lunedì 1 giugno 2015

Vantaggi comparati



Tane da topo per elefanti - Il dilemma dell'industrializzazione ai fini dell'esportazione e il caso della Cina - di Robert Kurz

Per molto tempo, la speranza sociale nei paesi del Terzo Mondo ha guardato verso il paradigma della "liberazione nazionale". La dipendenza dalle economie imperiali dei vecchi Stati industriali doveva essere superata a favore di un'industrializzazione nazionale autonoma. Il mezzo per conseguire tale fine è sempre stato quello di offrire una maggiore o una minore impermeabilità al mercato mondiale, al fine di concentrarsi sulla propria economia interna. Le importazioni dai paesi industrialmente avanzati dovevano essere sostituite per quanto possibile da una produzione propria. Questa strategia, che com'è noto ha prevalso per molto tempo nelle sue innumerevoli versioni, non è riuscita a sviluppare un'alternativa storica al capitalismo occidentale, ma è servita a rappresentare, in molti Stati, il tentativo di portare tutto il paese verso la "modernizzazione" e a distribuire a ciascuno i frutti dello sviluppo.
Sotto molti aspetti formali, si può paragonare un simile progetto al mercantilismo, la dottrina dell'assolutismo europeo nei secoli 17° e 18°. Ma nella teoria sviluppistica del Terzo Mondo si trattava soltanto di un "mercantilismo a metà". A somiglianza della politica economica dei vecchi principi assolutisti, l'importazione delle merci doveva essere limitata e lo Stato doveva essere responsabile della pianificazione dell'economia nazionale, o perfino agire esso stesso come imprenditore. A differenza del mercantilismo storico, però, l'obiettivo non era l'esportazione ad ogni costo, bensì, al contrario, la concentrazione sul proprio sviluppo interno.
Anche questa differenza può essere spiegata facilmente. La dottrina mercantilista si basava sull'esportazione perché, in primo luogo, non voleva sviluppare il proprio paese in quanto tale, ma piuttosto strappare agli altri paesi quanto più denaro possibile, al fine di ingrossare i fondi di guerra dei principi predoni. L'esercito e la sontuosità della corte assolutista erano insaziabilmente avidi di moneta. I regimi sviluppistici del Terzo Mondo possedevano anch'essi tratti "assolutisti": erano autoritari, non di rado anche propensi ad una rovinosa ambizione militare e ad un'irrazionale pompa burocratica. D'altro canto, tuttavia, erano vincolati ad un momento socialmente emancipatore che si era sedimentato nell'opzione dello sviluppo interno. Erano forse meno avvezzi all'esportazione perché, in quanto ritardatari storici, non potevano imporsi allo stesso modo dell'assolutismo europeo, che allora non aveva nulla da temere in quanto concorrenza più forte sul mercato mondiale.
Il modello politico dello sviluppo del Terzo Mondo è crollato. Già prima del suo plateale collasso, ha sofferto una lunga agonia. In quanto è apparso subito chiaro che l'impermeabilità al mercato mondiale era assolutamente impossibile, a meno che si volesse lasciare da parte l'obiettivo dello sviluppo industriale. La sostituzione delle importazioni venne imposta soltanto sui prodotti relativamente semplici e poco numerosi. Molti componenti necessari per una produzione industriale complessiva non potevano essere elaborati dai paesi del Terzo Mondo. Se volevano svilupparsi industrialmente, dovevano innanzitutto importare tali componenti dal mondo occidentale. Il che significava che dovevano essere ottenute la valuta per fare questo, attraverso le proprie esportazioni. Poco a poco, l'economia dello sviluppo si vide suo malgrado obbligata a piegarsi all'esportazione o perfino al "mercantilismo totale", spesso a discapito dell'offerta interna di beni di consumo e di generi di prima necessità. La povertà, che si voleva eliminare, bussava di nuovo alla porta.
Via via che la disparità fra i costi di importazione e i ricavi dalle esportazioni aumentava sempre più, i regimi decidevano la riduzione del debito sui mercati finanziari internazionali. Ora, con questo la prospettiva dello sviluppo interno veniva ancora una volta ad essere negata. Di fatto, ora appariva chiaro che già a medio termine i costi per il credito erano più elevati dei rendimenti degli investimenti finanziati per mezzo di questo stesso credito. Il saldo fu la crisi dell'indebitamento del Terzo Mondo, che da allora continua a gonfiarsi. In poche parole, i rendimenti provenienti dalle esportazioni non potevano continuare ad essere utilizzati per lo sviluppo interno dell'economia, ma servivano quasi esclusivamente per coprire i debiti sui mercati finanziari globali. Questo fino ad oggi non è cambiato in niente. La maggioranza dei paesi del Terzo Mondo viene dissanguata. I vecchi regimi sviluppisti sono diventati gli ispettori del capitale monetario transnazionale ed in tal modo hanno perso ogni momento emancipatore.
