lunedì 30 settembre 2019

Pop

La nozione di popolo in Marx, tra proletariato e nazione
- di Isabelle Garo -

La questione del popolo in Marx è  complessa, a dispetto delle tesi troppo nette che spesso gli vengono attribuite in proposito. A una prima lettura, in effetti, si è portati a pensare che Marx costruisca la categoria politica di proletariato proprio in contrapposizione a quella classica di popolo, eccessivamente inglobante e soprattutto omogeneizzante, la quale, inoltre, occulterebbe i conflitti di classe. In tal senso, la nozione di popolo sarebbe  chimerica, foriera di pericolose illusioni laddove politicamente strumentalizzata. Tuttavia, se Marx diffida di qualsiasi concezione organica di popolo, riprende comunque il termine in svariate occasioni e, in particolare, quando si occupa delle lotte nazionali del suo tempo, in specie se mirano a conquistare l’indipendenza dalle potenze colonizzatrici. E vi ricorre ugualmente se si tratta di definire le specificità nazionali, caratterizzanti i rapporti di forza sociali e politici costantemente singolari, i quali, a suo modo di vedere, vanno sempre analizzati in un tale quadro nazionale. Infine, la parola popolo designa un certo tipo di alleanza di classe in un contesto di conflitti sociali e politici di grande ampiezza. In queste tre occorrenze, Marx non separa mai il termine «popolo» dalle divergenze sociali, quali che siano, al contrario. Va tenuto a mente come egli lo erediti direttamente dalla Rivoluzione francese e dalle opere politiche che le fanno da cornice, da Rousseau sino a Babeuf e Buonarrotti: secondo questa tradizione, il concetto di popolo indica i gruppi sociali opposti all’aristocrazia,  niente a che fare, dunque, col sostantivo indifferenziato valorizzato dagli usi posteriori. Affronterò  questi tre diversi usi marxiani del termine, confrontandoli alla questione del proletariato elaborata da Marx contemporaneamente. Elaborazione nel corso della quale Marx si interessa, in modo specifico, alle lotte di emancipazione e alla colonizzazione, per quanto riguarda India e Cina, impegnandosi attivamente nel sostegno all’Irlanda e alla Polonia.

I. Popolo e proletariato, concetti antagonisti?
Non bisogna dimenticare che la nozione di proletariato ha origini lontane nel tempo. inizialmente essa non indica il popolo, ma una sua frazione, caratterizzata dalla condizione sociale. Condizione definibile secondo due modalità distinte: sia come deprivazione e povertà; sia come situazione di sfruttamento e dominazione, qualora ci si concentri su un modo di produzione, e quindi una funzione sociale attiva, e non esclusivamente su uno statuto economico subalterno. Schematicamente, è corretto affermare che in Marx tale concetto transita, irreversibilmente, dal primo al secondo significato.
Riprendiamo, brevemente, il corso di questa storia: nel diritto romano i proletari, dal latino «proles», «lignaggio», costituiscono l’ultima classe dei cittadini, sprovvisti di qualsiasi proprietà e considerati utili solo per la loro discendenza. A questo titolo essi sono esentati dal pagamento delle imposte. Recuperato dal francese medio, il termine sperimenta un rinnovato interesse nel XIX secolo, allorché si sviluppa la critica sociale, politica  economica del nascente mondo industriale. In tale contesto, il sostantivo «proletariato» appare nel 1832 a indicare l’insieme dei lavoratori poveri, la cui miseria viene percepita come risultato dell’egoismo delle classi dirigenti. È la tesi difesa da colui che lo utilizza per primo, Antoine Vidal, nel primo giornale operaio Francese, L’écho de la fabrique [*1]. È in riferimento diretto alla rivolta dei canut [operai tessitori della seta, n.t.d.] lionesi del 1831 che egli inventa il termine nel 1832. A detta di Vidal, «la classe proletaria» è al contempo la più utile alla società e la più disprezzata. Colpisce anche il fatto che egli rivendichi come essa sia «qualcosa», rifacendosi, in tal modo, alle parole e alla tematica di Sieyès in Che cos’è il Terzo stato? (1789), ridefinendo, allo stesso tempo, i confini sociali di una classe popolare che non coincide più con in contorni giuridici del terzo stato dell’antico regime.
In un secondo tempo viene trasposto in tedesco, nel 1842, dall’economista Lorenz von Stein, studioso delle correnti socialiste, in particolare quelle francesi, pur essendo ostile al comunismo. In seguito viene ripreso dal giovane hegeliano Moses Hess, all’epoca vicino a Engels e Marx, tutti e tre comunisti dichiarati. Lo si ritrova nel 1843, negli scritti di Marx, nei quali acquisisce un senso nuovo e un’importanza teorica centrale. Una ridefinizione, quella marxiana, che si articola in tre tappe.

1 / Dapprima il termine compare alla fine del 1843, in conclusione della critica apportata dal giovane Marx alla filosofia hegeliana del diritto. Nell’introduzione da lui redatta per il manoscritto di Kreuznach, nel quale viene affrontata la critica della concezione hegeliana dello stato, viene designato il soggetto sociale protagonista dell’emancipazione generale della società civile moderna. Il proletariato, in quanto classe che «subisce l’ingiustizia di per sé», non può che «conquistare nuovamente sé stessa soltanto riconquistando completamente l’uomo» [*2].

2 / Ne L’ideologia tedesca (1845) e in seguito nel Manifesto del partito comunista (1848), Marx e Engels affermano il ruolo di motore della storia giocato dalle lotte di classe e definiscono l’antagonismo moderno che contrappone il proletariato e la borghesia. Si precisa in tal modo un’analisi nella quale si era inizialmente impegnato Engels nel suo studio La situazione della classe operaia in Inghilterra. Il proletariato si distingue per i posto occupato in un modo di produzione e nei rapporti sociali corrispondenti. Esso costituisce, allo stesso tempo, la classe che produce la ricchezza senza possedere i mezzi di produzione, e quella chiamata, proprio in ragione di questo fatto, alla trasformazione radicale del capitalismo.

3 / Infine, nel Capitale e nel vasto insieme dei manoscritti preparatori, la scoperta del plusvalore e della sua origine: la frazione di tempo di lavoro non pagata della quale si appropria il capitalista, consente a Marx di precisare tale nozione e di esporne la dimensione dialettica. Il proletariato non è innanzitutto povero, bensì espropriato della ricchezza sociale da lui prodotta. In conseguenza di ciò, la sua unità e la sua identità di classe si costruiscono in contraddizione col carattere privato dell’appropriazione borghese, prefigurando il comunismo. Ma, d’altra parte, il proletariato subisce una forma di concorrenza tra i suoi membri, concorrenza favorita dalla classe capitalistica e che costituisce un potente ostacolo alla sua presa di coscienza unitaria e al suo ruolo rivoluzionario.

