare permanentemente l'economia, e questo sarebbe possibile soltanto per mezzo della stampa di denaro. Di conseguenza, i programmi di risparmio e le operazioni di soccorso si neutralizzano a vicenda.
Questo dilemma rimarrà costante. L'impatto di queste misure, che si escludono a vicenda, avrà come conseguenza il fatto che, semplicemente, la deflazione e l'inflazione si annullerano reciprocamente e si dissolveranno nell'aria. Dal momento che, sia nel caso dell'inflazione (in riferimento al denaro in quanto tale), sia nel caso della deflazione (in riferimento alla forza-lavoro, alle attività monetarie, al capitale fisico ed al capitale di merci), si tratta soltanto di differenti forme di svalorizzazione degli elementi della riproduzione capitalista, si potranno, dapprima, anche verificarsi simultaneamente. Questo sarà tanto più vero se la politica monetaria ed economica, guidata dalla necessità, oscillerà tra opposizioni contraddittorie. Già alla fine degli anni ottanta si sono verificate simultaneamente, come prima conseguenza della mancanza di valorizzazione reale, stagnazione deflazionaria e inflazione crescente (stagflazione). Questo è avvenuto proprio a causa della rivoluzione neoliberista, la quale, tuttavia, come economia deregolata di bolle finanziarie, ha ottenuto solamente un rinvio storico. Ora il problema di allora si ripresenta su una scala assai maggiore di contraddizioni interne. E' possibile, pertanto, sia uno shock inflazionistico che uno shock deflazionistico, se l'orientamento sarà completamente verso una delle opzioni in conflitto, oppure un periodo di stagflazione, con oscillazioni molto più violente di quelle occorse nei trent'anni precedenti, se entrambe le opzioni si alterneranno, con misure mutuamente escludenti in rapida successione.

Peter Jellen: I critici del neoliberismo accusano i politici tedeschi, nel caso della crisi del bilancio greca, di strangolare il concetto di Stato sociale per mezzo delle imposizioni di risparmio del FMI, tentando di imporre soluzioni assurde. Lei concorda con i critici, oppure, secondo la sua opinione, una simile valutazione evita il cuore del problema?

Robert Kurz: Una mera critica del neoliberismo (come nel caso di ATTAC o di gran parte della sinistra) è tronca, in quanto non penetra il funzionamento interno della crisi, ma vorrebbe assistere soltanto ad una politica economica illusoria. Tutto questo è collegato alla speranza di una svolta keynesiana, che riporti ad un capitalismo "buono", con investimenti in posti di lavoro e con i bonus da parte dello Stato sociale. Si tratta di sogni idealisti che, di fatto, non affrontano il cuore del problema, poiché sia la dottrina neoliberista che la dottrina keynesiana presuppongo ugualmente, in maniera cieca, il modo di produzione capitalista, con le sue categorie e criteri. Ma, sotto le condizioni qualitativamente nuove della crisi, è lo stesso modo di produzione dominante  a costituire il problema. Il keynesismo sta ritornando solamente come gestione della crisi e dello stato di emergenza, ossia, come continuazione del neoliberismo con altri mezzi. Quindi può soltanto aggravare le contraddizioni interne.
E' vero, tuttavia, che non sono solo i politici tedeschi a stravolgere le relazioni e a cercare soluzioni assurde; anche la vana speranza di uno Stato sociale keynesiano ri-regolato è in sé un approccio assurdo. Dove sta l'assurdo? Oltre al grande circuito del deficit del Pacifico, c'è stato anche un circuito minore del deficit europeo, per cui l'euro in realtà è stato concepito, e in verità è stato concepito nell'interesse della Germania. Le enormi eccedenze di esportazione tedesca sono state inviate per il 40% verso l'Unione Europea, ed in particolare verso la zona euro. Queste eccedenze sono la contropartita dei deficit commerciali e dei servizi dei paesi dell'Unione Europea, soprattutto quelli del sud dell'Europa. Questi sono stati oggetto di concorrenza sleale, con l'aiuto dell'euro, in quanto hanno cessato di avere compensazioni per mezzo della svalutazione delle monete nazionali. Dal momento che, in tutto il mondo, la rianimazione relativamente debole dell'economia di deficit viene supportata trasferendo il problema dell'economia delle bolle finanziarie verso il credito pubblico, adesso i deficit di bilancio dei paesi europei vicini costituiscono il rovescio di gran parte dell'ascesa delle esportazioni tedesche.
Le élite tedesche non vogliono riconoscere questa relazione, e neppure i presunti vantaggi nelle esportazioni. Qui si inquadra, al di à dell'unione monetaria, il fatto che la Germania, a partire dal piano Hartz IV e non solo, dispone del maggior settore di bassi salari in Europa, ed il fatto che i salari reali in questo paese, con l'appoggio ancora attuale dei sindacati, si siano abbassati più rapidamente che altrove. Il costante aumento delle eccedenze di esportazione, su questa base, ha portato ad una relativa solidità finanziaria della Germania. Ma ora le basi di questo modello vengono messe in discussione. All'interno dell'Unione Europea, si manifesta un conflitto fra i paesi con deficit e la Germania. Anche sulla scala più grande delle relazioni transatlantiche, si sono invertiti i fronti della politica economica. Gli Stati Uniti, i paesi con un deficit maggiore, così come gli europei del sud, esigono che la Germania desista da qualsiasi politica di risparmio e dia impulso al consumo interno per ridurre gli squilibri. Il mondo è a testa in giù: il vecchio pioniere del neoliberismo ora esige una politica economica diametralmente opposta, assumendo un ruolo che i sindacati tedeschi non ritengono di essere capaci di assumere. Questo sembra andare incontro alle speranze keynesiane, ma rimane divertente, nella misura in cui forzerebbe soltanto l'opzione inflazionistica. Per far fronte al dilemma, sia il Comitato Esecutivo del FMI che gli Stati Uniti e parte dell'Unione Europea amoreggiano con l'idea di una presunta "inflazione controllata"; ma, considerata la situazione economica, ben presto si perderebbe il controllo.
La contraddizione interna dell'Unione monetaria europea si è già acutizzata a tal punto che, recentemente, si è resa necessaria una gigantesca azione di salvataggio delle finanze pubbliche greche, cui potrebbero seguire altri (Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda ed Europa Orientale). Non si è trattato di un qualche aiuto disinteressato verso la Grecia, ma semmai di un'operazione di appoggio soprattutto alle grandi banche tedesche e francesi, che non riescono a sbarazzarsi di migliaia di milioni di titoli di Stato greci, la cui svalorizzazione provocherebbe nuovamente un collasso del sistema finanziario. Questo piano di salvataggio provvisorio ha lo stesso carattere dei pacchetti di salvataggio successivi allo scoppio delle bolle finanziarie, ora in termini di finanza pubblica. La misura si applica solo al problema dei titoli di debito pubblico già collocati. Per evitare la possibilità dell'inflazione, la Germania assume ora la posa del padre di famiglia che pretende di condannare i greci ed altri peccatori indebitati forzandoli a violenti programmi di risparmio. Tuttavia, se questi venissero realmente messi in pratica, anche il miracolo dell'esportazione tedesca si interromperebbe per sempre. Questo è l'altro lato dell'assurdo. Lo sciovinismo dell'esportazione tedesca ha i piedi di argilla, in quanto si basa proprio sul deficit degli altri.
Non si può sfuggire a questo dilemma. Le élite, naturalmente, in fondo sono consapevoli di questo. Le dimissioni, con deboli scuse, dei titolari delle alte cariche politiche, ultimamente del Presidente federale tedesco Köhler, sono un indizio del fatto che, dietro le quinte dell'ottimismo ufficiale professionale, le cose rimangono abbastanza difficoltose. Questo potrebbe ripetersi in altri paesi. Una classica uscita dal problema in stile Helmut Kohl non è più possibile. Quindi, si perseguono idee di soluzioni contraddittorie, le quali devono sempre tener conto dei sondaggi elettorali, mentre non si arrivi ad una dittatura di emergenza o si scateni una lotta generale. Il modo di produzione capitalista non può essere messo in discussione, quindi, come nella prima fase della crisi finanziaria, si va alla ricerca dei colpevoli. La lotta interna al governo nero-giallo non è specifica dei suoi partiti, al contrario, data la situazione problematica, si ripete in ogni coalizione. Non stupisce che alcuni combattenti gettino la spugna.

Peter Jellen: Ci può dare un'opinione su quello che succederà nel futuro prossimo?