Di questa necessità hanno fatto virtù le istituzioni internazionali come la Banca mondiale ed il Fondo Monetario internazionale, sotto l'egida dell'apertura neoliberista al mercato globale. Esse promettono una nuova prospettiva, diametralmente opposta alla vecchia teoria dello sviluppo: ora lo sviluppo non corrisponde più alla sostituzione delle importazioni ed alla vasta industrializzazione interna, ma piuttosto ad una industrializzazione ai fini dell'esportazione. Ciò significa che non si aspira più ad un complesso industriale ampio e su scala, che inglobi tutti i settori essenziali, a partire dall'industria di base fino alla produzione di beni di consumo, e che garantisca la coesione dell'economia interna. Invece di tutto questo, ogni paese deve ritagliarsi la sua "nicchia di esportazione" specifica, secondo la teoria del libero scambio, e concentrarsi su quei prodotti che possono essere fabbricati a costi relativamente bassi e per i quali ci siano pertanto "vantaggi comparati" sul mercato mondiale.
Purtroppo, questa teoria dei "vantaggi comparati" di David Ricardo (1772-1823) non ha mai funzionato, neanche in passato. Al massimo avrebbe potuto funzionare quando si fosse trattato di uno scambio fra nazioni che, in primo luogo, promuovono il grosso della loro produzione per mezzo dell'economia interna ed esportano o importano relativamente pochi prodotti e che, in secondo luogo, hanno quasi lo stesso livello di sviluppo. Entrambe le condizioni si applicano assai meno che mai al mondo attuale. Non ci troviamo davanti a dei livelli comparabili di sviluppo e neppure davanti ad economie nazionali coerenti. La globalizzazione del capitale ormai è già una manifestazione della crisi storica che ha raggiunto anche i paesi centrali del capitalismo. Ecco perché il divario dello sviluppo nonè diminuito. La crisi, perciò, deve colpire con virulenza maggiore i vecchi "paesi in via di sviluppo". A rigore, i concetti di "esportazione" e di "importazione" sono diventati assurdi. Soltanto sul piano formale si tratta ancora di uno scambio fra economie nazionali indipendenti.
Per questo, anche l'espressione "vantaggi comparati" finisce per diventare assurda. Non avviene in alcun modo che le nazioni producano il grosso per sé e che importino ed esportino solamente i prodotti per i quali prevalgono i "vantaggi comparati". Il nuovo immediatismo del mercato mondiale impone la fabbricazione solo dei prodi capaci di trovare il loro posto al sole a prezzi relativamente più bassi, lasciando andare tutto il resto. Anche per Ricardo questo sarebbe stato folle ed impossibile. Ciascun paese può occupare soltanto qualche nicchia di esportazione, mentre il resto viene inondato e soffocato dall'offerta globalizzata. I paesi, smettono di essere paesi e diventano zone del mercato mondiale con densità differenti. E questo equivale ad affermare che la possibilità di esistenza si apre solo a chi è in grado di prendere possesso delle nicchie del mercato mondiale. Questo non riguarda soltanto i lavoratori, ma anche gli imprenditori.
In realtà, la cosiddetta strategia dell'industrializzazione rivolta all'esportazione selettiva non è un concetto economico, ma semplicemente imprenditoriale. Gli ideologhi del libero-scambismo, cui già nel 19° secolo si deve la rovina di diversi milioni di persone, sostengono ora che la situazione non è necessariamente questa. Come presunta prova, invocano le "piccole tigri" del Sudest asiatico. Ma ci sono molte ragioni per cui anche l'opzione delle "piccole tigri" non sia sostenibile a lungo termine. Non solo esse vivono dei circuiti globali del deficit, ma minacciano anche continuamente di ricadere in nuove crisi di indebitamento a causa dei costi delle infrastrutture e degli investimenti nel quadro della razionalizzazione. A parte questo, rimane la questione se il successo relativo e storicamente forse solo effimeto di questi pochi nuovi arrivati sia estendibile a tutti.
L'industrializzazione selettiva orientata all'esportazione significa occupare nicchie nel mercato mondiale. Il termine "nicchia" tuttavia ci dice già che si tratta di uno spazio abbastanza ristretto e limitato. Le "tigri" hanno da essere un po' piccole, se vogliono, come paesi, incastrarsi in quello spazio. O per meglio dire: in realtà devono essere dei topi, poiché solo i topi entrano nella tana di un topo. Da qui la validità della regola: quanto più piccolo un paese, e quanto più piccola la sua popolazione, tanto più la strategia imprenditoriale delle nicchie di esportazione si armonizza con tutto lo Stato. E viceversa: tanto più grande un paese e tanto maggiore il suo numero di abitanti, più assurda diventa l'opzione delle nicchie del mercato mondiale.
Su questo si dispone di prove sia assolute che relative. Le stelle del mercato globale nel sudest asiatico, Hong Kong e Singapore, sono minuscole città-stato che hanno mendo di un sesto di abitanti della città di São Paulo. Questi topi hanno almeno un posto temporaneo nella tana di topo del mercato mondiale. Già il caso di paesi come la Corea del Sud, Taiwan o la Thailandia, in Asia, di Argentina e Cile, in America Latina, e di Polonia, Repubblica Ceca o Ungheria, nell'Est europeo, è un caso più delicato. Questi paesi che hanno all'incirca fra i 15 e i 50 milioni di abitanti, sono per lo più della dimensione di un gatto che di quella di un topo. Per questo, possono allocare nella nicchia solo una parte dei loro uomini e donne, e devono sopportare le ferite dovute alla compressione. Indonesia o India, in Asia, Brasile, in America Latina, e Russia, nell'Est europeo, tutti paesi con più di 120 milioni di abitanti, somigliano, a loro volta, a degli elefanti, ai quali l'offerta di un posto nella tana del topo diventa soltanto derisione o cinismo.