Il proletariato in senso marxiano è una nozione che si vuole socialmente descrittiva  ma allo stesso tempo presenta una dimensione politica e filosofica costitutive. Vorrei insistere soprattutto sul primo momento di tale costruzione. In effetti, nell’introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, scritta a partire dalla fine del 1843, Marx sviluppa la tesi concernente il ruolo storico del proletariato moderno, e più specificamente del proletariato tedesco. Ora, lungi dal proporre la sostituzione del proletariato al popolo, vi si mettono in relazione dialettica i due concetti. Da una parte, Marx distingue due storie nazionali e due scenari di emancipazione: «Noi infatti abbiamo condiviso le restaurazioni dei popoli moderni senza condividerne le rivoluzioni. Abbiamo subito la restaurazione, in primo luogo perché altri popoli osarono una rivoluzione, e poi perché altri popoli subirono una controrivoluzione» [*3].
Qui le nozioni di popolo e di rivoluzione (o di controrivoluzione) si richiamano l’un l’altra. Esistono delle culture politiche popolari, e tali politiche conducono a porsi a favore o contro la rivoluzione, quest’ultima avente come modello la «grande» rivoluzione antifeudale francese. In rapporto a questa prospettiva, la quale coniuga popolo e rivoluzione, Marx utilizza il concetto di proletariato collegandolo a un nuovo tipo di rivoluzione, più avanzata, che può essere qualificata come anticapitalista o comunista, e che radicalizza quella precedente. Ne deriva, da una parte, che le lotte tedesche, per quanto arretrate, presentano comunque una portata universale, allo stesso titolo della Rivoluzione francese a suo tempo. Successivamente si ritroverà, ben più sviluppata, l’idea per cui le lotte di emancipazione di un popolo sono importanti per la sorte di tutti gli altri. Da tale punto di vista, la solidarietà con i popoli oppressi è molto più della filantropia. Detto in altri termini, essa non è solo di natura morale, bensì di ordine fondamentalmente politico: «E anche per i popoli moderni questa lotta contro la meschinità dello status quo tedesco non può essere priva d’interesse; lo status quo tedesco costituisce infatti l’aperto compimento dell’ancien régime, e l’ancien régime è la tara occulta dello stato moderno» [*4]. Così la nozione di popolo conserva la propria validità, a dispetto dei suoi limiti, a causa del persistere dell’ancien régime, ivi compreso nelle nazioni che hanno realizzato la loro rivoluzione antifeudale. Ossia, questa rivoluzione parziale e incompiuta si fa matrice di rivoluzioni ben più radicali, nello stesso modo in cui i popoli si determinano come classi popolari, esse stesse, più o meno radicali, essendo il proletariato il nome di una tale radicalizzazione, allo stesso tempo sociale e politica. È a questo punto che ci si imbatte in una definizione del proletariato estremamente originale: frazione del popolo, lo rappresenta nella sua interezza così come, tendenzialmente, l’umanità stessa, a causa della condizione che subisce e delle esigenze politiche e sociali delle quali è portatrice. Si è, dunque, ben lontani dal proporre una secessione sociale, che isolerebbe il proletariato dalle altre componenti, facendone un’avanguardia sociale e politica; viceversa, è come rappresentante universale, rappresentante di fatto della sofferenza, dello sfruttamento e della volontà di emancipazione, che il proletariato si distingue in quanto classe offensiva capace di organizzarsi politicamente. Tuttavia, è necessario precisare che esattamente in virtù di questa dimensione universale la rivoluzione a venire non è, e non sarà, una semplice rivoluzione politica. «Dov’è dunque la possibilità positiva dell’emancipazione tedesca?» è l’interrogativo posto da Marx. Interrogativo al quale così risponde: «nella formazione di una classe con catene radicali, una classe della società civile che non sia una classe della società civile, una classe che sia la dissoluzione di tutte le classi, una sfera che, per la sua sofferenza universale, possieda un carattere universale (…) che non possa più appellarsi a un titolo storico, bensì al titolo umano (…), una sfera, infine, che non possa emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società, emancipandole di conseguenza tutte, e che sia, in una parola, la perdita completa dell’uomo e possa quindi conquistare nuovamente se stessa soltanto riconquistando completamente l’uomo. Questa decomposizione della società, in quanto classe particolare, è il proletariato» [*5]. Marx non cambierà idea riguardo al carattere umano, vale a dire universalmente umanizzante, dell’emancipazione sociale. Ciononostante, dopo essere entrato in quello che definisce il «laboratorio della produzione», ossia dopo essersi impegnato nella critica dell’economia politica, svilupperà una concezione più complessa e meno ottimista del proletariato come classe offensiva, lasciando sempre maggior spazio alle contraddizione che lo dividono. La concorrenza operaia è inscritta nei rapporti di produzione capitalisti e sistematicamente strumentalizzata dalla borghesia, in particolare dalla sua componente industriale. Ma Marx insisterà ugualmente sull’emergere, nel quadro della nascente grande industria, del lavoratore combinato complessivo, portatore di una cultura e di facoltà umane sviluppate, lontano da ogni miserabilismo e da qualsiasi «vittimizzazione». Infine, lascerà posto alla complessità del processo politico che dovrebbe condurre all’abolizione dell’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta, e dunque al comunismo. Ad ogni modo, la concezione del rapporto tra proletariato e popolo si rivela sin dall’inizio contraddittoria, o più esattamente: eminentemente dialettica, il che è assai differente. Poiché Marx, che si occupi di politica o economia, non cessa mai di essere filosofo. Qui la singolarità è il luogo nel quale emerge l’universale, e non il luogo della formazione di un’identità separata e chiusa in se stessa. Lo stesso vale per le nazionalità: suddivisione dell’umanità in entità politiche mai completamente isolate, le nazioni sono in alcuni casi, e in determinati momenti, espressione di una storia emancipatrice che le rende universali.