Robert Kurz: Dal momento che le politiche monetarie ed economiche sono contraddittorie, nei prossimi anni c'è da aspettarsi una seconda ondata di crisi economica globale. La quale potrebbe avere come punto di partenza la prova del fuoco dell'Unità Monetaria Europea. In casi come quello della Grecia, si tratta, formalmente, di uno scenario simile a quello sofferto dall'Argentina più di dieci anni fa. Ma la crisi dell'Argentina era limitata ad un solo paese che era quasi senza peso nell'economia mondiale. Assai diverso è il caso che minaccia il fallimento di uno Stato dentro la zona euro, in quanto ciò potrebbe gettare nel baratro tutta l'Unione Europea. Il collasso del circuito del deficit europeo arriverebbe all'osso dell'economia di esportazioni tedesca e verrebbe quindi meno l'attuale forza finanziaria della Germania. Questo significherebbe grandi fallimenti di massa e licenziamenti che finora in questo paese sono stati evitati, e non solo. Anche le finanze pubbliche tedesche, comunque già indebitate, arriverebbero ad una situazione simile all'attuale situazione delle finanze pubbliche greche, se, dopo il crollo delle esportazioni unilaterali, dovesse crollare anche il rating di credito sui mercati finanziari. Un tale sviluppo sarebbe un disastro non solo per tutto lo spazio europeo, ma anche per la situazione economica globale, vista l'importanza dell'Europa nell'economia mondiale.
La situazione non è migliore nel grande circuito del deficit del Pacifico, fra Cina e Stati Uniti. Lì, da entrambe le parti ci si aspetta che gli altri creino le condizioni per una maggiore stabilità. I programmi governativi di stimolo ed i sussidi, negli Stati Uniti, hanno realmente contrastato, in parte, la caduta dei consumi, sebbene non sia stato possibile raggiungere nuovamente il periodo precedente la crisi; ma questo è avvenuto al costo per cui il credito pubblico finanziato dall'esterno ha raggiunto i propri limiti, ed è emersa la prospettiva per cui è stato messo in discussione il finanziamento della macchina militare e delle missioni di guerra, che sono la garanzia della posizione di potenza mondiale. Gli Stati Uniti esigono dalla Cina una rivalutazione da tempo ritardata della sua moneta nei confronti dei paesi con un'eccedenza di esportazioni e, come avviene in rapporto alla Germania, un rafforzamento del consumo interno finanziato dal debito, al fine di diminuire lo squilibrio dei flussi commerciali e rafforzare le sue proprie esportazioni, le quali devono compensare il debole consumo interno. Ma, nella maggior parte dei settori industriali, non hanno la capacità di esportazione necessaria, la cui costruzione richiederebbe elevati costi di investimento. Inoltre, dovrebbero essere ridotte le corrispondenti capacità in Cina, in quanto le imprese degli USA, così come le imprese europee e giapponesi, hanno investito pesantemente in Cina, grazie al vantaggio dei costi, al fine di rifornire il proprio mercato e quello degli altri.
Ma la Cina, da parte sua, come la Germania, non vorrebbe rinunciare al suo vantaggio nelle esportazioni, che si basa sul lavoro a basso costo su una moneta sottovalutata artificialmente, perché in entrambi i casi tutta l'economia è rivolta alle esportazioni unilaterali. Un cambiamento richiederebbe anni, se non decenni, e andrebbe a sbattere ancora più rapidamente contro i propri limiti, in quanto tali squilibri ed il suo fragile finanziamento a credito costituiscono ormai proprio l'elisir di lunga vita della situazione economica globale. E' vero che la Cina, con il suo fondo di enormi riserve di valuta, ha lanciato il maggior programma di stimolo economico di tutto il mondo e di tutti i tempi, avendo obbligato le sue banche a prestiti massicci. E' per questo che non può permettersi qualsiasi seria correzione monetaria, in quanto significherebbe svalutare le sue riserve di valuta massicciamente accumulate. I programmi di stimolo economico della Cina rafforzano il consumo interno solamente in forma indiretta, e non nella misura necessaria a trainare l'economia mondiale, come avveniva prima con il consumo degl Stati Uniti, finanziato esternamente. La maggioranza dei programmi scorre verso le infrastrutture e verso le capacità di produzione aggiuntive, tutte orientate a far ripartire la macchina dell'esportazione unilaterale. Se non fosse così, allora la Cina verrebbe rovinata da enormi investimenti, con relative conseguenze per il sistema finanziario. Inoltre, la Cina non può sostenere un programma di questo tipo e, simultaneamente, continuare a comprare titoli del tesoro statunitense nella stessa misura in cui lo ha fatto finora.
Pertanto, nella zona del Pacifico si ripete il dilemma europeo su scala maggiore. Entrambi i circuiti di deficit attualmente camminano verso la frana, che continua ad essere arginata, grazie al fiancheggiamento dell'economia interna, alimentata al costo di programmi pubblici di stimolo economico. Se questi finissero, ci sarebbe il rischio del crollo. La seconda ondata di crisi globale potrà venire tanto dalla regione del Pacifico, quanto dall'Europa, oppure da entrambe le parti nello stesso tempo. Tutte le storie a proposito dell'attuale successo sono soltanto delle istantanee, simili a quelle all'auge dell'economia globale di deficit, fra il 2007 e l'estate del 2008. Attualmente, le percentuali di successo della crescita e delle esportazioni sono ancora più dubbie di allora, in quanto partono da un livello iniziale assai inferiore, dopo la caduta della situazione economica mondiale. Il pensiero positivo resiliente marcia verso la sua Waterloo, che è vicina. La questione è solo quella di sapere quale periodo di incubazione richiede questa volta la nuova situazione contraddittoria, prima di scaricarsi. Cosa che può essere una consolazione per il pensiero a breve termine dell'economia di mercato, il cui orizzonte non va al di là del proprio naso.

Intervista pubblicata sulla Rivista "Telepolis" del 18 e del 19/7/2010

fonte: EXIT!

domenica 28 giugno 2015

Troppo presto, o troppo tardi?

crisi

Ancora una volta si pone la questione
Quando scoppierà la grande bolla di liquidità in cui si trova il sistema finanziario mondiale?
di Tomasz Konicz

Serve a qualcosa continuare a stendere rapporti per l'analisi del mercato finanziario? Ad ogni modo, il noto sito di notizie statunitense "Business Insider" ha avvertito, in seguito alla lettura del "Global Financial Stability Report" del Fondo Monetario Internazionale (FMI), pubblicato nel mese di Aprile, che tale rapporto sullo stato dei mercati finanziari mondiali "non era adatto ai cardiopatici". L'FMI constatava, a partire dall'ottobre del 2014, un aumento dell'instabilità del sistema finanziario mondiale, in parallelo con un dislocamento dei "rischi di instabilità" verso quelle zone che sono difficili da rilevare. Sta avvenendo un dislocamento dalle "economie avanzate verso le economie emergenti, dalle banche verso le banche-ombra e dei problemi di solvibilità verso i problemi di liquidità".

L'FMI concludeva che i "mercati possono diventare sempre più vulnerabili ad episodi in cui la liquidità sparisce e si innesca la volatilità". Come esempi della crescente instabilità strutturale del sistema finanziario globale, il rapporto menzionava le distorsioni scatenate dall'abolizione del legame del franco svizzero nei confronti dell'euro, avvenuta nel gennaio del 2015, così come parlava dell'improvvisa picchiata delle obbligazioni a dieci anni del Tesoro degli Stati Uniti, nell'ottobre del 2014, il cui collasso è stato comparabile alla reazione al fallimento di Lehman Brothers nel 2008. Queste turbolenze nei mercati sono state rafforzate soprattutto dall'enorme "ritiro del sostegno alla liquidità", avvertiva l'FMI.

Parlando chiaramente: sotto la superficie della "normale" attività di mercato, lo scetticismo e la sfiducia si stanno diffondendo fra i soggetti che sono coinvolti, in quanto esiste l'idea dell'insostenibilità della dinamica dell'attuale speculazione - a causa della bolla di liquidità scatenata dalla politica monetaria espansionista delle banche centrali. Ciascun attore del mercato finanziario deve partecipare per più tempo possibile nel corso del boom, ma allo stesso tempo deve accrescere la sua disponibilità ad uscire il più velocemente possibile quando arriva la turbolenza. Perciò, possono avvenire anche eventi limitati di onde d'urto maggiori che attraversano tutto il sistema, come osservava il Business Insider: "Quando, nei momenti di maggior volatilità, si prosciuga la liquidità del mercato, l'estensione e la portata dei movimenti di mercato si rafforza". Quello che qui avviene è il ritorno della costellazione della crisi finanziaria globale del 2007/2008, quando i mercati "congelarono", dopo lo shock di Lehman Brothers, e i prestiti sul mercato interbancario rimasero quasi paralizzati, poiché gli attori del mercato finanziario non si fidavano più l'uno dell'altro.

Da allora, in particolare la politica monetaria degli Stati Uniti ha rifornito al massimo grado il sistema finanziario mondiale, con una liquidità sempre nuova, cosa che - al di là della politica prolungata del tasso zero - ha portato alla maggiore emissione monetaria mai avvenuta nella storia dei cinque secoli del sistema capitalista mondiale. La banca centrale statunitense, la Fed, ha comprato sul mercato finanziario, fra il 2009 e l'ottobre del 2014, titoli per un "valore" di 3,5 miliardi di dollari, con cui, nel breve termine, si è riuscito realmente a stabilizzare il sistema. L'inizio dell'azione di emissione monetaria, chiamata "quantitative easing", è stato altrettanto controverso della decisione di ridurre lentamente tale emissione, a partire dalla fine del 2013, fino a smettere del tutto, come ha riassunto la Bloomberg in un rapporto: "Si è discusso a lungo se la Fed avesse ridotto troppo presto (il programma di acquisto delle obbligazioni), data la debolezza economica globale, o troppo tardi, rispetto ai segni di formazione di bolle su molti mercati."

Da questo commento traspare l'impasse sempre più evidente della politica capitalistica rispetto alla crisi, dal momento che le élite funzionali della politica e delle imprese sono diventate da molto tempo giocattoli della dinamica di crisi e sono in grado solamente di determinare strade diverse per i nuovi sviluppi della crisi stessa: sul piano della politica monetaria, la scelta apparente è quella fra politica monetaria espansiva e restrittiva, optando solo fra gonfiare nuove bolle e innescare la "fuga di liquidità" - insieme al rischio del "congelamento" dei mercati. Pertanto non è per caso che per l'FMI l'instabilità del sistema finanziario mondiale sembra crescere soltanto a partire dal momento in cui la Fed ha stabilito la sua "flessibilizzazione quantitativa". E' per questo che nel "Global Financial Stability Report" si possono trovare molti avvertimenti sia a proposito della politica monetaria espansionista, la quale porta a formazione di bolle, sia a proposito della sua cancellazione, in quanto questo potrebbe portare ad una "tempesta di volatilità", come viene definita dal Wall Street Journal in un articolo sulla relazione del FMI.

In questa aporia della politica di crisi capitalista, per inciso, viene rappresentata anche la disputa senza fine fra keynesiani e neoliberisti a proposito della politica economica, che vede entrambe le parti litiganti criticare a ragione le ricette della parte avversa: è ovvio che i programmi di stimolo finanziati dal debito, dei keynesiani, mantengono funzionante il sistema per poco tempo come una sorta di "fuoco d'artificio" - ed è ugualmente ovvio che i programmi neoliberisti di austerità portino i paesi al collasso socio-economico. L'unica conclusione logica che si può trarre da questo noioso dibattito è il riconoscimento del fatto che ovviamente il capitalismo non funziona senza una formazione permanente di debito.

E' esattamente questo che si può dedurre dagli avvertimenti del FMI a fronte della situazione nei paesi emergenti, che sono minacciati non solo dalla caduta dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime, ma anche dalla rapida scalata del dollaro degli Stati Uniti e dall'imminente inversione dei tassi di interesse della Fed. Va ricordato: la gigantesca stampa di denaro da parte della Federal Reserve statunitense, che ebbe inizio per superare gli effetti dello scoppio della bolla immobiliare, portò alla formazione di nuove bolle di debito nei paesi emergenti, una volta che il capitale, di fronte ai tassi di interesse negativi nei centri del sistema mondiale, cominciò a scorrere verso la semi-periferia alla ricerca di rendimenti più elevati - e quei paesi vennero per qualche tempo celebrati dalla stampa economica borghese, con un'ignoranza quasi sconvolgente, come futura "locomotiva dell'economia mondiale". Dopo la fine del "quantitative easing" della Fed, esplosero le bolle dei paesi emergenti, una volta che i flussi finanziari globali si dislocarono nuovamente al centro e la valorizzazione del dollaro USA ebbe reso sempre più difficile il servizio del debito in paesi come "Argentina, Brasile, Sudafrica e Nigeria".