C'è però un paese al mondo rispetto al quale l'opzione della nicchia di esportazione assume per così dire un effetto terribilmente mostruoso e osceno. Questo paese è la Cina. L'enorme massa che eccede oggi i 1.200 milioni di abitanti non è più nemmeno un elefante, è semmai un mammut o perfino un dinosauro. Cosa avverrà quando si offrirà a questa montagna umana un confortevole posto nella tana del topo? Gli ideologhi neoliberisti del libero-scambismo sono abbastanza pazzi da fare una simile offerta con la massima ingenuità. E, di fatto, il governo cinese ha tentato negli ultimi decenni di passare alla strategia dell'industrializzazione ai fini dell'esportazione.
Nelle provincie del Sud sono state erette "zone economiche privilegiate", come Shenzen, che sono diventate attraenti per gli investitori stranieri in virtù dei benefici fiscali, dei bassi salari e per l'esenzione da imposte sociali o ecologiche. In condizioni pre-capitalistiche, lì si fabbricano principalmente componenti per imprese globalizzate del Giappone, di Hong Kong o dei paesi occidentali. I lavoratori sono lì acquartierati e vivono come prigionieri, le giornate di lavoro sono estremamente lunghe e non esistono quasi precauzioni per la sicurezza. Nel 1995, numerosi giovani lavoratori di un'impresa tessile rimasero carbonizzati perché le porte delle fabbriche non vennero aperte in seguito ad un incendio.
Nonostante le condizioni brutali, i settori di industrializzazione per l'esportazione possono impiegare, secondo una stima ottimistica, fino a 200 milioni di persone. A lungo termine, è impossibile che la Cina detti il ritmo dei mercati mondiali e, simultaneamente, porti avanti il grosso della sua riproduzione secondo criteri che non siano quelli del settore dell'esportazione. Ciò vale soprattutto per tutto il sistema creditizio e monetario così come per il tasso di cambio. L'industrializzazione volta all'esportazione è praticabile soltanto se la moneta è convertibile. Una moneta convertibile esige a sua volta che la quantità di moneta rimanga sotto controllo e che i crediti siano concessi solamente secondo regole di redditività.
Questo comporta gravi conseguenze per l'economia interna. Gran parte di più dei 200 milioni di imprese statali cinesi con più di 150 milioni di dipendenti sarebbero costrette a chiudere. Innumerevoli microimprese del settore dei servizi , che dipendono dal potere d'acquisto dei lavoratori dipendenti dell'industria di Stato, dovrebbero ugualmente chiudere. Lo stesso lavoro di cui vive gran parte dei cinesi, considerato improduttivo secondo i criteri globali, verrebbe condannato alla rovina. Al fine di evitare tali conseguenze, l'amministrazione cinese ha adottato una contabilità doppia. Non solo quotazioni differenti della moneta, ma anche forme diverse di rilevazione statistica camminano fianco a fianco. Gli elevati tassi di crescita che hanno lasciato stupefatto il mondo intero constano di elementi assolutamente eterogenei. Contengono, non solo la crescita reale dei settori di esportazione, ma anche la crescita puramente fittizia di gran parte dell'economia interna, che dipende dalle iniezioni statali della Zecca. Confrontando la statistica cinese delle esportazioni con le corrispondenti statistiche dei partner commerciali, appare, inoltre, che una parte dei numeri consiste di mere "esportazioni fittizie" che non sono mai esistite e servono solo alle imprese esportatrici per corrompere la propria burocrazia.
Mentre in Occidente, la Cina viene lusingata come pilastro del grande boom del 21° secolo, la situazione reale è diventata critica da tempo. Secondo le dichiarazioni dell'agenzia ufficiale  "Xinhua", nel 1995 il numero dei disoccupati ha raggiunto i 230 milioni, più del 25% della popolazione attiva. 150 milioni di persone vagano per il paese in cerca di un salario. L'inflazione fa sì che anche il mantenimento di base sia diventato esorbitante per molti. Prima o poi la contabilità doppia fallirà. Spiegherà allora il governo cinese, a mille milioni di abitanti, che essi sono "superflui" per l'economia di mercato? In molti villaggi, i contadini insorti rispondono alle pallottole della polizia e dell'esercito. Le province costiere già da molto tempo on trasferiscono al governo centrale le imposte riscosse. I periti dell'Istituto per gli Studi Internazionali di Londra temono lo scoppio imminente di una guerra civile in Cina. La terra del sogno del grande boom potrebbe diventare un modello catastrofico dell'industrializzazione ai fini dell'esportazione.
- Robert KurzPubblicato il 01/12/96 su "Folha de São Paulo" -
fonte: EXIT!

Nessun commento: