lunedì 29 giugno 2015

La seconda ondata

lavoroautomobile

Intervista di Peter Jellen. della Rivista Online "Telepolis", a Robert Kurz, del 18 e 19 luglio del 2010

Peter Jellen: Mr. Kurz, negli ultimi tre anni, la crisi economica ha dato luogo a tre fasi di trasformazione: dalla crisi del settore immobiliare alla crisi finanziaria, dalla crisi finanziaria alla crisi economica e dalla crisi economica alla crisi monetaria. Fino a che punto è possibile spiegare questi tre fasi della scalata della crisi per mezzo del suo concetti di crisi economica generale del capitalismo?

Robert Kurz: Queste tre fasi costituiscono soltanto l'apparenza dei fenomeni. La crisi del settore immobiliare è stata il detonatore di una crisi dell'indebitamento e finanziaria che era latente già da molto tempo. Essa non ha avuto origine nei cosiddetti eccessi speculativi, in contrasto con un'economia normale di per sé "sana", al contrario, sono state le bolle del debito e le bolle finanziarie ad essere il risultato di una mancanza di valorizzazione reale del capitale. In primo luogo, la sovrastruttura del credito non è assolutamente un fattore esterno, ma è piuttosto parte integrante della produzione capitalista di merci, e si trova ad essa mischiata. Negli ultimi vent'anni, questo rapporto interno è aumentato, fino alla dipendenza strutturale della cosiddetta economia reale nei confronti dei mercati finanziari. Per questo la crisi finanziaria ha finito per portare ad un crisi storica dell'economia.
Tutt'e tre i momenti, tutt'e tre le fasi, erano già presenti nel susseguirsi serrato della crisi, e questo fin dalla prima insolvenza del Messico nel 1982. All'inizio sembrava che si trattasse di un debito della periferia, ma a quel punto aveva già raggiunto i centri capitalistici. All'inizio degli anni 90 era intanto scoppiata la bolla immobiliare giapponese e l'indice Nikkei era sceso di un quarto, rispetto al suo picco. Fino a tutt'oggi, il Giappone non si è ripreso dalla crisi bancaria né dalla stagnazione economica interna che ne è seguita. Alla metà degli anni 90 è esploso l'indebitamento in valuta straniera (dollari) delle Tigri Asiatiche, che ha portato ad una crisi monetaria e ad una forte recessione. Fenomeni simili si sono potuti osservare nelle crisi finanziarie della Russia, alla fine dell'era Yeltsin, e dell'Argentina, alla fine del secolo scorso. Nel 2001 è scoppiata in tutto il mondo la bolla Dotcom e sono spariti dagli schermi i "nuovi" mercati, con la loro capitalizzazione borsistica astronomica delle piccole imprese di Internet, cosa cha ha portato con sé una recessione globale. Tutte queste crisi hanno avuto una cosa in comune: erano limitate ad una regione del mondo, oppure ad un settore, e per questo sembravano controllabili, soprattutto per mezzo della politica dei bassi, o nulli, tassi di interesse da parte delle banche centrali, cosa per cui il Giappone aveva fornito il modello. Questo fiume di denaro da parte delle banche centrali, in particolare dalla FED nordamericana, non solo ha prodotto la più grande bolla immobiliare di tutti i tempi, ma ha anche così alimentato un'inaspettata situazione di deficit, che si è riflessa principalmente nel circuito del deficit del Pacifico, fra gli Stati Uniti e la Cina, circuito che era riuscito per alcuni anni a mantenere l'economia mondiale. Poi, all'inizio dell'estate del 2008, gli istituti economici hanno estrapolato la crescita dei successivi decenni, nonostante fossero tutti consapevoli degli "squilibri" esistenti nella strada a senso unico delle esportazioni che seguivano la via del Pacifico. Ma il problema venne minimizzato e non fu preso sul serio, e si evitò di tener conto della realtà apparente di una "crescita indotta finanziariamente".
Il fallimento della Lehman Brothers, nell'autunno del 2008, portò alla luce del giorno il fatto che l'economia globalizzata delle bolle finanziarie era in realtà del tutto esaurita. La reazione a catena globale che provocò questo, colpì simultaneamente non solo tutti i centri, ma fino all'ultimo angolo del sistema mondiale, dall'Islanda al Kazakistan. L'economia globale basata sul deficit era rimasta senza carburante. E' per questo che non è stato possibile dominare una simile rottura per mezzo di un'inondazione addizione di denaro da parte delle banche centrali. Dappertutto ha dovuto intervenire il debito pubblico, in una dimensione che ha superato perfino quella delle precedenti economie di guerra. I pacchetti di salvataggio per il sistema bancario non hanno sanato i bilanci, li hanno solamente tenuti a galla temporaneamente. Programmi pubblici addizionali di stimolo all'economia, dello stesso ordine di grandezza, hanno potuto impedire di fatto il crollo totale, ma il problema è stato solamente dislocato dalle bolle finanziarie alle finanze pubbliche.
Le conseguenze si sono fatte notare in primo luogo con la minaccia del fallimento della Grecia e con una correlata crisi dell'Unione Monetaria Europea. La Grecia è l'anello più debole della zona euro e la zona euro, a sua volta, è l'anello più debole del sistema monetario internazionale, in quanto l'euro è stato imposto, come moneta artificiale, a livelli di produttività nazionali del tutto diversi fra loro e con una diversa forza finanziaria, ed era adatto solamente alla corrente di esportazione unilaterale di un'economia basata sul deficit. Questa crisi monetaria, tuttavia, ha anche una qualità diversa rispetto alle precedenti; è il preannuncio di una crisi generale delle finanze pubbliche, che andrà a colpire non solo i paesi centrali europei, come la Germania, la Francia e l'Inghilterra, ma anche gli Stati Uniti e la Cina.
Attualmente, si ama credere che i pacchetti di salvataggio serviranno a ripristinare la "fiducia" nel precario sistema finanziario, e che le montagne di crediti inesigibili torneranno ad essere titoli negoziabili, grazie agli enormi programmi di stimolo economico che dovrebbero innescare la "ripresa" di un'economia mondiale auto-sostenuta. Questo discorso di fine-allarme, che si aggrappa all'apparenza dei fenomeni e che viene insinuato trimestre dopo trimestre, ha fatto i conti del droghiere relativamente alle leggi sistemiche capitaliste soggiacenti. Il processo di crisi in corso a partire dal 2008 non è solo il culmine globale delle manifestazioni di crisi parziale degli ultimi trent'anni, al contrario, è anche completamente diversi da tutte le precedenti crisi cicliche o strutturali.
E' maturata così la secolare auto-contraddizione interna della valorizzazione del capitale, che può essere descritta per mezzo di due fasi. In primo luogo, lo sviluppo della produzione, forzato dalla concorrenza, attraverso l'applicazione della scienza alla produzione, ha fatto sì che la percentuale di capitale fisico (macchine, ecc.) fosse sempre più grande in rapporto alla parte di forza lavoro. Per poter utilizzare una sola singola forza lavoro produttiva di capitale, si è reso necessario mobilitare un aggregato materiale sempre più grande (aumento dell'intensità del capitale). In questo modo, i costi morti della valorizzazione del capitale sono cresciuti in misura tale che diventavano sempre meno finanziabili per mezzo dei profitti correnti (le macchine trasferivano soltanto valore prodotto precedentemente, ma non creavano alcun valore). Il risultato venne ad essere un'espansione storica, a tutti i livelli, del sistema di credito (imprese, Stato, privati). Al fine di poter produrre plusvalore attuale, è stato necessario anticipare ogni volta sempre più plusvalore futuro, sotto forma di credito. Una tale contraddizione era sopportabile fino a quando il debito poteva essere ottenuto a partire dalla produzione corrente di plusvalore reale. Con la terza rivoluzione industriale della microelettronica a partire dalla fine degli anni 1970, tuttavia, questo meccanismo di compensazione è venuto meno; la forza lavoro produttrice di plusvalore reale è stata successivamente razionalizzata, in una nuova dimensione storica. Così, le catene di credito, fondate su un futuro sempre più distante, si sono trovate minacciate di rottura e si sono effettivamente rotte in sempre più luoghi. Non è per caso che l'avvento della terza rivoluzione industriale coincida con l'inizio di questa serie di crisi finanziarie, economiche e monetarie, che ha raggiunto oggi il suo culmine.
La cosiddetta rivoluzione neoliberista non è stato un progetto politico soggettivo, ma una fuga in avanti, rispetto al problema oggettivo della mancanza di produzione di plusvalore reale. Il che ora viene rappresentato ingenuamente come errore storico, ossia, l'ampia deregolamentazione dei mercati finanziari era, di fatto, l'unica forma possibile per ritardare il collasso del sistema mondiale. La valorizzazione del capitale è stata virtualizzata sotto la forma di un "capitale fittizio" oramai insuscettibile di essere coperto per mezzo della sostanza del valore reale; l'economia basata sul debito si è trasformata in un'economia di bolle finanziarie (azioni ed immobili), con derivati sempre più avventurosi. Questa relazione si è sviluppata nel corso di più di due decenni, in un'economia reale deficitaria, senza precedenti nella storia capitalista. La congiuntura economica del deficit deve, pertanto, essere così designata perché la valorizzazione apparente non rimane, come nelle precedenti bolle a breve termine, nel cielo finanziario, ma viene destinata, come potere di acquisto non sostanziale, al consumo delle classi medie (nonostante la caduta dei salari reali), così come all'investimento nell'economia reale, essa stessa diventata irreale secondo i criteri capitalistici, stimolando in questo modo la congiuntura economica globale. I milioni di posti di lavoro apparentemente reali nelle industrie volte unilateralmente all'esportazione sono un'illusione ottica, poiché la vendita dei loro prodotti non si basa su profitti e salari reali, ma viene alimentata a partire da una sovrastruttura di credito divenuto dubbio e di bolle finanziarie.
Dal momento che il fiume di denaro delle banche centrali, che ha consumato la sua rottura con la dottrina monetarista del neoliberismo (limitazione della massa monetaria), è stata una disperata misura di emergenza. La recente dislocazione del problema verso il debito pubblico che di certo non risolve il problema, spinge soltanto verso il collasso, che si spera arrivi a breve. In nessun luogo si vedono nuovi potenziali di valorizzazione reale, per i quali i programmi pubblici di stimolo economico possano funzionare da detonatori. Così, il legame interno fra crisi finanziaria, economica e monetaria si rivela come barriera storica intrinseca al capitale, al livello, da esso stesso generato, di sviluppo delle forze produttive e dell'applicazione della scienza alla riproduzione. Il grado di socializzazione negativa raggiunto (sulla base del lavoro e della concorrenza) non può più essere inquadrato nelle categorie capitalistiche.

Peter Jellen: Quali sono ora i rischi dell'inflazione o della deflazione?

Robert Kurz: Inflazione e deflazione sono solo due diverse forme della svalorizzazone degli stati di aggregazione del capitale. La disoccupazione strutturale di massa, la precarizzazione e i bassi salari su scala mondiale, come risultato della terza rivoluzione industriale, hanno già portato ad una svalorizzazione deflazionaria della merce forza-lavoro, ossia, secondo Marx, della componente "variabile" del capitale (la sola che produce nuovo valore). Il rovescio è stato l'economia delle bolle finanziarie, la costruzione di diritti o crediti non sostanziali e, pertanto, fittizi, come l'inflazione degli attivi (asset inflation). La catena globale di questa inflazione degli attivi può mantenersi per molto tempo, senza trasformarsi in una grande svalorizzazione del suo stesso mezzo che è il denaro, in quanto si estende attraverso molte zone monetarie. Nonostante questo, tale svalorizzazione era prevedibile nella fase finale dell'ultima congiuntura del deficit, quando i tassi di inflazione in molte economie emergenti, inclusa la Cina, si avvicinavano al 20% e ci si attendeva, negli Stati Uniti, un tasso dal 6 al 10%. In fin dei conti, la creazione di potere d'acquisto senza sostanza, attraverso le bolle finanziarie, nonostante le loro complesse vie di mediazione globale, aveva portato al medesimo risultato finale del ricorso classico alla stampa di moneta.
Tuttavia, questo scenario era lontano quando il crollo dei mercati finanziari fece bruciare, in un colpo solo, miliardi di dollari e di euro di attività fittizie, o li rimandò nelle casse delle banche sotto forma di titoli tossici, realmente senza valore, ma garantiti dagli avalli statali, e che vennero contabilizzati fuori dal bilancio. L'inflazione degli attivi non si trasformò in inflazione di denaro, ma in deflazione degli attivi. Dal momento che, in questo modo, il meccanismo finora esistente dell'economia di deficit era velocemente arrivato ad un'impasse, bisognava che seguisse una riduzione ugualmente rapida dell'eccesso di capacità globale della produzione (in particolare nell'industria automobilistica), che era stato costruito soltanto grazie al potere d'acquisto fittizio, a partire dalle bolle di indebitamento e di finanziamento; quindi, una svalorizzazione generalizzata del capitale fisso nelle fabbriche (mezzi di produzione) e del capitale di merci sul mercato (merci invendibili), associata ad un nuovo focolaio di svalorizzazione della forza-lavoro (licenziamenti collettivi). Fino ad ora continua di fatto un'onda globale fallimenti, ma la deflazione del capitale fisso e del capitale in merci può essere rallentata temporaneamente grazie ai giganteschi programmi statali finanziati a credito. Sia nel settore finanziario come nel settore produttivo è stato, così, impedito il famoso "risanamento", contro le tanto amate leggi di mercato, poiché, in assenza di nuovi potenziali di valorizzazione reale, dopo questo "risanamento" rimarrebbe soltanto un deserto economico.
La rimozione dell'eccesso di capacità, tuttavia, è stata solamente ritardata; verrà eseguita, in un futuro prossimo, dalla crisi delle finanze pubbliche. Tutti i programmi di stimolo e di aiuto economico sono, in ultima analisi, consumo pubblico improduttivo, sebbene, con essi, le imprese che sono sotto i riflettori vengono mantenute in vita per mezzo della respirazione artificiale. Lo Stato avrebbe dovuto fornire il credito per questo consumo attraverso la tassazione (imposte) sui profitti e sui salari, a partire dalla produzione di plusvalore reale. Ed è qui che il serpente si morde la coda, in quanto tutta la manovra si rende necessaria solamente proprio perché la produzione di plusvalore reale ormai non avviene con un volume sufficiente. L'ultima ratio in una situazione così disperata equivale a lavorare alla stampa di denaro, così come avviene, com'è noto, nell'economia di guerra, ora però con la finalità di prolungare artificialmente la vita del modo di produzione capitalistica.
Le banche hanno già chiuso alcune valvole di sicurezza, accettando parzialmente come "garanzie", contro le loro stesse regole, titoli tossici delle banche, o comprando titoli pubblici, potenzialmente senza valore, dei candidati alla bancarotta nazionale (BCE). In questo modo, da un lato, si aumenta lo sviluppo di un enorme potenziale di inflazione, ossia, la svalorizzazione dello stesso mezzo capitalista che è il denaro, dal quale partono tutti gli stati di aggregazione del capitale e nel quale essi devono essere convertiti. Una volta che l'inondazione di denaro dei pacchetti di salvataggio e programmi di stimolo pubblici viene iniettata direttamente nelle rispettive zone monetarie (al contrario dell'inondazione di denaro delle banche centrali verso i mercati finanziari trans-nazionali), il periodo di incubazione per la realizzazione del potenziale inflazionistico è molto minore rispetto a quello dell'economia trans-nazionale delle bolle finanziarie. Come contropartita, si evita, proprio per questo, di accendere la stampante di denaro. L'attuale relativa stabilizzazione, ad un grado inferiore rispetto a quello dei tempi del boom della congiuntura del deficit, viene supportata unicamente attraverso i programmi pubblici; tenendo in conto la situazione reale della valorizzazione, lo Stato dovrebbe sovvenzionare permanentemente l'economia, e questo sarebbe possibile soltanto per mezzo della stampa di denaro. Di conseguenza, i programmi di risparmio e le operazioni di soccorso si neutralizzano a vicenda.
Questo dilemma rimarrà costante. L'impatto di queste misure, che si escludono a vicenda, avrà come conseguenza il fatto che, semplicemente, la deflazione e l'inflazione si annullerano reciprocamente e si dissolveranno nell'aria. Dal momento che, sia nel caso dell'inflazione (in riferimento al denaro in quanto tale), sia nel caso della deflazione (in riferimento alla forza-lavoro, alle attività monetarie, al capitale fisico ed al capitale di merci), si tratta soltanto di differenti forme di svalorizzazione degli elementi della riproduzione capitalista, si potranno, dapprima, anche verificarsi simultaneamente. Questo sarà tanto più vero se la politica monetaria ed economica, guidata dalla necessità, oscillerà tra opposizioni contraddittorie. Già alla fine degli anni ottanta si sono verificate simultaneamente, come prima conseguenza della mancanza di valorizzazione reale, stagnazione deflazionaria e inflazione crescente (stagflazione). Questo è avvenuto proprio a causa della rivoluzione neoliberista, la quale, tuttavia, come economia deregolata di bolle finanziarie, ha ottenuto solamente un rinvio storico. Ora il problema di allora si ripresenta su una scala assai maggiore di contraddizioni interne. E' possibile, pertanto, sia uno shock inflazionistico che uno shock deflazionistico, se l'orientamento sarà completamente verso una delle opzioni in conflitto, oppure un periodo di stagflazione, con oscillazioni molto più violente di quelle occorse nei trent'anni precedenti, se entrambe le opzioni si alterneranno, con misure mutuamente escludenti in rapida successione.

Peter Jellen: I critici del neoliberismo accusano i politici tedeschi, nel caso della crisi del bilancio greca, di strangolare il concetto di Stato sociale per mezzo delle imposizioni di risparmio del FMI, tentando di imporre soluzioni assurde. Lei concorda con i critici, oppure, secondo la sua opinione, una simile valutazione evita il cuore del problema?

Robert Kurz: Una mera critica del neoliberismo (come nel caso di ATTAC o di gran parte della sinistra) è tronca, in quanto non penetra il funzionamento interno della crisi, ma vorrebbe assistere soltanto ad una politica economica illusoria. Tutto questo è collegato alla speranza di una svolta keynesiana, che riporti ad un capitalismo "buono", con investimenti in posti di lavoro e con i bonus da parte dello Stato sociale. Si tratta di sogni idealisti che, di fatto, non affrontano il cuore del problema, poiché sia la dottrina neoliberista che la dottrina keynesiana presuppongo ugualmente, in maniera cieca, il modo di produzione capitalista, con le sue categorie e criteri. Ma, sotto le condizioni qualitativamente nuove della crisi, è lo stesso modo di produzione dominante  a costituire il problema. Il keynesismo sta ritornando solamente come gestione della crisi e dello stato di emergenza, ossia, come continuazione del neoliberismo con altri mezzi. Quindi può soltanto aggravare le contraddizioni interne.