In realtà, non sembrano mancare potenziali rischi di incendio nel sistema finanziario mondiale gonfiato per anni dalla stampa di denaro. L'FMI menziona esplicitamente il settore immobiliare in Cina, dove la caduta dei prezzi potrebbe non solo minacciare il mercato finanziario domestico, ma infettare anche gli altri mercati. Oltre la situazione drammatica di molti paesi emergenti - scatenata dal doppio golpe dell'imminente inversione dei tassi di interesse della Fed e della caduta dei prezzi dell'energia - il rapporto vede a rischio la stabilità finanziaria anche perfino nei centri del sistema mondiale, poiché l'imminente svolta dei tassi di interesse della Fed e la stampa di denaro appena cominciata da parte dell'Unione Europea porterebbe alla formazione di squilibri nel sistema finanziario globale (carry trades). Nell'Unione Europea, l'FMI registra inoltre una gigantesca montagna di crediti inesigibili che ammonta a circa novecentomila milioni di euro, la quale costituisce un lascito dell'ultima crisi finanziaria. Inoltre, la politica monetaria espansiva della BCE ha messo "in difficoltà" le società di Assicurazioni europee in quanto la prolungata politica di abbassamento dei tassi ha portato a che "quasi un quarto delle società assicuratrici già non riesce più a soddisfare i requisiti di capitale di solvibilità". Questo è un mercato con "4,4 miliardi in titoli (assets)" che, secondo l'FMI, costituiscono una "fonte di potenziale overflow" della dinamica di crisi.

La stampa di denaro da parte della BCE, naturalmente, non solo ha portato al rafforzamento degli squilibri nella sovrastruttura finanziaria, ma - e questa è la vera intenzione di questo programma di stampa di denaro, in corso fino alla fine del 2016 - ha permesso soprattutto di far continuare a crescere il surplus commerciale della zona euro (soprattutto in Germania) nei confronti dei paesi non-europei. L'euro debole riduce il costo dei beni prodotti nella zona euro per i mercati non-europei, trascinando tutta la zona euro, rimodellata a immagine e somiglianza della Germania, nella medesima "politica di impoverire il tuo vicino" (beggar-thy-neighbour policy) - devastante per i paesi fuori dall'Europa - che è stata portata avanti dalla Germania in relazione alla zona euro con un successo altrettanto devastante fino allo scoppio della crisi dell'euro. Dal momento che gli Stati Uniti - al contrario del sud dell'Europa - hanno la propria banca centrale e la valuta di riserva mondiale, le reazioni saranno inevitabili.

Un'anticipazione dei crescenti scontri, legati alla crisi, delle politiche finanziarie, fra gli "alleati occidentali" di entrambe le sponde dell'Atlantico, è rappresentata dalle notizie sulla speculazione degli investitori nordamericani sui titoli tedeschi ed europei. "Ricchi speculatori pretendono di realizzare guadagni sulla Germania", scriveva indignato il Frankfurter Allgemeine Zeitung, a fine aprile, visto che in questo modo veniva pregiudicata la stampa di denaro da parte della BCE, e gli interessi sulle obbligazioni a dieci anni del debito pubblico tedesco registravano in un solo giorno un forte aumento di dieci punti. Anche altre grandi economie - come la Cina ed il Giappone -  hanno dovuto rispondere con misure difensive a questo appoggio all'esportazione per mezzo della stampa di denaro, essendoci una minaccia si svalutazione competitiva globale delle monete (la cosiddetta "guerra valutaria"), la quale porterebbe ad un'iper-inflazione - al più tardi quando esploderà l'attuale bolla di liquidità.

Poiché è proprio il gigantesco mostro dei mercati finanziari del tardo capitalismo a mantenere bassa l'inflazione, nonostante la stampa di denaro: la dinamica della speculazione porta ad un'inflazione dei prezzi dei titoli, i quali cadrebbero in un'inflazione reale solo con lo scoppio della bolla, quando il capitale fittizio nel panico cercherà di scappare dalla sfera finanziaria. Per avere un'idea delle dimensioni dell'attuale bolla di liquidità, vale la pena dare un'occhiata al "livello di correlazione" fra i diversi mercati finanziari (azioni, ipoteche, obbligazioni, ecc.). Secondo l'FMI, dallo scoppio della crisi, tale livello non è diminuito, ma è andato aumentando - in media dallo 0,4 allo 0,7, attualmente, dal momento che un valore di 1,0 implicherebbe un movimento sincrono. L'FMI avverte anche a proposito di un "aumento dei rischi di contagio" fra i segmenti individuali di mercato nella sfera finanziaria. Questo appare essere quasi un anacronismo, dal momento che oramai tutto il sistema finanziario opera sempre più in forma sincrona, in quanto è alimentato dalla medesima dinamica speculativa. Al di sopra di tutti i segmenti di mercato della sfera finanziaria - che siano "futures" su carcasse di maiale e su succo di arancia congelato oppure su cartolarizzazioni di ipoteche - si sviluppa, sempre più forte, nella presente bolla di liquidità, un movimento di valorizzazione del capitale fittizio alimentato in maniera uniforme dalla speculazione.

E vi è una montagna crescente di debito, che rappresenta la base economica reale di queste bolle che proliferano nei mercati finanziari mondiali, alimentata dalle corrispondenti situazioni di deficit (ad esempio, nei paesi emergenti). La società di consulenza McKinsey ha recentemente dichiarato che il debito totale globale fra il 2007 ed il 2014 è aumento dal 269 al 289% del prodotto economico globale. Il Rapporto di Ginevra, pubblicato dallo "International Centre for Monetary and Banking Studies", quantificava nel settembre del 2014 l'aumento a lungo termine del debito mondiale (escludendo il settore finanziario): questo è aumentato nel 2001 del 160% del prodotto economico mondiale, del 200% nel 2009 e del 215% nel 2013. Il rapporto metteva in guardia rispetto ad una "combinazione tossica" fra debito elevato che continua ad aumentare ed una debole crescita economica. La lieve diminuzione del livello di indebitamento nel settore finanziario ed in quello privato, delle economie sviluppate, è stato più che compensato dall'aumento del loro "debito pubblico" e da un rapido rigonfiamento del debito nei paesi emergenti. "Contrariamente alla convinzione generalizzata, il mondo non ha cominciato a 'sdebitarsi' e la proporzione fra i debiti ed il PIL continua ad aumentare, infrangendo sempre nuovi record."

Tomasz Konicz  - Pubblicato su KONKRET del 06/2015

fonte: EXIT!

sabato 27 giugno 2015

Famiglie

famiglie

Famiglia nucleare? No, grazie!
di Christophe Darmangeat

La preservazione di una certa forma tradizionale di famiglia, come ultimo baluardo contro ogni sovvertimento, è una vecchia antifona conservatrice. E se non sono più - come ai tempi di Marx - i comunisti ad essere accusati di voler distruggere la famiglia, il "matrimonio per tutti" è diventato la minaccia contro cui far suonare le campane a martello. E' stato coniato lo slogan secondo cui la famiglia, è "un padre ed una madre", ed i suoi partigiani si sono affrettati a vedervi l'espressione di un ordine naturale - se non divino; in tali circostanze, il bigottismo è sempre in agguato.

Eppure, l'etnologia e la storia hanno stabilito da tempo l'estrema diversità delle forme familiari. Il modello nucleare ("un padre, una madre") è quello dell'Occidente moderno, benché, a causa di un lontano contraccolpo della mercificazione, esso sia oggi messo in discussione dall'emergere delle famiglie monoparentali o ricomposte. Tale modello è stato anche quello di molti altri popoli, a partire dai cacciatori-raccoglitori come gli Inuits o come i pigmei delle Isole Andamane. Ma assai più numerose sono state le società che praticavano la poliginia ("un padre, molte madri") - come nell'Islam o presso gli antichi Ebrei, ma anche gli Aborigeni australiani potevano superare le venti mogli. Anche se più rara, la poliandria ("una madre, molti padri") è documentata nella zono indo-tibetana. Presso molti popoli di queste regioni, avveniva inoltre che la cellula familiare raggruppasse le donne, invece che con i loro mariti, con i propri fratelli. Gli uomini, amanti o mariti chiamati "visitatori", avevano relazioni sessuali con le loro donne soltanto durante la notte. Una tribù della Cina, i Na - o Mosuo - a volte presentata, a torto, come un matriarcato, ha spinto questa logica fino alla sua conclusione: la nozione stessa di matrimonio era sconosciuta e, insieme ad essa, di conseguenza, quella di paternità.

Questa abbondanza di forme - il cui elenco potrebbe essere allungato a piacere - si spiega facilmente. Se, nonostante l'irruzione della scienza e della tecnica moderna, la procreazione è rimasta fondamentalmente un fenomeno naturale che necessita dell'intervento di un individuo di ciascun sesso, diversamente la famiglia, quest'unità socio-economica in particolare incaricata di allevare i bambini, è un fenomeno sociale; è questo che spiega la sua incredibile plasticità. Per quel che riguarda la singolare costante secondo la quale essa riunisce dappertutto gli uomini e le donne, tale costante da molto tempo non ha più niente a che fare con la natura, se è stato mai così. L'eterosessualità della famiglia è il prodotto della divisione sessuale del lavoro, un altro fenomeno sociale che si trova anch'esso alla base del dominio maschile.

Non è possibile predire quale forma assumerà la famiglia in una società liberata dalla miseria e dallo sfruttamento. Ma non c'è alcun dubbio che una tale società sarà pronta a sviluppare la gestione collettiva dei molteplici compiti che oggi vengono assunti all'interno dello stretto quadro familiare - cioè a dire, essenzialmente, dalle donne. Una cosa tuttavia è certa: la "difesa della famiglia", al di là della volontà di mostrare i denti ai governi detti di sinistra o al di là della semplice stupidità, è una bandiera che nasconde a malapena la feroce volontà di preservare la tradizionale complementarietà dei sessi, ovvero la loro ineguaglianza. La "difesa della famiglia" si oppone alle rivendicazioni degli omosessuali; ma assai più in generale, è un grido di guerra contro l'emancipazione delle donne.

Christophe Darmangeat

fonte: Blog de Christophe Darmangeat

venerdì 26 giugno 2015

Le decisioni sono già state prese!

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Economia di guerra senza guerra
di Robert Kurz

Tutti sappiamo, o sospettiamo, che la pretesa amministrazione della crisi da parte dello Stato, ora nuovamente di moda, porta all'inflazione. Lo Stato non produce plusvalore, ma al contrario consuma una parte di esso. Se è proprio il maggior consumatore improduttivo quello che deve far rivivere l'agonizzante valorizzazione del capitale, non è certo al paziente che può essere sottratto il potere di acquisto necessario a far questo. Il problema è emerso, per la prima volta, nelle economie di guerra, a partire dal 1914. Il consumo richiesto dallo sterminio della guerra industrializzata poteva essere finanziato soltanto attraverso un'eccessiva offerta di denaro senza alcuna sostanza, da parte delle banche di emissione. Si pose fine al "gold standard" (la  convertibilità in oro). La pronta contropartita fu la svalorizzazione del denaro, la distruzione dei beni e la svalutazione delle monete. Ma l'inflazione non era mai venuta meno. Aveva rosicchiato il capitalismo nel XX secolo, e nel XXI secolo ha incominciato ad ingoiarlo.