II. Popoli in lotta e liberazione nazionale
Così, parallelamente alla specificazione sociale e politica delle classi nel quadro del modo di produzione capitalista, la nozione di popolo continua essere utilizzata da Marx per pensare delle realtà nazionali diverse, irriducibili, nelle quali si specificano singolarmente i rapporti di classe. Anche su tale punto, spesso viene imputata a Marx una sottovalutazione profonda della questione delle nazionalità e delle differenze nazionali, in previsione di un proletariato mondializzato, costituito di operai che «non hanno patria», come proclama il Manifesto del partito comunista [*6] nel 1848, alla vigilia della «primavera dei popoli», nel momento in cui si risvegliano le coscienze nazionali. Ancora una volta, l’analisi marxiana è ben più complessa di quanto si pensi abitualmente. Da un lato, Marx e Engels, riconoscono questa dimensione nazionale, costitutiva della costruzione di distinti movimenti operai, funzione di un grado di sviluppo economico e sociale determinato, così come di un livello di cultura politica determinata: «sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia». [*7]
Qui l’idea di nazione tende a rimpiazzare quella anteriore di popolo, definita in base al suo antagonismo con l’aristocrazia. La nazione è il quadro di un rapporto sociale che coinvolge tutte le classi, che siano dominanti o dominate. Ma l’analisi prosegue anche su un altro livello: da una parte si sofferma sulla capacità uniformante del mercato mondiale, la quale entra in contraddizione, dall’altra parte, col mantenimento, e il rafforzamento, delle specificità nazionali. In tal modo, Marx e Engels, per un certo tempo, continuano a pensare che la rivoluzione tedesca, prima antifeudale e poi borghese, «non può essere che l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria» [*8]. Uno scenario, quest’ultimo, che verrà profondamente modificato in seguito, e ripetutamente. Se la dimensione nazionale viene presa infatti in considerazione, Marx e Engels affermano, contemporaneamente, la forza di espansione mondiale del capitalismo, forza ritenuta, inizialmente, omogeneizzante, tesi corretta da Marx in seguito. Si potrebbe supporre che in un testo pensato quale manifesto politico, Marx e Engels, si impegnino a far valere una prospettiva che in seguito verrà qualificata come «internazionalista», della stessa ampiezza del mercato mondiale in via di formazione, ma latrice di tutt’altra prospettiva. Di fatto, il testo che segue alla celebre affermazione «Gli operai non hanno patria» aggiunge: «Ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch’esso nazionale, benché non certo nel senso della borghesia» [*9]. Evidentemente si potrebbe chiosare: in alcun modo nel senso inteso in seguito dai nazionalismi sciovinisti. Marx e Engels così proseguono: «L’isolamento e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e con le condizioni di vita ad essa rispondenti. Il dominio del proletariato li farà scomparire ancora di più». E poche righe dopo leggiamo: «Con lo sparire dell’antagonismo fra le classi nell’interno della nazione scompare l’ostilità fra le nazioni stesse» [*10]. Internazionali, sebbene anticipatamente, le lotte dei proletari nazionali hanno la nazione come quadro ma non come obiettivo. Il proletariato rappresenta qui, seppur temporaneamente, la figura del popolo, o più esattamente: la sua riconfigurazione sociale e politica? Sì e no. No riguardo all’argomentazione da me chiarite, si invece, nel quadro delle lotte nazionali miranti all’emancipazione. In questo caso, un parallelismo emerge tra la lotta del proletariato, in un contesto nazionale quale che esso sia, e quella di alcuni popoli, ai quali l’oppressione subita conferisce un ruolo storico di primo piano, e ancora una volta, una portata universale. La parola «popolo» vede allora coincidere i suoi due significati, fusi in un’inedita definizione. Il popolo è un’entità politica delimitata nazionalmente, ma allo stesso tempo è quell’entità sociale in lotta con e contro altri sul piano internazionale: possiamo affermare che la valenza descrittiva o analitica del termine recupera di nuovo la propria dimensione politica, aperta alla radicalizzazione. Se la nozione di «popolo» non diviene occasione di una teorizzazione separata, essa non scompare dal dizionario marxiano poiché è la sola a consentire di comprendere i movimenti di indipendenza nazionale in quanto lotte anch’esse universali, e ciò anche al di là della loro componente proletaria. È il caso, beninteso, dei contadini in lotta contro una potenza coloniale. Questa ripresa apre a una riflessione nuova e assolutamente essenziale circa le prospettive di rivoluzione comunista. Infatti, da questo momento in poi, Marx si orienta verso scenari che sfuggono a qualsiasi linearità, i quali non fanno della costituzione di un proletariato nazionale la condizione sine qua non dell’emancipazione. Altrimenti detto, diviene possibile la possibilità di pensare l’approdo al comunismo senza passare necessariamente per la  via capitalista. E la nozione di popolo appare di nuovo come la più adeguata al fine di pensare tali processi differenziati.

In effetti, Marx inizia a abbandonare, nel corso degli anni Cinquanta del XIX secolo, la tesi della portata civilizzatrice della colonizzazione, della quale si trova traccia nei suoi scritti precedenti. Alla luce, in particolare, delle situazioni indiana e cinese, che egli studia in quel periodo, Marx ritiene che la peggiore barbarie si trovi dalla parte dei britannici. Parallelamente, cresce l’interesse, e il l’impegno, per la Polonia e l’Irlanda, nonché a favore degli antischiavisti americani, prima di rivolgersi alla Russia. Il caso dell’Irlanda è particolarmente interessante, per ciò che concerne il rapporto tra popolo, classe operaia e nazione così come Marx cerca di concepirli, modificando nel corso del tempo il proprio punto di vista iniziale. Mi appoggio in proposito alla notevole opera di Kevin Anderson: Marx a the margins [*11]. Nei suoi articoli e dichiarazioni sull’Irlanda, in questo periodo, Marx lavora per combinare le questione di classe, identità etnica e delle realtà nazionali, già affrontate precedentemente. In Irlanda il proletariato si presenta come frazione del proletariato britannico, frazione super sfruttata e dominata. Contemporaneamente, l’Irlanda si presenta come colonia britannica in lotta per la propria indipendenza nazionale. A fronte di tale complessa situazione, Marx e Engels consigliano ai rivoluzionari irlandesi di attribuire alle questioni di classe tutta la loro importanza, rimproverando loro il ricorso alla violenza come la fissazione religioso identitaria.
D’altra parte, Marx giunge gradualmente a considerare il movimento irlandese come punto d’appoggio delle lotte operaie inglesi, e non viceversa. In una lettera a Engels del 10 dicembre 1869 scrive: «Per lungo tempo ho pensato che fosse possibile abbattere il regime irlandese mediante l’ascendancy della English working class (…) uno studio più approfondito mi ha convinto ora del contrario. La working class inglese non farà mai nulla, before it has got rid of ireland. Dall’Irlanda si deve far leva. Per questo motivo la questione irlandese è così importante per il movimento sociale in genere» [*12].
Presente anche su suolo inglese, la classe operaia irlandese è occasione di dissensi interni al movimento operaio, i quali paralizzano quest’ultimo e vengono scientemente favoriti dal padronato inglese, sul modello del razzismo e dello schiavismo nord-americani. Su questo punto, Marx riconosce una coscienza ben superiore alla classe capitalista, infatti, laddove la classe lavoratrice, sia essa inglese o irlandese, non perviene a superare i propri antagonismi, la lotta delle razze, la xenofobia, hanno la meglio sulla lotta di classe, la quale dovrebbe logicamente federare proletariato britannico e sottoproletariato irlandese. Per concludere, in merito alla considerevole rilevanza politica di tali riflessioni, due osservazioni sulla questione del popolo mi sembrano importanti. La prima riguarda il famoso dibattito che vedrà contrapporsi Marx a Bakunin in seno alla Prima internazionale. È nota l’accusa di autoritarismo e statalismo rivolta da Bakunin a Marx. Meno noto  è il fatto che tale contrasto concerne anche la situazione in Irlanda. Del tutto diversiva, a detta dei bakuniniani, la causa irlandese nuocerebbe a quella rivoluzionaria. Secondo Marx, essa ne è invece una componente, l’emancipazione dei popoli oppressi contribuendo a quella operaia, e più largamente, all’emancipazione umana. La seconda concerne la specificità della società irlandese: l’Irlanda è innanzitutto una colonia agricola dell’Inghilterra, il che spinge gli indipendentisti a fare dell’insurrezione contadina il punto di partenza della rivoluzione nazionale. È prima di tutto contro l’oligarchia agraria inglese che lotta il popolo irlandese, il che porta Marx a attribuire alla questione della proprietà della terra un ruolo politico chiave, come base di partenza di una rivoluzione sociale nella stessa Inghilterra.
Questo pone, a sua volta, il problema delle alleanze di classe, in particolare quello dell’alleanza tra la classe operaia e i contadini, assi lontano dall’idea che il proletariato sarà la sola classe a condurre la storia e le rivoluzioni. Per altro, una tale analisi si inscrive nella riflessione, sempre più raffinata, intrapresa da Marx sui percorsi di sviluppo non capitalisti. In questi casi, riguardanti numerose società nel mondo, e che egli analizza più o meno precisamente (Cina, India, Russia, Messico, Perù, Algeria ecc.), la rivoluzione comunista non ha come precursore necessario l’industrializzazione comunista e la formazione di una classe operaia.
Sparisce, dunque, qualsiasi linearità storica, e la successione obbligata dei modi di produzione cede il posto all’attenzione portata alle forme di proprietà tradizionali, comunitarie. Secondo Marx, tali forme persistenti potrebbero fornire un punto di partenza concreto per una riorganizzazione economica e sociale egalitaria, risparmiando o attenuando per certe popolazioni il passaggio attraverso il capitalismo e le sofferenze da esso implicate.

Conclusione

Come si può vedere, la figura del proletariato è complessa. Al fine di afferrarla, è necessario prendere in considerazione la specificità della sua formazione nazionale e, dunque, porla in relazione con l’idea di popolo. Ma, per Marx, è necessario anche, in ultima analisi, mirare verso un’emancipazione in grado di oltrepassare le barriere nazionali e gli antagonismi, senza per ciò, unificare le vie politiche,  e le culture, in uno scenario unitario, prescritto, di superamento del capitalismo. L’attenzione alla periferia non occidentale del capitalismo, la cui posta in gioco si rivelerà a pieno nel quadro della decolonizzazione del XX secolo, si trova già in Marx stesso, il quale non esclude che delle società possano transitare al comunismo senza passare per il capitalismo, evitando in tal modo la sua violenza sociale e la sua barbarie coloniale.
Nel complesso, se ne può trarre la conclusione che il proletariato non è una categoria sociologica stabile, tanto meno il nome di un soggetto della storia unificato, bensì una costruzione dinamica, continuamente definita dal suo antagonismo rispetto a certe classi sociali e alle sue alleanze con altre. Un antagonismo, così come delle alleanze, da concepire innanzitutto come costruzioni politiche, secondo una prospettiva strategica che, a volte, difetterà nel marxismo successivo ma che sarà ripresa da alcune sue componenti.
E proprio in ragione della plasticità di tale nozione, la categoria di popolo si mantiene, in vista di pensare il carattere sempre nazionale di una simile costruzione. Tuttavia, il popolo non costituisce mai un’entità sostanzialistica o fissa. Dunque, è sempre la dialettica proletariato-popolo, sottoposta all’esame di ciò che essa è in ogni situazione storica, a contare, poiché apre (o chiude) le prospettive politiche di emancipazione, le quali, in fin dei conti, riguardano l’umanità tutta.

- Isabelle Garo - Pubblicato il 17/5/2016 su Contretemps - Traduzione di "Traduzioni Marxiste"

NOTE:

1. Jacques Guilhaumou, «De peuple à prolétaire(s): Antoine Vidal, porte-parole des ouvriers dans L’Echo de la Fabrique en 1831-1832», Semen, n° 25, 2008, p. 101-115
2. Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione, in Karl marx e Friedrich Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, 1971, p. 70, oppure in marxist.org.
3. Ibid., p. 59.
4. Ibid., p. 61.
5. Ibid., p. 70.
6. Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, in Karl marx e Friedrich Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, 1971, p. 310, oppure in marxist.org.
7. Ibid., p. 303.
8. Ibid., p. 326.
9. Ibid., p. 310.
10. Ibid., pp. 310-311.
11. Kevin B. Anderson, Marx at the Margins– On Nationalism, Ethnicity and Non-Western Societies, Chicago, The University of Chicago Press, 2010.
12. In Renato Monteleone (a cura di.), Marxismo, internazionalismo e questione nazionale, Loescher, 1982, p. 51.  

giovedì 26 settembre 2019

Respirare

L'angelo della storia e Kafka
- di Benoit Bohy-Bunel -

Benjamin e Kafka; collegamenti

L'angelo della storia di Benjamin contempla il passato, le rovine (il disastro), ed ecco che una tempesta lo spinge verso l'avvenire. Ma è proprio perché non si volta, e rimane avvinto alla memoria di questo disastro, che la  tempesta lo solleva. Se avesse lo sguardo rivolto unicamente verso l'avvenire, il disastro passato non verrebbe riconosciuto, e il vento della rivoluzione non potrebbe soffiare. Perfino in un mondo "migliore", o piuttosto meno disastroso (post-rivoluzionario), l'angelo della storia avrà le spalle girate, e rimarrà rivolto al passato, dal momento che non c'è nulla, nemmeno un mondo "migliore", che possa giustificare il disastro assoluto, né possa giustificare che ci si dimentichi del disastro assoluto. Ed è proprio perché noi continueremo a preservare la memoria di un tale disastro che questo mondo sarà "migliore".

Questa metafora benjaminiana (ispirata da un dipinto di Klee, Angelus Novus) [*1], evoca un breve testo, un aforisma di Kafka intitolato HE [*2]. L'uomo si situa, si colloca in una crepa, in una fenditura nell'intersezione fra passato e avvenire. Il passato agisce come se fosse una forza che spinge in avanti, ed il futuro come una forza che spinge indietro. L'uomo è compresso, asfissiato. Come può, egli, solo pensare, e agire di conseguenza?
L'angelo benjaminiano - dato che egli interrompe, a partire dal suo riconoscere il disastro (per mezzo della sua memoria dolorosa), la forza del passato che spinge in avanti, dal momento che le sue spalle sono girate ed egli riflette - abolisce questa asfissia, e per lui il futuro diventa una tempesta che lo attrae (non più una forza che lo respinge). Egli risolve il dramma di Kafka, ma non lo sa (se lo sapesse, non lo risolverebbe).

Per mezzo della memoria dei vinti, e grazie ad essa, lo spazio si allarga, e si comincia a respirare meglio (dove l'ispirazione rimane la condizione per lo slancio rivoluzionario).

- Benoit Bohy-Bunel - 25 settembre 2019 -

NOTE:

[*1] -« 9. “La mia ala e’ pronta al volo, ritorno volentieri indietro, poiché restassi pur tempo vitale, avrei poca fortuna” (Gerhard Scholem, Il saluto dell’angelo)
C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, é questa tempesta.» ( da: TESI DI FILOSOFIA DELLA STORIA, di Walter Benjamin)

[*2] - «Tutto quello che fa gli sembra, sì, straordinariamente nuovo, ma, in corrispondenza di questa assurda abbondanza di novità, anche straordinariamente dilettantesco, quasi insopportabile, incapace di diventare storico, tale da spezzare la catena delle generazioni, da interrompere per la prima volta fin giù nel profondo la musica del mondo, finora per lo meno intuibile. Talvolta, nella sua superbia, egli teme più per il mondo che per sé.» (Kakfa, Aforismi e sentenze, p. 549

mercoledì 25 settembre 2019

Profittatori!!

A proposito della lotta senza classi
- di Rémi Coutenso -

D’ora in poi, ciò che storicamente abbiamo chiamato «classe dominante» si è rivelato essere un miraggio.
Anche se fosse davvero esistita una classe borghese socialmente ben posizionata, tale  da poter imporre all'insieme sociale le forme sociali capitaliste (in particolar modo durante l'accumulazione primitiva di capitale in Europa), una simile classe borghese, tuttavia non potrebbe essere definita «dominante». E se mai lo è stata, lo è stata in un solo modo: imponendo il capitalismo.
Ma la logica del capitalismo, quanto ad essa, non si è mai trovata sotto il suo dominio. Perché, se il dominio significa per definizione padronanza, la natura della padronanza della cosiddetta «classe dominante», invece, è sempre stata quasi nulla. Quasi, poiché si è obbligati a dover riconoscere che la «classe dominante» possiede, ad ogni periodica configurazione del capitalismo, dei potenti mezzi che gli permettono di lottare per i suoi propri «interessi».
Però, si deve allo stesso tempo, ugualmente, riconoscere che i suoi mezzi sono impotenti, e non sono in grado di rispondere alle crisi di ogni tipo (economiche, finanziarie, sociali, politiche, ecologiche, ecc.) che colpiscono le società, e che si sono formate a partire dalla dinamica contraddittoria delle forme sociali capitaliste.
Tutto questo significa solamente una cosa: che la «classe dominante» non controlla in alcun modo la valorizzazione del valore. A rigor di termini, essa la subisce come qualsiasi altro lavoratore: la cosiddetta «classe dominante» è in realtà dominata essa stessa dalla logica impersonale del dominio del valore. Questo lo abbiamo visto, per esempio, nel 2008: reagisce, assai spesso molto male, alla crisi della valorizzazione.
Gli è che il reale dominio sociale ed universale all'opera nel nostro mondo è quello del valore, è quello che Marx definisce come «soggetto automatico». Perciò, nel momento in cui poi Marx si riferisce al valore, egli intende dire che a primeggiare, in termini di dominio, è l'automatismo del valore, piuttosto che l'autonomia di qualsiasi sedicente «classe dominante». È a causa della mancanza di controllo e di autonomia della «classe dominante» nei confronti del dominio impersonale del valore, che appare preferibile sostituire il concetto di «classe profittatrice» a quello di «classe dominante».
A rigor di termini, è vero che la classe che ci guadagna rispetto a tutti i lavoratori gode molto della ricchezza prodotta. Ma la forma specifica della ricchezza capitalistica, anche se la classe profittatrice ne gode molto più di tutti gli altri, non è comunque - bisogna ripeterlo - oggetto del suo controllo, in nessun caso.
Inoltre, se il dominio impersonale del valore si è ben instaurato, non esiste nessuna «classe rivoluzionaria» in grado di rovesciare la sociologia capitalista ed imporre, secondo quelli che sono i pii desideri del «marxismo tradizionale» (Postone), un controllo consapevole ed una gestione socialista della produzione di valore. È in tal senso che appare urgente smettere di pensare la classe borghese come dominante, bensì cominciare a pensarla come classe profittatrice. Ed è altrettanto urgente smettere di pensare la «classe rivoluzionaria» come classe al servizio «di una società senza classi» a venire.
Questo implicherebbe un cambiamento radicale nelle lotte: l'obiettivo storico dell'avvento di una società senza classi va riconfigurato. Infatti, quest'ultima presuppone, come sua condizione fondamentale, la dinamica sociologica e storica della lotta di classe.
Non c'è nessuna società senza classi, senza il trionfo della classe rivoluzionaria nella lotta di classe. Ma questo trionfo sociologico della «classe rivoluzionaria» non può avere altra conseguenza se non quella di una gestione del valore, del quale la classe rivoluzionaria non avrebbe, così come la classe borghese, il controllo.

- Rémi Coutenso -

fonte: Facebook

martedì 24 settembre 2019

Frammenti di futuro

Voleva fare della Germania la nuova Grecia. Vide il futuro, e ne fu lacerato. Esce a cura di Luigi Reitani il Meridiano Mondadori dedicato al poeta tedesco

Hölderlin, spirito che brucia
di Claudio Magris

Frammenti del futuro. L’espressione è di Friedrich Schlegel, lo scrittore tedesco che alla fine del Settecento, meditando sulla poesia classica greca, inventa il Romanticismo e l’arte moderna o meglio contemporanea tuttora in atto e in corso, con le sue dissonanze sempre più eccentriche oltre il limite. Ma l’espressione si addice ancor più radicalmente a un grandissimo poeta come Hölderlin, e Luigi Reitani l’ha genialmente scelta quale titolo dell’ampia, totale introduzione alla sua edizione delle opere di Hölderlin per i Meridiani, diretti da Renata Colorni. Un ricchissimo, capitale punto fermo non solo per la germanistica ma per la Weltliteratur, la letteratura universale. Hölderlin vive nella sua poesia — e prima ancora nella sua esistenza bruciata nell’assoluto e lacerata — l’esplodere di un futuro che squarcia la storia d’Europa e che è ancora in atto; il frantumarsi di una plurisecolare civiltà, i cui frammenti piovono ora sul paesaggio come in un terremoto e come meteoriti ancora sconosciuti. La vita e la creazione lavorano tramite la distruzione e chi vive la loro epifania con radicale intensità può non reggere alla sua tensione, come accade alla fine a Hölderlin con la sua demenza, che non lo spegne ma lo distrugge. Gli ultimi torpidi anni della follia trascorsi nella Torre sul fiume Neckar, squarciati da lampi di inaudita e sofferta genialità. Immerso nella lacerazione del suo tempo, Hölderlin la trascende in una visione totale della Storia e dello spirito occidentale, dalla Grecia classica — che egli rivive nella sua tragicità originaria e nella sua forza che continua a plasmare la Storia e lo spirito dell’Europa — alla Rivoluzione francese che ne è e dovrebbe esserne l’organica continuità, all’Impero napoleonico che disfa e ricompone il mondo. Hölderlin è forse il primo dei poeti che vivono nella propria anima e sulla propria pelle, prima ancora che nella loro opera, le trasformazioni del mondo, liberatrici, distruttive e vulcaniche come l’Etna in cui precipita l’Empedocle della sua tragedia (La morte di Empedocle). La vita di Hölderlin coincide con una delle più grandi e rivoluzionarie stagioni della Storia della Germania, dell’Europa e del mondo: l’Illuminismo che fonda la modernità, la classicità tedesca e universale di Goethe e Schiller, la filosofia di Kant, Fichte, Hegel — di cui Hölderlin è amico e compagno di studi e col quale da giovane balla intorno all’albero della libertà — e il Romanticismo che scopre le identità nazionali e inventa l’arte e la letteratura moderna. Rinascita storica e rinascita individuale si fondono in una unità indissolubile e infine tragicamente destinata a spezzarsi, cui l’amore di Hölderlin per Susette Gontard — «l’ateniese», come egli la chiama, la sua Diotima — dovrebbe essere la sintesi perfetta. Ma la Storia si rivela arida, soffocante, distruttiva di ogni poesia del cuore e il canto del poeta, in uno splendido componimento degli ultimi tempi, diventa lo stridere delle banderuole in un vento ostile. Hölderlin è il primo dei poeti moderni che attraversi un paradiso tanto intenso da essere bruciante e insostenibile, come il «Natale sulla terra» di Rimbaud. L’assoluto è totalità ma una totalità che si frantuma, si condensa nella scheggia o si brucia nel silenzio, come accadrà più tardi a un altro poeta dell’assoluto e del suo spegnersi, Paul Celan, la cui aurora è nera, «nero latte dell’alba».
A offrire un’immagine globale di questa esperienza radicale giunge ora la splendida edizione delle opere di Hölderlin, curata — con eccezionale competenza, passione, acutezza interpretativa, ricostruzione filologica e inesorabile commento — da Luigi Reitani per i Meridiani. Nato a Foggia nel 1959, docente di Letteratura italiana e tedesca in varie università italiane e straniere, in particolare austriache, tedesche e svizzere, e ordinario di Letteratura tedesca all’Università di Udine, Luigi Reitani ha già al suo attivo un’opera imponente, la cui vastità, nata da una capacità di lavoro che lascia sgomenti, è permeata da una straordinaria leggerezza, da una capacità critica di leggere anche le sfumature e oltre le sfumature, di aggirarsi instancabilmente e in punta di piedi ma anche con l’occhio inesorabile dell’investigatore cui non sfugge nulla anche se il suo sguardo, dopo aver afferrato tante cose, si colora di incanto, di timida trepidazione. Sviscerare l’opera, sezionarla con tutti gli strumenti filologici, per poi ricomporla nel suo mistero, non intaccato dall’indagine bensì reso più intenso. Studiare con rigore lasciandosi poi andare a ciò che quel rigore ha creato e ci fa arrivare alla mente e al cuore. Di Hölderlin, Reitani aveva anche tradotto e commentato in un primo Meridiano la prima edizione integrale italiana delle liriche, riviste pure nel testo critico, in un lavoro coronato dal Premio internazionale Mondello. Anche le versioni di questo secondo volume sono eccellenti; versioni di Reitani stesso, di Andreina Lavagetto, di Cesare Lievi, Adele Netti, Mauro Bozzetti, Elsbeth Gut-Bozzetti. L’arte della traduzione è o dovrebbe essere una spina dorsale di ogni lavoro critico; il traduttore, rispetto al testo originario, è il direttore d’orchestra capace di metterlo in opera, di farlo risuonare.
Quali criteri hai seguito, chiedo a Luigi Reitani, per affrontare, un’opera così vasta e difficile, sia sul piano storico sia su quello critico letterario sia su quello filologico?

Luigi Reitani — «Ho cercato di togliere Hölderlin dallo scaffale degli specialisti e di mettere in risalto la potenza vitale della sua opera. Questo ha significato ritornare ai manoscritti, interrogarsi sulla loro discontinuità, sul tormento della scrittura, senza voler presentare come compiuto ciò che non lo è. I traduttori hanno svolto un lavoro straordinario, rendendo la complessa terminologia e lo stile di Hölderlin in un italiano che, pur essendo alto, non è mai aulico. C’era bisogno di trovare una voce al tempo stesso poetica, filosofica ed epistolare, e spero che sia stata trovata. Il commento non intende chiudere l’orizzonte interpretativo, ma semmai aprirlo, offrendo finestre linguistiche, biografiche, storiche, filosofiche».

A questa attività di studioso Luigi Reitani ha unito una grande attività pratica e organizzativa che tanto ha dato agli studi di letteratura tedesca, alla loro diffusione e conoscenza e allo scambio interculturale fra Italia e Germania. Presente nel Comitato scientifico dello Hochstift di Francoforte, Reitani da quattro anni — e ora l’incarico sta per scadere — è un creativo e infaticabile Direttore dell’Istituto di Cultura di Berlino, un’istituzione che, anche grazie a lui, ha reso intenso e vivo l’ incontro tra Italia e Germania, proprio in un momento in cui tante tradizioni e modalità della tradizione stanno cambiando, nel quadro traballante dell’Unione Europea, in cui la Germania ha avuto un peso eminente per la sua realtà politica, economica, sociale e culturale. C’è un secolare rapporto tra Germania ed Europa e tra Germania e quella Ellade, quella Grecia antica che è stata una delle grandi linfe della cultura tedesca. Hölderlin vive a fondo, ed esprime con lacerante altissima poesia il sogno di una Germania che sembrava poter essere la nuova Ellade, la Grecia moderna, la cultura universale che avrebbe potuto e dovuto fondare la nuova civiltà europea occidentale, nella varietà dei suoi popoli e delle sue culture preservate nelle loro individualità e unite da un respiro culturale e spirituale, così come l’Ellade era stata la varietà e insieme l’unità delle sue isole, delle sue tradizioni artistiche, filosofiche, mitiche, politiche, religiose. Hölderlin ha sognato che la Germania di Goethe, di Kant, di Schiller, di Hegel, di Fichte, di lui stesso fosse, potesse e dovesse diventare la nuova Ellade del mondo moderno. Ma alla fine questa sognata unità sembra spezzarsi. Hyperion, l’eroe che va a combattere per la libertà della Grecia moderna finisce per essere deluso, respinto in questa simbiosi ellenico-tedesca e rivolge durissime accuse ai tedeschi. Ogni popolo, certo, conosce, per sua fortuna, anche l’autocritica. Ma forse nessuna cultura, nessuna potenza politica come la Germania, che ha conosciuto pure criminosi sogni di superiorità, ha sentito il bisogno di criticarsi, di denunciare le proprie insufficienze. Tutti i Paesi parlano anche un po’ male di se stessi, ma nessuno ha fatto dell’autocritica una componente essenziale della propria spiritualità come la Germania. Pure l’Italia conosce tale autocritica, che talora scade a volgaruccia autodenigrazione, ma si tratta di una cosa diversa. Altre nazioni, i francesi, gli olandesi o gli spagnoli non sembrano presi da questa furia di autodenuncia.
Come spieghi, Luigi, questa forte componente autocritica, che ha prodotto quasi un genere letterario di auto invettive in Germania? E quale è il posto di Hölderlin sotto questo profilo?

Luigi Reitani — «L’invettiva del greco Hyperion contro i tedeschi è espressione di un amore non corrisposto. In un tempo in cui ancora non esiste uno Stato tedesco, Hölderlin attraverso il suo personaggio ripone nella Nazione tedesca la fiducia in quel rinnovamento epocale che a suo avviso la Rivoluzione in Francia non aveva avverato. Ma poi si rende conto della differenza che corre tra i suoi ideali e la realtà. Questo è uno dei drammi della vita di Hölderlin ed è in fondo uno dei drammi della Germania — oggi dell’intera Europa — nel suo complesso. Più alte sono le attese, tanto maggiore è la delusione. Ma Hölderin ci insegna anche che la salvezza germina là dove è il pericolo».

- Claudio Magris - Pubblicato sul Corriere del 21/6/2019 -

Il Meridiano: Tutto Friedrich Hölderlin: con il volume Tutte le liriche , pubblicato nel 2011, il Meridiano Mondadori appena uscito dedicato a Prose, teatro e lettere offre per la prima volta in Italia un’edizione pressoché integrale dell’opera dell’autore tedesco (restano fuori le sue versioni dal greco e dal latino), la più ampia e completa realizzata fuori dalla Germania. Il nuovo volume, a cura e con un saggio introduttivo e una cronologia di Luigi Reitani, comprende: il romanzo Hyperion tradotto da Adele Netti; la tragedia Empedocle tradotta da Cesare Lievi (revisione del testo critico tedesco a cura di Luigi Reitani); gli Scritti teorici tradotti da Mauro Bozzetti, Elsbeth Gut-Bozzetti e Luigi Reitani; le Lettere tradotte da Andreina Lavagetto; commento, note e bibliografia a cura di Luigi Reitani.

lunedì 23 settembre 2019

Free State of Marx

Cosa intendeva Marx per schiavitù
- di Kevin B. Anderson -

Quest'anno ricorre il 400° anniversario dell'arrivo in Virginia dei primi africani schiavizzati. Sebbene oggi questo triste evento venga discusso in maniera profonda e penetrante, fra i principali media sono assai pochi quelli che notano il particolare carattere capitalistico della schiavitù della forma moderna dello schiavismo del Nuovo Mondo - un tema questo che ha attraversato la critica del Capitale di Marx in quella che è stata la sua ampia discussione sul capitalismo e la schiavitù. Marx non riteneva la schiavizzazione su larga scala degli africani da parte degli europei, che comincia nei Caraibi all'inizio del 16° secolo, come una ripetizione dello schiavismo romano o arabo, ma piuttosto come se fosse qualcosa di nuovo. Esso combinava antiche forme di brutalità con quella che era la quintessenza della forma sociale moderna della produzione di valore. In una sua bozza preparativa per Il Capitale, scrive che esso raggiunge «la sua forma più odiosa... in una situazione di produzione capitalistica,» in cui «il valore di scambio diventa l'elemento determinante della produzione.» Ciò porta all'estensione al di là di ogni limite della giornata lavorativa, facendo lavorare letteralmente a morte le persone schiavizzate. Che fosse in Sud America, nei Caraibi, o nelle piantagioni degli Stati Uniti del sud, la schiavitù non svolgeva un ruolo periferico, ma era parte centrale del capitalismo moderno. Come aveva teorizzato il giovane Marx nel 1846,  ne "La miseria della filosofia", due anni prima del Manifesto del Partito Comunista: «  La schiavitù diretta è il cardine dell'industria borghese, proprio come le macchine, il credito, ecc. Senza schiavitù niente cotone, senza cotone niente industria moderna. Solo la schiavitù ha conferito alle colonie il loro valore, le colonie hanno creato il commercio mondiale, e il commercio mondiale è la condizione della grande industria. Perciò la schiavitù diventa una categoria economica della più alta importanza. »
Questa connessione tra capitalismo e schiavitù permea tutti gli scritti di Marx. Ma egli ha anche considerato come le diverse forme di resistenza alla schiavitù possano contribuire alla resistenza anticapitalistica. Ciò è stato particolarmente vero prima e durante la Guerra Civile americana, quando Marx sostenne fervidamente la causa anti-schiavista. Una delle forme di resistenza considerata da Marx era quella praticata dagli afroamericani ridotti in schiavitù. Ad esempio, egli prese molto sul serio lo storico attacco ad un arsenale ad Harper's Ferry, in Virginia, attuato da dei militanti anti-schiavisti, sia neri che bianchi, sotto il comando dell'abolizionista radicale John Brown. Sebbene l'attacco fallisse nel suo intento di innescare l'insurrezione degli schiavi in cui i militanti avevano sperato, Marx concorda con altri abolizionisti che si sia trattato di un evento epocale, dopo il quale non sarebbe più stato possibile tornare indietro. In più, Marx si lasciò andare a fare un confronto internazionale con i contadini russi, facendo un paragone con l'organizzazione autonoma degli schiavi afroamericani, ponendo in evidenza il loro crescente potenziale insurrezionale a livello di massa:  « A mio avviso, le cose più importanti che stanno accadendo oggi nel mondo sono, da una parte, il movimento che coinvolge gli schiavi in America, iniziato a partire dalla morte di John Brown, e, dall'altra il movimento degli schiavi in Russia... Ho appena letto sul The Tribune che in Missouri c'è stata una nuova rivolta degli schiavi, naturalmente soppressa. Ma ora il segnale è stato dato.»