E' vero, tuttavia, che non sono solo i politici tedeschi a stravolgere le relazioni e a cercare soluzioni assurde; anche la vana speranza di uno Stato sociale keynesiano ri-regolato è in sé un approccio assurdo. Dove sta l'assurdo? Oltre al grande circuito del deficit del Pacifico, c'è stato anche un circuito minore del deficit europeo, per cui l'euro in realtà è stato concepito, e in verità è stato concepito nell'interesse della Germania. Le enormi eccedenze di esportazione tedesca sono state inviate per il 40% verso l'Unione Europea, ed in particolare verso la zona euro. Queste eccedenze sono la contropartita dei deficit commerciali e dei servizi dei paesi dell'Unione Europea, soprattutto quelli del sud dell'Europa. Questi sono stati oggetto di concorrenza sleale, con l'aiuto dell'euro, in quanto hanno cessato di avere compensazioni per mezzo della svalutazione delle monete nazionali. Dal momento che, in tutto il mondo, la rianimazione relativamente debole dell'economia di deficit viene supportata trasferendo il problema dell'economia delle bolle finanziarie verso il credito pubblico, adesso i deficit di bilancio dei paesi europei vicini costituiscono il rovescio di gran parte dell'ascesa delle esportazioni tedesche.
Le élite tedesche non vogliono riconoscere questa relazione, e neppure i presunti vantaggi nelle esportazioni. Qui si inquadra, al di à dell'unione monetaria, il fatto che la Germania, a partire dal piano Hartz IV e non solo, dispone del maggior settore di bassi salari in Europa, ed il fatto che i salari reali in questo paese, con l'appoggio ancora attuale dei sindacati, si siano abbassati più rapidamente che altrove. Il costante aumento delle eccedenze di esportazione, su questa base, ha portato ad una relativa solidità finanziaria della Germania. Ma ora le basi di questo modello vengono messe in discussione. All'interno dell'Unione Europea, si manifesta un conflitto fra i paesi con deficit e la Germania. Anche sulla scala più grande delle relazioni transatlantiche, si sono invertiti i fronti della politica economica. Gli Stati Uniti, i paesi con un deficit maggiore, così come gli europei del sud, esigono che la Germania desista da qualsiasi politica di risparmio e dia impulso al consumo interno per ridurre gli squilibri. Il mondo è a testa in giù: il vecchio pioniere del neoliberismo ora esige una politica economica diametralmente opposta, assumendo un ruolo che i sindacati tedeschi non ritengono di essere capaci di assumere. Questo sembra andare incontro alle speranze keynesiane, ma rimane divertente, nella misura in cui forzerebbe soltanto l'opzione inflazionistica. Per far fronte al dilemma, sia il Comitato Esecutivo del FMI che gli Stati Uniti e parte dell'Unione Europea amoreggiano con l'idea di una presunta "inflazione controllata"; ma, considerata la situazione economica, ben presto si perderebbe il controllo.
La contraddizione interna dell'Unione monetaria europea si è già acutizzata a tal punto che, recentemente, si è resa necessaria una gigantesca azione di salvataggio delle finanze pubbliche greche, cui potrebbero seguire altri (Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda ed Europa Orientale). Non si è trattato di un qualche aiuto disinteressato verso la Grecia, ma semmai di un'operazione di appoggio soprattutto alle grandi banche tedesche e francesi, che non riescono a sbarazzarsi di migliaia di milioni di titoli di Stato greci, la cui svalorizzazione provocherebbe nuovamente un collasso del sistema finanziario. Questo piano di salvataggio provvisorio ha lo stesso carattere dei pacchetti di salvataggio successivi allo scoppio delle bolle finanziarie, ora in termini di finanza pubblica. La misura si applica solo al problema dei titoli di debito pubblico già collocati. Per evitare la possibilità dell'inflazione, la Germania assume ora la posa del padre di famiglia che pretende di condannare i greci ed altri peccatori indebitati forzandoli a violenti programmi di risparmio. Tuttavia, se questi venissero realmente messi in pratica, anche il miracolo dell'esportazione tedesca si interromperebbe per sempre. Questo è l'altro lato dell'assurdo. Lo sciovinismo dell'esportazione tedesca ha i piedi di argilla, in quanto si basa proprio sul deficit degli altri.