Per una ragione molto semplice: l'economia di guerra era diventata permanente. E questo è vero anche in un senso molto immediato. Allo sviluppo industriale fece seguito l'armamento, che diventava sempre più costoso. Né la Guerra Fredda, né le più recenti guerre di ordinamento mondiale avrebbero potuto essere finanziate per mezzo della produzione regolare di plusvalore. Il consumo militare improduttivo viveva della creazione del debito, mediata dai mercati finanziari internazionali, ossia, dalla rapina anticipata del plusvalore futuro. La nuova crisi economica mondiale non può più essere "risolta" dalla guerra. E questo non solo perché il capitale mondiale trans-nazionale oramai non include più alcuna opposizione di blocchi di potere imperiale e perché il mondo è pieno di armi nucleari. Ma al contrario perché ormai il capitalismo ha già avuto la sua economia di guerra; e questo mezzo è già stato consumato.

Tuttavia, il problema è più complesso. La forma economica improduttiva dell'economia di guerra ha già raggiunto da molto tempo anche la produzione di beni civili. La sostanza del lavoro che produce il plusvalore nel suo insieme è stata minata dallo sviluppo delle forze produttive. Il risultato è stato l'alimentazione artificiale del processo di valorizzazione per mezzo del sistema creditizio e, più recentemente, attraverso le bolle finanziarie: essenzialmente, un'economia di guerra senza guerra. Ragione per cui anche l'inflazione è diventata un effetto collaterale permanente. In quanto può essere apparentemente mantenuta solo per mezzo della rapina anticipata sul plusvalore futuro, l'inflazione rimane bloccata nei centri capitalisti, mentre, a partire dagli anni 1970, la periferia soffre di una serie di iper-inflazioni, la più recente nello Zimbabwe. Ma ora è scoppiata la bolla del credito globale. E di nuovo lo Stato deve tornare ad impegnarsi in prima persona per stampare il denaro di una economia di guerra senza guerra.

La sovrabbondanza di denaro senza sostanza in un'economia quasi di guerra deve soddisfare ad una necessità di finanziamento che oltrepassa di gran lunga quella di un'economia di guerra. Già, nei dibattiti a proposito della crisi ecologica e della catastrofe climatica, si può sentir dire che il risanamento ambientale può essere reso possibile solo attraverso gli standard dell'economia di guerra. Lo stesso avviene ora con il risanamento globale dei bilanci. Ma al di là di questo, tutta la successiva produzione di plusvalore dovrà essere alimentata dalla stampa di denaro. Le decisioni sono già state prese, anche se i ministri delle finanze lo negano. Il capitalismo, come economia di guerra senza guerra, è diventato improduttivo secondo i suoi stessi criteri. Il sacro, amato denaro, che tutti vogliono "guadagnare" per sempre, deve abdicare alla sua posizione di dominatore del mondo; finirà per diventare solamente, e nient'altro che un pezzo di carta.

- Robert Kurz -

Pubblicato col titolo "KRIEGSWIRTSCHAFT OHNE KRIEG" su Neues Deutschland - Berlino, 27 marzo 2009 -

fonte: EXIT!

mercoledì 10 giugno 2015

Si leva il vento …

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… a presto

La pratica della Prassi

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Ci sono molte definizioni della parola "Prassi" che circolano negli ambienti marxisti, e la maggior parte di queste definizioni non ha alcun senso. Abbastanza spesso la parola viene usata per esplicitare il concetto - che non è stato abbastanza riflesso - di una sintesi fra teoria e pratica, e che viene presentato come se fosse la soluzione al problema derivante da una filosofia sterile o accademica. L'idea sarebbe quella che le persone mettono la "teoria" su un piedistallo quando invece, come sosteneva Marx, l'obiettivo non dovrebbe essere quello di interpretare il mondo, ma piuttosto di cambiarlo.
La Prassi, allora, diverrebbe la realizzazione di una tale necessità; una parola che viene spesso pronunciata attribuendole il significato di una pratica più elevata, che viene così innalzata al livello della teoria.
Quando, invece, l'unica vera intuizione contenuta nella parola Prassi è quanto teoria e pratica siano assolutamente intrecciate, fin dall'inizio.

domenica 7 giugno 2015

Uscire dal labirinto capitalista

manifesto critica

Per un manifesto dell'emancipazione umana

Dopo 165 anni dal Manifesto Comunista si vede un'opportunità storica per andare oltre il capitalismo.
Una rottura attraversa il capitalismo - la rottura anti-feticista.
La critica radicale ha smascherato la logica del sistema. La pratica emancipatrice defeticizzerà la società.
Questa nuova rivoluzione affonda il coltello nei fondamenti del capitalismo. E' trascendente. Le rivoluzioni precedenti hanno fallito perché non lo hanno fatto.

Questa rottura si propone in un momento in cui il sistema attraversa la crisi del suo dio-feticcio, il denaro. Per questo, una tale crisi è anche la crisi dell'essere umano, la crisi del soggetto. Alla fine, siamo stati formattati da questa matrice feticista. E a causa di questo, noi, gli esseri umani, che siamo stati i creatori di questo sistema, viviamo una crisi senza precedenti.
Nei tratti del capitalismo, non ci sono più risposte a questa crisi. Oggi, davanti ai nostri occhi, il sistema ha assunto il suo volto autodistruttivo.
CI autodistruggeremo anche noi? Noi scommettiamo di no!
Ma per questo, la sostituzione del capitalismo deve essere messa all'ordine del giorno. QUesto impensabile già fiorisce in vari paesi. E quello che fino ad oggi era considerato impossibile prova a fare i suoi primi passi.
Per questo, coloro che interpretano e vogliono inaugurare una nuova pratica che soppianti il capitalismo sono chiamati ad esporre apertamente, la mondo intero, il contenuto della loro critica e ciò che propongono per andare oltre il sistema. Tuttavia, tutti i poteri della terra si sono uniti a difesa del sistema: il Papa e Obama, Merkel e Dilma,  Netanyahu e Ahmadinejad, Xi Jinping e Castro, Putin e Maduro, Manoel Barroso e Kim Jong-un, Al Qaeda e Hezbollah, Mercato e Stato, Fondo Monetario e Banche centrali, imprenditori e sindacalisti, media e partiti politici. l loro accordi e le loro controversie hanno un punto in comune: la manutenzione del capitalismo.
Ma tutte queste loro posizioni sono diventate inconsistenti. Il sistema vive un momento storico molto diverso da quelli precedenti. Le sue impasse indicano fino a che punto si trovi ad affrontare una crisi non transitoria. I suoi limiti economici ed ambientali sono sotto gli occhi di tutti. Le risorse naturali si stanno esaurendo. La riduzione drastica del lavoro produttivo, per mezzo della microelettronica, ha fortemente desustanzializzato il capitale. La fine del lavoro annuncia la fine del capitalismo. E così, il capitalismo perde la sua dinamica. Raggiunge il suo limite. Collassa. Le sue basi sprofondano. La sua logica diviene insostenibile.
Ma l'agonia del sistema non è il risultato delle proteste dei movimenti sociali o di qualche movimento rivoluzionario. Coloro che lo difendono e che insistono sul volerlo modernizzare, mendicando le sue briciole, non vogliono ammettere che la bancarotta è il risultato dei suoi fondamenti.
Il ritardo nel soppiantare questa escrescenza storica ha contribuito a che il capitalismo si trasformasse in questa catastrofe che devasta l'umanità ed il pianeta.

Cosa dobbiamo fare per smettere di essere prigionieri di un'incoscienza che riduce del 95% la nostra capacità cognitiva?

La doppia natura della critica al capitalismo
E' passato del tempo da quando si è scoperto che la liberazione può essere soltanto dal lavoro, e non nel lavoro. Nel lavoro non si libera nessuno. Oltretutto, non va confuso il lavoro con l'attività umana. L'essere umano ha sempre svolto, e sempre svolgerà, delle attività. Ma il lavoro è una costruzione storica che è stata imposta agli esseri umani. Ed è stata imposta per mezzo di una repressione sanguinosa. In quanto, è avvenuto per mezzo dell'invenzione e dell'uso delle armi da fuoco che è stata impiantata l'economia mercantile. Ovviamente, le persone non si lasciarono portare di loro spontanea volontà nella nuova economia armamentista e finanziaria. Fu la repressione a trasformare in lavoratori i piccoli produttori delle forme di dominio pre-capitalistiche. Per questo essi vennero espulsi dalle loro terre e videro aboliti i loro diritti alla caccia, alla pesca e alla raccolta di legna da ardere. La finalità di queste misure era esattamente quella di forzarli a vendere l'unica cosa che ancora rimaneva loro - la loro capacità di lavorare. La stessa radice latina della parola, "tripalium", "tre pali", si riferisce ad una sorta di giogo utilizzato per la tortura ed il castigo degli schiavi e di altri non-liberi. Nonostante questo, i difensori del lavoro insistono nel volere ignorare la sua critica.
Oggi, tale difesa si riveste di un carattere reazionario. Poiché contrasta fortemente con il momento storico che rende possibile non solo il superamento del lavoro, ma anche i suoi sistemi, capitalisti o socialisti che siano. Alla fine, ci troviamo davanti ad una possibilità di eliminare la sofferenza, parte della quale è causata dal lavoro, le cui origini, e l'attuale impasse, risiedono nella storia delle relazioni feticiste.
Quando ci siamo resi conto di questa possibilità, siamo stati considerati profeti del caos. Ora che l'abbiamo raggiunta, ci dicono che non c'è via d'uscita. E domandiamo: perché? Ci rispondono: perché il capitalismo è come l'araba fenice, rinasce dalle sue ceneri, trova sempre il modo per continuare. Ma come potrebbe continuare se la natura della crisi attuale è il suo fondamento?
Per noi, la configurazione di questa realtà si è avvicinata al pensiero critico radicale.
Ora si è avvicinata. In tal modo, ha fatto irruzione una congiunzione storica che permette di soppiantare il moderno sistema patriarcale produttore di merci. Possiamo affermare con certezza che il capitalismo, il lavoro e le sue altre categorie e la sofferenza degli individui non hanno più alcun motivo per continuare.
La microelettronica, utilizzata come forza produttiva, ha spinto fino all'assurdo la ragion d'essere del lavoro. Così, la visione trans-storica, ontologica, naturale del lavoro non regge più. E perché? Perché il capitalismo stesso ha cominciato a dispensare l'essere umano dal lavoro.
Quindi, vengono smentiti non solo il cristianesimo, il protestantesimo, il marxismo, ma anche lo stesso capitalismo. Di conseguenza, la rivoluzione non non può basarsi su un concetto positivo di lavoro.
E' da molti anni che il valore è stato compreso come la base della produzione borghese, ed il lavoro come la sostanza del capitale, la sostanza formatrice del valore che viene espressa in denaro. Questa critica, fin dal suo inizio, catturava le forme basiche della società capitalista che ha nel valore il negativo centrale della società moderna.
Però, la critica sociale inaugurata dalla modernità ha dato origine a due critiche sociali antagonistiche.
Una, che sottoponeva alla critica radicale le forme basiche di questa società. L'altra, che criticava l'insufficienza e il sottosviluppo della stessa società. La prima, che all'inizio è rimasta nascosta, e per molto tempo è stata repressa, solo recentemente è stata (ri)scoperta e perciò muove solo ora i suoi primi passi. Passi che ci potrebbero portare nella stanza dove son custoditi i più importanti segreti dell'umanità. La seconda finora è sopravvissuta e si è sviluppata come una riflessione immanente al capitalismo. I suoi fondamenti poggiano sulla teoria della modernizzazione capitalista che ha collassato.

La genesi delle teorie
Le due teorie si rivolgono allo stesso oggetto di studio,il capitalismo. Però, il capitalismo non è entrato nella storia allo stato puro, ma attraverso una miscellanea di momenti capitalistici, pre-capitalistici, moderni e pre-moderni. Questo ha dato luogo ad una disparità fra i diversi paesi dell'Europa continentale che erano sottosviluppati in rapporto all'Inghilterra, ed anche nei paesi del resto del mondo, che si trovavano ancora più indietro dei paesi europei sottosviluppati. In questa non simultaneità interna ed esterna del capitalismo risiede la genesi delle due teorie. Da questa contraddizione emana il Marx esoterico ed il Marx essoterico. Da qui, derivano i suoi differenti approcci, per mezzo di due teorie differenti: una, la teoria della soppiantazione del capitalismo; l'altra, la teoria della sua modernizzazione.
Col predominio della teoria della modernizzazione, la critica si è rivolta soltanto al plusvalore, ossia, alla quantità non pagata del valore prodotto dal lavoratore, e di cui egli viene privato. Quest'aspetto ha dato origine all'idea per cui la liberazione della classe operaia sarebbe stata nel lavoro, e non dal lavoro. Il risultato è stato che il lavoro si è costituito come base della rivoluzione socialista, per mezzo della quale il proletariato avrebbe dovuto andare oltre il capitalismo.
Di conseguenza: la critica del capitalismo non è stata diretta contro la qualità distruttiva della socializzazione sotto la forma valore, ma soltanto contro il meccanismo quantitativo della distribuzione che avviene sotto questa base ciecamente presupposta. A partire da questo presupposto, la rivoluzione socialista poteva soltanto modernizzare il capitalismo. Dopo la morte di Marx, alcuni rivoluzionari marxisti vennero sopraffatti da un vago presentimento che li portò a constatare, pur senza comprenderne la dimensione, in Marx esistevano approcci differenti alle diverse questioni.
Un simile vago presentimento, tuttavia, generò una fobia contraria all'idea di un limite interno della valorizzazione del valore, della valorizzazione del denaro, facendo sì che quest'idea rimanesse svincolata dalle congiunture sociali dell'economia e della politica, dalla crisi e dalla prosperità, dalle guerre mondiali, dalla crisi economica mondiale e dall'era di prosperità del dopoguerra portata dal fordismo. Un fatto indubbiamente ingiustificabile, ma comprensibile. Alla fine, ci si trovava davanti a delle situazioni che evidenziavano la frontiera storica del moderno sistema patriarcale produttore di merci.
Ma, la possibilità che la critica categoriale fosse corretta rispetto alla dinamica capitalista ingenerò fastidio, provocò scandali e produsse lo sconforto negli intellettuali.
Diversi ed importanti rivoluzionari rimasero perplessi davanti alla possibilità che nei testi di Marx potesse esistere l'idea che la classe operaia avrebbe perso i suoi posti di lavoro e che la sua concentrazione nelle fabbriche si sarebbe drasticamente ridotta, che in quei testi si potesse trovare la negazione della classe operaia in quanto soggetto storico; che Marx fornisse elementi per poter pensare e poter fare una rivoluzione che non fosse socialista e che le sue formulazioni venissero ad essere confermate da un momento nuovo della produzione capitalistica nel quale praticamente spariva il valore e, in concomitanza, il plusvalore.

La critica del lavoro e la rottura con il lavoro ed il capitalismo oggi
La nuova crisi mondiale, con la terza rivoluzione industriale, è esattamente la conferma della previsione di Marx (Grundrisse). Ci troviamo di fronte ad una crisi del limite interno della valorizzazione del valore, della valorizzazione del denaro. Se, precedentemente, non abbiamo assistito a questa situazione, ora ci troviamo quotidianamente faccia a faccia con essa. Prima, si trattava di crisi relative all'espansione del sistema.
Oggi si tratti di crisi del limite del capitalismo. Ci troviamo davanti allo scacco matto del capitalismo ad opera del capitalismo stesso. A causa di questo, lo sviluppo della critica radicale della dissociazione-valore, che supera l'interpretazione della storia vista come lotta di classe e la sostituisce con la storia delle relazioni feticiste, assume attuale importanza e costituisce il fondamento della critica della nostra epoca storica.
L'obiettivo della produzione moderna è quello di trasformare il denaro in più denaro. Questo è stato finora possibile solo perché, nel capitalismo, il denaro è l'incarnazione del lavoro. Con il suo sviluppo, sono sorte fabbriche con più di 30mila lavoratori. E sono sorte perché nel capitalismo il fondamento del sistema è la valorizzazione del denaro che nasce come forma di ricchezza costituita dal dispendio diretto del lavoro umano, avendo come base il tempo di lavoro. In questo risiede il cuore del sistema capitalista, la valorizzazione del valore, la valorizzazione del denaro. Tutti gli ostacoli che si frappongono a questo obiettivo, inclusi quelli rivoluzionari, vengono sbaragliati dalla dinamica, dall'imposizione, espansione e modernizzazione del capitalismo.
Oggi la produzione è arrivata a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato e molto più dalle sofisticate macchine produttive create dalla scienza e dalla tecnologia. Fabbriche che avevano 30mila lavoratori, ne hanno ora cento. Producono di più e molto più a buon mercato. Ma, come si sa, il capitale non può eliminare del tutto il lavoro vivo dal processo della produzione delle merci. Alla fine, è da questo lavoro che esso estrae il pluslavoro da cui trae profitto.
Ma così come aumenta la produttività, a causa della concorrenza, mediante l'uso di nuove tecnologie, anche il tempo di lavoro viene sempre più ridotto. Davanti all'immenso accumulo di lavoro morto, il lavoro vivo finisce per essere ridotto alla mera manutenzione e supervisione del macchinario tecno-scientifico. L'aumento incessante di produttività de lavoro ha condotto ad una situazione tale per cui il nuovo valore aggiunto per ogni unità di prodotto è talmente insignificante e misera che la misurazione per mezzo del criterio del valore è diventata insostenibile. Quindi, né il lavoro né il tempo di lavoro sono più condizioni principali della produzione. Il lavoro ha cominciato a smetter di essere la fonte principale delle ricchezza, ed il tempo di lavoro ha smesso di esserne la sua misura.
L'umanità si trova davanti all'eliminazione della gallina dalle uova d'oro del capitale, all'eliminazione del lavoro.

Il nucleo della critica radicale della crisi
La sostituzione del lavoro vivo con il lavoro oggettivato si pone allora come l'ultimo attuale sviluppo della relazione del valore, della produzione basata sul valore. Ci troviamo davanti ad un processo produttivo che altera profondamente il significato di ricchezza, di tempo e di relazione sociale, e che mette sotto scacco il lavoro. Ecco la barriera storica del capitalismo. Il tentativo di superare quest'impasse per mezzo della speculazione finanziaria, ossia, denaro che produce denaro, acuisce enormemente la crisi attuale e mostra le proporzioni e le conseguenze del collasso mondiale.
Sofisticatissimi computer, nuovi media e nuove tecnologie di comunicazione, bolle finanziarie speculative di più di 400milardi di dollari sui mercati azionari ed immobiliari non riescono a nascondere questa realtà. La società solida del denaro cade sempre più a pezzi.
La desustanzializzazione del capitale è arrivata a tal punto che è possibile soltanto un'accumulazione solo apparente, senza sostanza, per mezzo di bolle finanziarie e di credito pubblico che hanno attualmente raggiunto i loro limiti. La conclusione è chiara: la storia della desustanzializzazione del valore, ossia, la svalorizzazione del denaro, si presenta come una questione di riduzione drastica della quantità di lavoro. Eccolo qui il nucleo della teoria critica radicale della crisi. Questa desustanzializzazione reale del capitale, in corso, comprova che i capitalismo sta morendo. Di fronte a questo, l'appello non può essere che uno: basta col masochismo storico, che il capitalismo muoia!

Così l'umanità e il pianeta saranno salvi
Anni dopo la prospezione di Marx, e dopo la scoperta/intuizione della Critica Radicale, a partire dalle formulazioni ben fondate di Robert Kurz e con l'esplicitazione della crisi della frontiera storica del capitalismo (2008), ora risorge una fobia postmoderna che, nel tentativo di negare la possibilità del superamento del capitalismo, contribuisce alla configurazione di una soggettività distruttiva e autodistruttiva, quella del soggetto contemporaneo. Ma non ci sono più le condizioni per contenere la radicalità teorica e pratica della critica categoriale al capitalismo e, perciò, possiamo dare inizio ad "un certamente difficile processo di trasformazione pratica, a partire dal proprio comportamento quotidiano fino alle rivoluzione delle istituzioni sociali". (Kurz)
Questo processo di trasformazione ha come uno dei suoi presupposti la critica radicale del lavoro. Per le sue radici, il lavoro è maschio, bianco ed occidentale. A questo è vincolata la dissociazione sessuale, la svalorizzazione delle donne. Alle quali sono stati imposti tutti i momenti della riproduzione sociale separati dal lavoro. Se di questo non si avrebbe valorizzazione del valore, valorizzazione del denaro.
A causa di questo, il capitalismo non può venire dimensionato solamente come connessione delle sue forme categoriali, ma anche, sempre, come processo di dissociazione. La dissociazione è il valore. Il valore è la dissociazione. (Scholz)
Inoltre, al codice di disciplina del lavoro è vincolata anche una svalorizzazione delle persone non bianche, che vengono considerate non sottomesse alla ragione moderna.
Dall'altra parte, le crisi interne del sistema vengono attribuite costantemente ad un potere soggettivo alieno, esterno, come è avvenuto con gli ebrei nella storia europea. S'immagini ora, con la crisi dei fondamenti del sistema!
Per tale motivo, già fin dall'epoca dei Lumi, il machismo, il sessismo, il razzismo e l'antisemitismo venivano trasmessi insieme alla positivizzazione del lavoro che stava alla base e costituiva la sostanza del processo di valorizzazione del valore, del denaro. Se questa relazione sociale può essere superata, come si annuncia, può essere superata anche la sua società e le sue categorie fondanti il capitalismo insieme al machismo, all'omofobia, al razzismo e all'antisemitismo.
Per questo, non si deve più tornare all'Illuminismo, ai miti della rivoluzione borghese, allo Stato dei lavoratori, ad una pre-modernità idealizzata, al romanticismo agrario, né continuare ad accettare l'esistenza del soggetto formattato dal feticismo delle merci. Inoltre, tutti i movimenti sociali che hanno fatto e fanno parte della storia dell'ascesa, dell'imposizione e della modernizzazione del sistema patriarcale produttore di merci e della sua metafisica reale e che, pertanto, non hanno trasceso l'ontologia capitalistica, sono scaduti. E sono scaduti perché riescono a pensare la critica, ed a metterla in pratica, solamente nelle categorie fondanti del capitalismo (valore, dissociazione, denaro, lavoro, soggetto, merce, politica, Stato, nazione, concorrenza, feticismo, democrazia...). Questo si manifesta chiaramente nelle performance dei vecchi e nuovi dirigenti politici del sistema, che siano d destra, di centro o di sinistra.

Anti-soggetto per superare la storia delle relazioni feticiste
La storia di tutte le società che sono finora esistite non è storia di lotta di classe, ma storia delle relazioni feticiste. Il concetto di lotta di classe è immanente al sistema. Non coglie l'essenza del capitalismo. Ma ne coglie solo l'apparenza.
Il concetto di feticismo costituisce qui la chiave per entrare nella stanza proibita. Per mezzo di esso comprendiamo l'andamento storico dall'inizio fino ai nostri giorni. La distinzione fra la prima e la seconda natura costituisce il punto decisivo.
La seconda natura (costituita dal feticismo e codificata simbolicamente) significa che la socialità degli esseri umani si costituisce e si presenta in maniera analoga alla prima natura (biologica). Ma analogia non significa identità, cioè, prima e seconda natura non si equiparano. La costituzione senza soggetto della seconda natura non avviene come risultato naturale, bensì storico.
La costituzione senza soggetto della prima natura proviene dalla trasformazione biologica e naturale. La distinzione fra prima e seconda natura, e il suo dimensionamento per mezzo della critica radicale del feticismo, fornisce le basi indispensabili all'umanità per la sua liberazione. L'essere sociale nato, e non creato, viene alla luce come inconsapevole di sé stesso, e tale incoscienza deriva dalla stessa forma della coscienza e dalla riproduzione inconsciamente costituita.
Ma l'essere sociale nato non potrebbe essere plasmato nella seconda natura senza ricorrere ad un sistema simbolico (codici) che forma la sua strutturazione umana. E' qui che risiede il nucleo della costituzione della matrice feticista!
I concetti di feticcio e di seconda natura indicano che esiste "qualcosa" che non si risolve nel dualismo soggetto-oggetto e che non è né soggetto né oggetto, sebbene costituisca questa relazione.
Il punto decisivo è che ci deve essere un piano all'interno della costituzione umana e sociale, e, pertanto, anche all'interno di ciascun essere umano isolato, un piano che si situa al di là del dualismo fra soggetto e oggetto.
Il concetto chiave per la comprensione di un tale piano può essere soltanto il concetto di inconscio (Freud).
Ma l'inconscio freudiano non costituisce un passo fondamentale né per quel che concerne l'elaborazione critica dell'assenza del soggetto (strutturalismo) né per quel che attiene alla critica del superamento del soggetto (illuminista). Freud ha circoscritto il concetto di inconscio soprattutto all'aspetto individuale e psicologico e non ha affrontato il problema della costituzione sociale dell'inconscio. In tal modo ha ontologizzato la sua scoperta e ha legato l'inconscio direttamente alla prima natura (impulso sessuale). Per mezzo di una deduzione pessimistica ha concluso che le contraddizioni ontologizzate degli impulsi inconsci e dei prodotti culturali sarebbero insuperabili (pulsione di morte).
Marx, al contrario, è arrivato attraverso Hegel ad una storicizzazione della storia della forma, che ha esposto come storia delle formazioni (politico-economiche) della società, In questo modo, ha affrontato il problema della forma universale della coscienza che ha affrontato, storicamente, come costituzione del feticcio. Non lasciando alcun dubbio che si tratta di forme di coscienza universali ed invertite.
Se egli non approfondisce l'analisi sulla forma universale della coscienza del sistema produttore di merci costituita dal feticcio, ciò avviene perché il suo pensiero si trova qui a sbattere contro un limite; il riferimento al lavoro (ontologia del lavoro). Questo pone il suo pensiero in una gabbia di ferro. Il punto di vista della classe e del proletariato porta ad un approccio semplicistico, dualista ed antagonistico, che cade nella trappola di una visione riduzionista e sociologista del dominio. Impedendo che venga affrontata chiaramente la forma universale della coscienza, si viene a creare per essa un limite che la mantiene prigioniera dell'apparenza. Pertanto, gli obiettivi, la volontà e l'azione soggettiva delle persone riflettono l'evoluzione della forma feticcio che costituisce tutti i soggetti nella misura in cui siamo il risultato di una predeterminazione inconscia.
La comprensione generalizzata secondo la quale il pensare ed il fare autonomamente siano caratteristiche del soggetto costituisce, pertanto un errore. E l'interpretazione secondo cui il soggetto classe abbia una missione storica, ossia, un ruolo rivoluzionario, costituisce un errore doppio. D'altra parte, lo strutturalismo o la teoria dei sistemi ed il pensiero illuminista ed i suoi succedanei postmoderni posseggono un'identità interna che li rende incapaci di una critica della forma merce. Inoltre, il pensiero illuminista rimane incapace di comprendere la vera costituzione feticista senza soggetto. Lo strutturalismo e la teoria dei sistemi ed i loro sviluppi postmodernisti/ipermodernisti rinunciano di proposito ad afferrare la costituzione senza soggetto. Perciò, anti-soggetto per poter superare il soggetto.

La critica della storia e la storia della critica
Il pensiero premoderno acritico era possibile solo a condizione che la società riposasse staticamente su sé stessa e che il pensiero riflessivo si riferisse, non al vuoto, ma ad un ordine divino.  Non si può più tornare ad una tale situazione.
Il pensiero moderno, avendo come base la filosofia illuminista borghese e la teoria economica ad essa legata e praticata, ha realizzato un grande impresa, nel vendere il contesto della forma sociale capitalistica, prima del tutto inesistente, come una legge naturale della convivenza umana. Un simile successo ha ricevuto un importante contributo dalla critica immanente al capitalismo. Dal momento che il capitalismo aveva tutto un futuro davanti, è stato facile proiettare su tutta la storia dell'umanità le necessità delle relazioni capitalistiche. Ma, ora, l'attuale crisi mondiale mostra i limiti del sistema. E la teoria immanente al capitalismo si dissolve insieme ad esso. Da qui in poi può solo sorgere una ragione, una ragione che vuole disperatamente giustificare l'amministrazione della barbarie.
Il pensiero postmoderni costituisce una critica sociale frammentata nello stadio terminale del sistema e si pone contro ogni teoria che prende in esame tutto l'insieme della società. Si tratta di una riflessione teorica che si frammenta sempre più, in quanto la dinamica sociale ad essa soggiacente si è estinta. Le generazioni postmoderne, pertanto, ormai non capiscono più i concetti della riflessione. Sono quel che sono e niente di più. Sono perfettamente identiche ai loro atti banali, tanto quanto più assurdi sono tali atti.
Il pensiero DI USCITA comprende il capitalismo non solo come connessione delle sue forme categoriali, ma sempre anche come processo di dissociazione sessuale, dove il feticismo non è soltanto una rappresentazione invertita della realtà, ma un'inversione della propria realtà. Sulla base di questo si sviluppa la critica categoriale del capitalismo, delle sue radici, come critica dell'irrazionalità del moderno sistema di produzione di merci, ossia, ripudiando le classificazioni ontologiche di base del capitalismo: lavoro, valore, dissociazione, merce, denaro, mercato, Stato, nazione, politica, democrazia, diritto, economia (solidale o verde), ecc..
Fondamentalmente, prende in esame il modo di produzione capitalista nelle sue forme politico-economiche elementari e le sue corrispondenti forme sociali dissociate che includono tutti i gruppi, classi e strati sociali che formano il sistema collettivo di riferimento dei conflitti sociali intercapitalistici.

E' il momento di una società autocosciente
Per i diversi interpreti della storia, il movimento autonomo del capitale, la valorizzazione del valore, non proviene dall'essenza, ossia, dalle basi del sistema, ma dalla sua apparenza. Un simile equivoco è alla base della supposizione per cui nelle stesse forme moderne del denaro e della merce sarebbe possibile una società umana. Com'è noto, questo ci ha portato alla devastazione umana ed ambientale.
Oggi, pertanto, ci troviamo davanti ad una crisi categoriale che esige una critica radicale. Una crisi che ha dato luogo al collasso storico del sistema e di tutte le sue corrispondenti relazioni sociali. Una crisi che è diventata evidente nel 2008, che non è stata debellata e che devasta l'umanità ed il pianeta. Una crisi che si manifesta come crisi della società del lavoro, crisi ecologica, crisi della politica e dello Stato nazionale, così come crisi della relazione fra i sessi.

Pensare questa sfida significa riflettere sul superamento della nostra epoca. Ma non solo della storia finora esistente. Alla fine non è solo la Guerra Fredda ad essersi conclusa. E' arrivata alla fine anche la storia mondiale della modernizzazione. Non solo questa particolare storia moderna, ma la storia mondiale delle relazioni di feticcio in generale. Il feticismo ci accompagna fin dai primordi dell'umanità. A causa di questo, la nostra storia è la storia delle relazioni feticiste. Vale a dire, non solo la storia contemporanea. Per quanto differenti siano state le relazioni sociali  nella storia delle società finora esistenti, si impone una conclusione: tutte quante sono state guidate dal feticismo (Kurz). Non sono mai esistite, quindi, società autocoscienti che potessero decidere liberamente sull'utilizzo delle loro possibilità. Il moderno sistema produttore di merci rappresenta soltanto l'ultima forma sociale della dinamica cieca del feticismo.
Per cui, a partire da questo, d'ora in poi il mondo capitalista dev'essere considerato come una tappa passeggera nella storia dell'umanità. E la consanguineità, il totemismo, la proprietà del suolo ed il valore devono essere considerate come tappe più lunghe del processo attraverso cui l'essere umano si è separato dalla natura, diventando un essere relativamente cosciente in relazione alla prima natura, ma non ancora in relazione alla seconda natura, che è la sua propria connessione sociale creata da egli stesso (Jappe).
A causa di questo, pensare la natura del feticcio e la sua crisi attuale ci dà la possibilità di considerare un'occasione storica imperdibile per costruire una società autocosciente, la società dell'emancipazione umana.

Da dove arriverà l'uscita?
E' questa la domanda bruciante che ha bisogno di essere posta. Dal momento che nel capitalismo non c'è nessun gruppo sociale che abbia una predeterminazione ontologica trascendente, va messo ora all'ordine del giorno l'anti-soggetto in grado di realizzare la defeticizzazione della società. E' questo il punto nodale per uscire dal labirinto della realtà capitalistica costituita dalla logica del valore, della dissociazione e delle altre categorie capitalistiche. Pertanto, dalla relazione sociale formattata secondo la matrice feticista. Questo punto decisivo, oggi, potrà essere raggiunto nella misura in cui gli esseri umani si accordano fra loro per costruire una società autocosciente. Qui svolgerà un ruolo fondamentale l'associazione di individui coscienti e potenzialmente liberi.
Per una simile impresa storica dovremo saper utilizzare creativamente la contraddizione fra noi, esseri umani, e la forma sociale nella quale tutti noi siamo plasmati. Nell'afferrare la tensione fra il soggetto formattato dal valore e l'individuo sociale-sensibile, la cui sofferenza pervade la storia umana, è decisivo aprire quotidianamente quelle falle che possano ingrandire l'essere umano. Attraverso queste brecce accumuleremo conquiste importanti ai fini della negazione del sistema, avendo sempre in vista una rottura. Questo nuovo camminare dell'umanità potrà permettere di superare la storia delle relazioni feticiste e di assicurare la conquista dell'emancipazione umana.
A partire da questo, possiamo dare inizio ad un processo di rottura col sistema. Ci troviamo, quindi, di fronte a formulazioni di una nuova teoria della rivoluzione non solo per riflettere, ma anche per soppiantare il capitalismo. Davanti a questa situazione che ci si presenta, pretendiamo di dar seguito allo sviluppo di questa nuova teoria, con la sua corrispondente prassi emancipatrice, e dei nuovi aspetti teorici che ne derivano a causa della nuova pratica sociale. Perciò, continuiamo a scommettere sugli esseri umani coscienti, coerenti e organizzati, solidali con la lotta immanente, ma ponendo le nostre speranze nella lotta trascendente al sistema per sradicare del tutto e alla radice il capitalismo.
L'emancipazione umana si conquista, non si mendica. Dopo 165 anni dal Manifesto Comunista è nata una opportunità storica per andare oltre quel manifesto ed oltre il capitalismo.

- Grupo Critica Radical -

sabato 6 giugno 2015

L’Impero di Mezzo

cina

In Cina è imminente un collasso?
- La crescita dell'economia cinese finanziata dal debito non ce la fa più -
di Tomasz Konicz

Sono circa 6,6 miliardi di tonnellate di cemento. Ci si potrebbero asfaltare tutte le Hawaii, trasformandole in un enorme parcheggio, proclamava alla fine di marzo il "Washington Post" (WP). Una tale impressionante quantità di materiale da costruzione, è stato quello che secondo le statistiche ufficiali ha consumato la Cina fra il 2011 ed il 2013, dal momento che la Repubblica Popolare, condannata ad un boom duraturo, ha prodotto in tre anni più cemento di quanto ne abbiano prodotto gli Stati Uniti in tutto il 20° secolo. Nel secolo scorso, gli Stati Uniti avrebbero consumato 4,5 gigatonnellate di cemento, secondo il WP, mentre i numeri ufficiali di Pechino devono ancora sottostare ad un esame più dettagliato - cosa che non è per niente ovvia. Le informazioni sarebbero "sorprendentemente logiche", in quanto una gran parte delle infrastrutture cinesi sono state costruite solo nel 21° secolo e l'urbanizzazione del paese più popoloso del mondo sta progredendo rapidamente. Nel 1978, solo un quinto dei cinesi viveva nelle città, nel 2020 sarà il 60%.

E tuttavia la notizia del 24 marzo ("Come la Cina ha usato più cemento in 3 anni che gli Stati Uniti in tutto il XX secolo") fa pensare che le relazioni causali di questa vertiginosa crescita possano essere altre, in particolare, potrebbero situarsi nell'irrazionale. Il boom cinese delle infrastrutture e delle costruzioni, che ha catapultato la produzione di cemento verso altezze astronomiche, è spinto dalle contraddizioni interne crescenti della relazione di capitale che, com'è noto, consiste in una auto-valorizzazione illimitata, cieca ed intrinsecamente dinamica - essendo tutto il resto soltanto un sottoprodotto. E' anche questo che spiega le 6.6 gigatonnellate di cemento che sono state usate in Cina nello spazio di tre anni.

E' a questo sottoprodotto che corrispondono i risultati di questo boom, che non hanno prodotto alcun urbanismo alternativo, ma piuttosto copie delle metropoli occidentali coperte da smog soffocante. Sono delle nuove costruzioni (per breve tempo) in collasso che spuntano letteralmente dal suolo come sostituto della dinamica di valorizzazione, che stava per fallire. Circa un terzo delle costruzioni in cemento, nella Repubblica Popolare, presenta gravi difetti di qualità, di modo che gli edifici affetti devono essere demoliti a medio termine, ci informa il WP. Inoltre, il settore che ora è responsabile di metà della produzione mondiale di cemento, e del 2,5% delle emissioni globali di CO2, soffre  - così come le altre industrie cinesi - di enormi capacità eccedenti, che si sono costituite in una fase di "crescita esplosiva".

Questa "crescita esplosiva" del settore immobiliare e delle infrastrutture, così come quella dei rami industriali che la riforniscono, è stato il motore principale dell'economia cinese - ed è stata realizzata sempre più per mezzo del debito. La crescita della Cina è stata spinta dall'indebitamento. La più parte delle 6,6 gigatonnellate di cemento è stata inserita nel movimento di valorizzazione ai fini della concessione di un credito senza limiti. "L'officina del mondo", la cui rapida crescita economica è stata alimentata per decenni dal settore dell'esportazione, ha formato una dinamica di indebitamento allucinante, che diventa sempre più instabile. I numeri sono chiari: il debito totale della Repubblica Popolare (Stato, settore finanziario, settore industriale e settore privato) nel 2008 era il 153% del PIL, attualmente è il 282%. E' chiaro che il settore privato è responsabile di una gran parte di questa montagna di debiti, in quanto lo Stato è poco indebitato. Ma questo era anche il caso della Spagna o dell'Irlanda, prima dello scoppio della crisi. La crescita del debito ha superato quella del PIL in media dell'8%; questo sarebbe "molto al di là del punto di efficienza per qualsiasi economia", ha osservato il "Financial Times". Per comparazione, va qui notato che la bolla di indebitamento è entrata in collasso, negli Stati Uniti, con un debito totale del 360% del PIL, quando la bolla immobiliare americana scoppiò nel 2007.

Gli inizi di questa gigantesca congiuntura economica basata sul deficit della Cina possono essere datati con relativa precisione: con lo scoppio della crisi finanziaria ed economica globale del 2008, che è stata scatenata precisamente dallo scoppio della bolla immobiliare degli Stati Uniti, è entrato in crisi anche l'attuale modello economico cinese. Fino ad allora, la rapida crescita della Repubblica Popolare si basava sul settore delle esportazioni, rifornito con un forte esercito di milioni di lavoratori ben formati e a buon mercato. Le enormi eccedenze di bilancia commerciale e di servizi della Cina, che sono arrivate fino al 10% del PIL poco prima dell'esplosione della crisi economica mondiale, hanno in tal modo costituito il pilastro di gran lunga più importante dell'economia e la fonte delle gigantesche riserve valutarie cinesi. Ma, dopo l'enorme crisi economica e dopo la caduta della domanda nei mercati di esportazione cinesi, negli Stati Uniti e particolarmente in Europa, Pechino ha dovuto reagire: la Cina ha messo in moto, a partire dal 2008, il più grande programma mondiale di investimenti in risposta ai risultati economici (che rappresentava il 12% dei PIL di allora!),  cosa che è diventata il punto di partenza dell'attuale bolla di indebitamento.

A partire dal 2008, l'economia cinese non è più guidata dalle esportazioni, ma dal credito e dall'investimento, in quanto il consumo interno continua a non giocare un qualsivoglia ruolo di rilievo. Il paese è stato coperto dai progetti di infrastrutture ed è stato pavimentato con intere città fantasma, le cui unità abitative continuano ad essere vuote anni ed anni dopo il loro completamento - poiché servono come oggetto di speculazione, o semplicemente non trovano acquirenti. Inoltre, gran parte dell'aumento del credito in Cina è dovuto al settore bancario ombra, dove sono stati fatti diversi interventi finanziari per concedere prestiti del tutto irregolari, con tassi elevati per i mutuatari che non erano riusciti ad ottenere credito nel settore bancario regolare. Queste banche-ombra dal 2008 non ha quasi giocato alcun ruolo. Nessuno sa realmente per certo quali dimensioni siano state raggiunte dal settore bancario ombra, che è intimamente legato con il settore bancario ufficiale. Le diverse stime variano da un volume di mercato equivalente a 2,5 miliardi di euro (circa il 40% del PIL cinese!) a 4,4 miliardi.

Anche le valute incamerate dalla Repubblica Popolare rappresentano in un certo qual modo un gigantesco Potemkin politico-finanziario. Le riserve di valuta che si trovano in Cina (circa quattro miliardi di dollari americani) non possono venire utilizzati su larga scala per gestire la crisi, in quanto questo porterebbe automaticamente alla loro svalutazione. Così, le riserve di valuta in Cina, accumulate per mezzo delle eccedenze di esportazione, appaiono impressionanti solo fino a quando non vengono "toccate" ed alienate.

La dinamica della speculazione che si intensifica rivela ancora una volta l'aberrazione centrale della tempestosa modernizzazione della Cina, che in realtà esiste fin dall'inizio della modernizzazione capitalistica ritardata e che in fondo evidenzia solamente il limite interno del capitale: la crescita cinese non è autosostenibile. Fino ad oggi, la leadership pechinese non è riuscita a stimolare la domanda interna ad un livello sufficiente a rendere il consumo interno il supporto più importante della crescita economica. Nonostante il progresso graduale in tale direzione - nel 2013, il commercio interno è cresciuto del 13,1% - le conseguenze dell'orientamento verso l'esportazione non hanno nemmeno cominciato ad essere risolte. La partecipazione del consumo al PIL della Cina, è sceso da oltre il 50% dell'inizio degli anni 1990 fino al 35% del 2011. Questo significa che - nonostante l'emergenza della classe media cinese - in ultima analisi, i salariati cinesi ancora non possono comprare in misura sufficiente le merci che essi stessi producono.

In tal modo diventa chiaro che la crescita della Cina in ultima analisi, fin dall'inizio della modernizzazione capitalistica, è stata dipendente dai processi di indebitamento - solo che questi, fino al 2008, sono stati esportati. Di fatto, qualcuno doveva comprare i beni che la classe lavoratrice cinese produceva, ma che essa stessa non riusciva a consumare. Queste eccedenze di esportazione dalla Cina hanno avuto come risultato un enorme surplus dei conti bancari, che nel 2007 ha superato il livello del 10% del PIL cinese. L'eccedenza di esportazione cinese, pertanto, è stata possibile solo perché i paesi di destinazione delle esportazioni si sono indebitati. (La stessa cosa, del resto, è avvenuta per quanto riguarda l'odierno campionato mondiale di eccedenze delle esportazioni, in Germania). Questo ha preso la forma di congiunture economiche del deficit, da noi ben note ed associate alla formazione di bolle, negli Stati Uniti ed in Europa, che hanno permesso alla Cina la formazione di enormi eccedenze commerciali e l'accumulazione di enormi riserve di valuta estera. Dopo lo scoppio della bolla negli Stati Uniti ed in parte dell'Europa - insieme alla caduta delle eccedenze commerciali cinesi che ora sono più basse di quelle tedesche - la Cina ha dislocato verso l'interno la dinamica dell'indebitamento, per mezzo di pacchetti di stimolo di massa. In risposta allo scoppio delle bolle nei mercati di destinazione delle esportazioni cinesi, Pechino ha dato inizio alla sua propria dinamica di indebitamento, che ha assunto il ruolo di motore della crescita.

Ma perché appare poco fattibile, tuttavia, un rapido recupero della domanda interna nell'Impero di Mezzo? Nonostante tutta la retorica dei funzionari di partito cinesi - che continuano a parlare di un rapido aumento del livello di consumo - il rapido aumento, ripetutamente annunciato, della partecipazione al PIL da parte quota di consumo interno non avviene. Questo può essere compreso solo tenendo conto del limite interno del capitale, che è stato raggiunto attraverso gli aumenti della produttività, mediati per mezzo della concorrenza, in crescita permanente.

Per rispondere alla domanda, vale la pena dare un'occhiata alla Cambogia, nel Sudest asiatico, dove gli scioperi e le proteste dei lavoratori tessili, avvenuti alla fine dell'anno, sono stati repressi dall'esercito. Molti lavoratori, che manifestavano contro i soliti salari da fame di 80 dollari americani, lavoravano per imprese tessili cinesi che hanno delocalizzato la produzione in Cambogia, dato che i lavoratori cambogiani ricevono solo circa un terzo dei salari dei loro omologhi cinesi. L'aumento dei livelli salariali in Cina porta tendenzialmente alla delocalizzazione o all'automazione, rese possibili dalla globalizzazione delle catene di produzione e dai livelli di produttività raggiunti a livello globale. In questo modo, l'esercito di milioni di lavoratori industriali cinesi può solo continuare a produrre in termini internazionalmente competitivi, con salari di fame o con salari bassi.

Il presupposto di base del fordismo, secondo cui i lavoratori sarebbero i consumatori dei loro stessi prodotti, è da tempo che ha perso validità, a fronte dei livelli di produttività globalmente raggiunti. Già oggi sono molte le imprese esportatrici ad operare in Cina - come ad esempio la Foxconn, fabbricante di tecnologie d'informazione, per subcontratto, e tristemente famosa per le sue brutali condizioni lavorative - che sono sul punto di cambiare localizzazione, a causa dell'aumento dei salari, verso le province orientali sottosviluppate della Cina, o anche in luoghi all'estero meno costosi. Il CEO della Foxconn, Terry Gou, ha già annunciato all'inizio del 2014 che intende costruire una grande fabbrica di smartphone in Indonesia - e, soprattutto, equipaggiata con robot industriali. Per volontà del CEO della grande impresa questo dev'essere solo un primo passo sulla strada di un'offensiva globale di automazione. "Abbiamo un milione di lavoratori", ha sottolineato Gou nel corso di una conferenza agli investitori, alla fine del 2013, "in futuro avremo un milione di robot". Tuttavia è stata resa pubblica una collaborazione fra il gigante di Internet, Google - che recentemente è passato a controllare l'impresa di robotica Boston Dynamics - e la Foxconn, che dovrebbe permettere proprio la rapida implementazione di quest'ondata di automazione. Nel gennaio del 2015, l'impresa di Taiwan ha annunciato logicamente i primi "tagli di forza lavoro", come ha informato Reuters.

Ora i lavoratori cinesi possono soltanto "concorrere", per mezzo di salari da fame assoluta, contro dei robot che diventano sempre migliori e più a basso costo. L'orientamento dell'economia cinese in base alla domanda, secondo il modello delle società occidentali di consumo degli anni 1950 e 1960 - secondo cui i lavoratori cinesi dovrebbero guadagnare a sufficienza per poter consumare anche i beni da loro prodotti - finisce per fallire assurdamente davanti all'alto livello di produttività nel frattempo raggiunto dall'economia mondiale globalizzata - di conseguenza al limite interno del capitale di cui dicevamo.

In Cina, la crescita alimentata dal credito può permettere, per un periodo di circa sette anni, elevati tassi di crescita da laboratorio del mondo, sebbene l'importanza delle eccedenze di esportazione continui sempre a diminuire e l'elevato livello globale di produttività abbia reso impossibile un aumento massiccio della domanda interna. Finora le cose non sono andate male per la Repubblica Popolare. Tuttavia, il fattore decisivo non è questa fase di crescita alimentata dal credito, ma semmai la caduta inevitabile a seguito di una qualche formazione di bolle. Lo sviluppo della Cina è parte dell'economia globale di bolle alimentate dal debito, in cui il sistema capitalista tardivo si trova imprigionato.

E la bolla del debito cinese sta lentamente perdendo forza, in quanto la relazione fra indebitamento e crescita economica si è manifestatamente deteriorata. La caduta dell'indice dei generi di acquisto, che serve come indicatore delle tendenze dell'economia, indica una crescita al di sotto del 7% rispetto all'obiettivo del governo di Pechino, ci informano i media cinesi alla fine del mese di marzo. L'Accademia Cinese di Scienze Sociali ha previsto una crescita del solo 6,85% rispetto al primo trimestre, come ha scritto nella sua relazione pubblicata sul portale delle notizie pro-governative, mentre il viceministro presidente Ahang Gaoli ha parlato di "aumento della pressione verso il basso" cui sarebbe esposta l'economia.

Ora, la crescita economica minacciata da questi eccessi di debito e di bolle speculative è realmente vitale per il capitalismo di Stato cinese. Solo attraverso una dinamica di crescita pericolosamente elevata, le enormi distorsioni sociali che ci sono in Cina possono essere superate: si tratta di mantenere una coesistenza fra centinaia di milioni di impoveriti della popolazione rurale e dei lavoratori migranti, una classe media preoccupata per il suo livello di vita recentemente acquisito ed un'oligarchia statale dominante con dei multimilionari politicamente ben relazionati. Il corso vertiginoso della modernizzazione capitalista è, per la dirigenza cinese, come la cavalcata sul dorso della tigre. Una volta paralizzatasi la dinamica scatenata dalla modernizzazione capitalista, minaccia di fallire, non solo nelle sue contraddizioni sistemiche interne, ma anche nelle sue contraddizioni sociali.

Il rallentamento della crescita viene ad essere accompagnato da una fase di caduta dei prezzi degli immobili, cosa che potrebbe indicare alla fine una formazione di bolle nel surriscaldato mercato delle abitazioni, caratterizzato dall'emergere delle succitate città fantasma: a gennaio, i prezzi nelle grandi città sono scesi del 5% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, a febbraio, sono scesi del 5,7%. Questo calo è notevole, soprattutto perché questa volta non è stato promosso deliberatamente da Pechini, come era accaduto molte volte in passato, al contrario, si è sforzata di promuovere il rilancio del mercato immobiliare. Lo scorso settembre, il Wall Strett Journal ha informato a proposito delle enormi facilità nelle concessioni di credito da parte del governo cinese, al fine di sostenere il "mercato immobiliare in difficoltà", facilitando, in particolare, i prestiti per l'acquisto della "seconda casa". Nella Repubblica Popolare, del resto, ha già avuto inizio una sorta di trasferimento della bolla, in quanto la debolezza del mercato immobiliare ha portato ad un trasferimento degli investimenti e delle attività speculative verso il mercato delle azioni, il quale - nonostante la decelerazione economica - sta vivendo una fase di grande espansione. Ad esempio, l'indice di Shangai è salito di oltre il 50% dallo scorso novembre. Tali trasferimenti della bolla si sono visti anche nella fase ascendente dell'economia del deficit degli Stati Uniti, quando la bolla scoppiata delle Dot-com venne trasferita senza problemi verso la speculazione immobiliare.

Ma questo non significa necessariamente che la bolla in Cina debba scoppiare nell'immediato, in quanto Pechino può intervenire molto rapidamente grazie ad un settore bancario (ufficiale) in gran parte mantenuto sotto il controllo statale, e può, se necessario, far fronte alle manifestazioni della crisi con iniezioni di miliardi. Quando alla metà del mese di marzo il gruppo immobiliare cinese Evergrande Real Estate Group minacciava di collassare sotto una montagna di debiti che ammontavano a circa ventimila milioni di dollari americani, esso ricevette immediatamente un prestito di emergenza di sedicimila milioni di dollari americani, il che impedì un collasso incontrollato, che avrebbe potuto portare il panico nel mercato. Pechino finora ha reagito a tutti i casi simili a questo, nella stessa maniera: con iniezioni di denaro per tutti quello che possono pagare - gonfiando così ancora di più la bolla. Le conseguenze di tale logica forzata si manifestano anche in enormi balzi dei prezzi delle azioni delle imprese in causa, all'annuncio dei loro salvataggi. Questa relazione illustra l'impasse della politica economica e monetaria della Cina, che è diventata ostaggio della dinamica del debito. Lo Stato può solamente tentare di rimandare il panico che accompagna lo scoppio della bolla - al costo di un suo ulteriore rigonfiamento. La leadership cinese in ultima analisi è diventata ostaggio dell'economia del deficit, da essa messa in moto con 6,6 gigatonnellate d cemento, e la cui manutenzione sta diventando sempre più difficile.

- Tomasz Konicz - Pubblicato su Konkret del maggio 2015 col titolo " Reicht‘s der Mitte" -

fonte: EXIT!