Non si può sfuggire a questo dilemma. Le élite, naturalmente, in fondo sono consapevoli di questo. Le dimissioni, con deboli scuse, dei titolari delle alte cariche politiche, ultimamente del Presidente federale tedesco Köhler, sono un indizio del fatto che, dietro le quinte dell'ottimismo ufficiale professionale, le cose rimangono abbastanza difficoltose. Questo potrebbe ripetersi in altri paesi. Una classica uscita dal problema in stile Helmut Kohl non è più possibile. Quindi, si perseguono idee di soluzioni contraddittorie, le quali devono sempre tener conto dei sondaggi elettorali, mentre non si arrivi ad una dittatura di emergenza o si scateni una lotta generale. Il modo di produzione capitalista non può essere messo in discussione, quindi, come nella prima fase della crisi finanziaria, si va alla ricerca dei colpevoli. La lotta interna al governo nero-giallo non è specifica dei suoi partiti, al contrario, data la situazione problematica, si ripete in ogni coalizione. Non stupisce che alcuni combattenti gettino la spugna.

Peter Jellen: Ci può dare un'opinione su quello che succederà nel futuro prossimo?

Robert Kurz: Dal momento che le politiche monetarie ed economiche sono contraddittorie, nei prossimi anni c'è da aspettarsi una seconda ondata di crisi economica globale. La quale potrebbe avere come punto di partenza la prova del fuoco dell'Unità Monetaria Europea. In casi come quello della Grecia, si tratta, formalmente, di uno scenario simile a quello sofferto dall'Argentina più di dieci anni fa. Ma la crisi dell'Argentina era limitata ad un solo paese che era quasi senza peso nell'economia mondiale. Assai diverso è il caso che minaccia il fallimento di uno Stato dentro la zona euro, in quanto ciò potrebbe gettare nel baratro tutta l'Unione Europea. Il collasso del circuito del deficit europeo arriverebbe all'osso dell'economia di esportazioni tedesca e verrebbe quindi meno l'attuale forza finanziaria della Germania. Questo significherebbe grandi fallimenti di massa e licenziamenti che finora in questo paese sono stati evitati, e non solo. Anche le finanze pubbliche tedesche, comunque già indebitate, arriverebbero ad una situazione simile all'attuale situazione delle finanze pubbliche greche, se, dopo il crollo delle esportazioni unilaterali, dovesse crollare anche il rating di credito sui mercati finanziari. Un tale sviluppo sarebbe un disastro non solo per tutto lo spazio europeo, ma anche per la situazione economica globale, vista l'importanza dell'Europa nell'economia mondiale.
La situazione non è migliore nel grande circuito del deficit del Pacifico, fra Cina e Stati Uniti. Lì, da entrambe le parti ci si aspetta che gli altri creino le condizioni per una maggiore stabilità. I programmi governativi di stimolo ed i sussidi, negli Stati Uniti, hanno realmente contrastato, in parte, la caduta dei consumi, sebbene non sia stato possibile raggiungere nuovamente il periodo precedente la crisi; ma questo è avvenuto al costo per cui il credito pubblico finanziato dall'esterno ha raggiunto i propri limiti, ed è emersa la prospettiva per cui è stato messo in discussione il finanziamento della macchina militare e delle missioni di guerra, che sono la garanzia della posizione di potenza mondiale. Gli Stati Uniti esigono dalla Cina una rivalutazione da tempo ritardata della sua moneta nei confronti dei paesi con un'eccedenza di esportazioni e, come avviene in rapporto alla Germania, un rafforzamento del consumo interno finanziato dal debito, al fine di diminuire lo squilibrio dei flussi commerciali e rafforzare le sue proprie esportazioni, le quali devono compensare il debole consumo interno. Ma, nella maggior parte dei settori industriali, non hanno la capacità di esportazione necessaria, la cui costruzione richiederebbe elevati costi di investimento. Inoltre, dovrebbero essere ridotte le corrispondenti capacità in Cina, in quanto le imprese degli USA, così come le imprese europee e giapponesi, hanno investito pesantemente in Cina, grazie al vantaggio dei costi, al fine di rifornire il proprio mercato e quello degli altri.
Ma la Cina, da parte sua, come la Germania, non vorrebbe rinunciare al suo vantaggio nelle esportazioni, che si basa sul lavoro a basso costo su una moneta sottovalutata artificialmente, perché in entrambi i casi tutta l'economia è rivolta alle esportazioni unilaterali. Un cambiamento richiederebbe anni, se non decenni, e andrebbe a sbattere ancora più rapidamente contro i propri limiti, in quanto tali squilibri ed il suo fragile finanziamento a credito costituiscono ormai proprio l'elisir di lunga vita della situazione economica globale. E' vero che la Cina, con il suo fondo di enormi riserve di valuta, ha lanciato il maggior programma di stimolo economico di tutto il mondo e di tutti i tempi, avendo obbligato le sue banche a prestiti massicci. E' per questo che non può permettersi qualsiasi seria correzione monetaria, in quanto significherebbe svalutare le sue riserve di valuta massicciamente accumulate. I programmi di stimolo economico della Cina rafforzano il consumo interno solamente in forma indiretta, e non nella misura necessaria a trainare l'economia mondiale, come avveniva prima con il consumo degl Stati Uniti, finanziato esternamente. La maggioranza dei programmi scorre verso le infrastrutture e verso le capacità di produzione aggiuntive, tutte orientate a far ripartire la macchina dell'esportazione unilaterale. Se non fosse così, allora la Cina verrebbe rovinata da enormi investimenti, con relative conseguenze per il sistema finanziario. Inoltre, la Cina non può sostenere un programma di questo tipo e, simultaneamente, continuare a comprare titoli del tesoro statunitense nella stessa misura in cui lo ha fatto finora.
Pertanto, nella zona del Pacifico si ripete il dilemma europeo su scala maggiore. Entrambi i circuiti di deficit attualmente camminano verso la frana, che continua ad essere arginata, grazie al fiancheggiamento dell'economia interna, alimentata al costo di programmi pubblici di stimolo economico. Se questi finissero, ci sarebbe il rischio del crollo. La seconda ondata di crisi globale potrà venire tanto dalla regione del Pacifico, quanto dall'Europa, oppure da entrambe le parti nello stesso tempo. Tutte le storie a proposito dell'attuale successo sono soltanto delle istantanee, simili a quelle all'auge dell'economia globale di deficit, fra il 2007 e l'estate del 2008. Attualmente, le percentuali di successo della crescita e delle esportazioni sono ancora più dubbie di allora, in quanto partono da un livello iniziale assai inferiore, dopo la caduta della situazione economica mondiale. Il pensiero positivo resiliente marcia verso la sua Waterloo, che è vicina. La questione è solo quella di sapere quale periodo di incubazione richiede questa volta la nuova situazione contraddittoria, prima di scaricarsi. Cosa che può essere una consolazione per il pensiero a breve termine dell'economia di mercato, il cui orizzonte non va al di là del proprio naso.

Intervista pubblicata sulla Rivista "Telepolis" del 18 e del 19/7/2010

fonte: EXIT!

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