In una simile congiuntura, Marx sembrava percepire, come momento chiave per l'abolizione della schiavitù, un'insurrezione di massa degli schiavi, e forse anche qualcosa di più nei termini di una sfida all'ordine capitalistico stesso. Poco tempo dopo, nel momento in cui ci fu la secessione del Sud, e scoppiò la Guerra Civile, egli rivolse il suo sostegno alla causa del Nord, sebbene con roventi attacchi a Lincoln, a causa della sua iniziale esitazione a patrocinare - per non parlare dell'attuazione - sia l'abolizione della schiavitù che l'arruolamento di truppe nere. Durante la guerra, emerse una seconda forma di resistenza al capitalismo e alla schiavitù, non negli Stati Uniti, bensì in Gran Bretagna. Mentre le classi dominanti di quel paese ridicolizzavano gli Stati Uniti per il loro fallito esperimento di governo repubblicano e arrivavano perfino ad attaccare il plebeo Lincoln per la sua mancanza di sofisticatezza, la classe operaia inglese vedeva la cosa in maniera differente. Dal momento che essa lottava ancora per il proprio diritto al voto,  in contrasto con le esorbitanti qualifiche della proprietà, i lavoratori vedevano gli Stati Uniti  come la massima forma di democrazia esistente all'epoca, soprattutto dopo che il Nord si era impegnato ad abolire la schiavitù. Come viene riportato da Marx in numerosi articoli, le riunioni di massa organizzate dai lavoratori inglesi avevano contribuito a bloccare i tentativi del governo di intervenire schierandosi con il Sud. Con questo loro magnifico esempio di internazionalismo proletario, gli operai inglesi avevano respinto il tentativo, da parte di vari politici, di fomentare animosità nei confronti del Nord, sulla base del fatto che i blocchi dell'Unione avevano ridotto le forniture di cotone, ed avrebbero così creato una disoccupazione di massa fra i lavoratori tessili del Lancashire. Ecco come gliele cantò Marx in un suo articolo del 1982 scritto per il New York Tribune: «Quando c'è gran parte della classe operaia inglese che soffre direttamente e severamente a causa delle conseguenze del blocco sudista; quando c'è un altra parte di questa classe che viene colpita, indirettamente, dalla riduzione del commercio americano, dovuta, come viene loro raccontato, all'egoistica "politica protezionistica» dei repubblicani [americani]... in simili circostanze, è semplicemente la giustizia a richiedere che venga reso tributo al sano atteggiamento della classe operaia britannica, tanto più quando esso si trova in aperto contrasto con la condotta ipocrita, prepotente, codarda e stupida  del benestante funzionario John Bull.»
Nel 1864, era stata formata la Prima Internazionale, e molti dei suoi primi militanti provenivano dai quadri organizzativi di questi meeting anti-schiavisti. In tal senso, un movimento anti-schiavista della classe operaia aveva contribuito a formare la più grande organizzazione socialista che Marx avrebbe guidato per tutta la sua vita. Una volta finita la guerra, negli Stati Uniti, la Ricostruzione Radicale era all'ordine del giorno, e comprendeva la prospettiva di ripartire le ex piantagioni di schiavi in modo da garantire una concessione di quaranta acri ed un mulo ad ogni persona precedentemente schiavizzata. Nella prefazione al Capitale, nel 1867, Marx celebra tali sviluppi: «Dopo l'abolizione della schiavitù , all'ordine del giorno c'è una trasformazione radicale delle esistenti relazioni di capitale e di proprietà fondiaria.» La cosa non avvenne, dal momento che nel Congresso degli Stati Uniti la misura venne bloccata dalle forze moderate. Sull'onda della Guerra Civile, Marx discusse una terza forma di resistenza al capitalismo ed alla schiavitù, ma anche al razzismo, ancora una volta all'interno degli Stati Uniti. A suo modo di vedere, secoli di schiavitù nera insieme al lavoro bianco formalmente libero avevano creato enormi divisioni tra i lavoratori, sia urbani che rurali. La Guerra Civile aveva spazzato via quelle che erano alcune delle basi economiche di tali divisioni, creando nuove possibilità. Ancora una volta, ne Il Capitale, egli discuteva con evidente gusto queste possibilità, arrivando a scrivere il suo periodo più famoso circa la dialettica tra razza e classe, che riporto:

Negli Stati Uniti dell’America del Nord ogni movimento operaio indipendente rimase paralizzato, dal momento che la schiavitù deturpava una parte della repubblica. Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi, in un paese dove viene marchiato a fuoco quand’è in pelle nera. Ma dalla morte della schiavitù germogliò subito una vita nuova e ringiovanita. Il primo frutto della guerra civile fu l’agitazione per le otto ore, che cammina con gli stivali dalle sette leghe della locomotiva, dall’Atlantico al Pacifico, dalla Nuova Inghilterra alla California. Il Congresso operaio generale di Baltimora (16 agosto 1866) dichiara: «La prima e grande necessità del presente, per liberare il lavoro di questo paese dalla schiavitù capitalista, è la promulgazione di una legge per la quale otto ore devono costituire la giornata lavorativa normale in tutti gli Stati dell’Unione americana. Noi siamo decisi a impegnare. tutta la nostra forza fino a che sarà raggiunto questo glorioso risultato» (Karl Marx)

A dire il vero, i leader sindacali del 1866 erano disposti a colpire direttamente il capitalismo, cosa che dopo non si è più vista molto spesso negli Stati Uniti. Tuttavia, quella volta, in quel tempo,  il sogno di Marx di una solidarietà di classe tra le razze non venne realizzato, a causa della riluttanza  da parte dei sindacati bianchi ad includere i lavoratori neri come membri a pieno titolo. Quel genere di solidarietà inter-razziale che aveva immaginato Marx, da allora è emersa ben poche volte su larga scala, in particolare nelle iniziative di sindacalizzazione di massa degli anni '30. Quattrocento anni dopo l'arrivo in Virginia degli africani ridotti in schiavitù, gli afroamericani  continuano ad esperire quella che è l'eredità della schiavitù in condizioni di incarcerazione di massa, di razzismo istituzionalizzato, sia nei quartieri che nei posti di lavoro, insieme ad un crescente divario di ricchezza. Allo stesso tempo, ci troviamo di fronte all'amministrazione più reazionaria ed antioperaia della nostra storia, un'amministrazione che fomenta e si nutre del razzismo e della misoginia più disgustosi per poter ottenere supporto tra gli strati della classe media e della classe operaia. Alla luce di tutto ciò, la dichiarazione di Marx, «Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi, in un paese dove viene marchiato a fuoco quand’è in pelle nera» è uno slogan che rimane oggi altrettanto rilevante di quanto lo fosse 150 anni fa.

Kevin B. Anderson - Pubblicato su Jacobin nel settembre 2019 -

domenica 22 settembre 2019

Questione di … classe


L'altro Marx
- Perché il Manifesto Comunista è obsoleto -
di Norbert Trenkle (Krisis)

1 -
È almeno a partire dalla crisi finanziaria del 2008 che Karl Marx viene di nuovo riconosciuto, abbastanza giustamente, come altamente attuale. I suoi nuovi e vecchi amici, ad ogni modo, si sono concentrati su quella parte della sua teoria che è ormai da lungo tempo superata: la teoria della lotta di classe tra la borghesia ed il proletariato. Diversamente, l'«altro Marx», quello che ha criticato il capitalismo in quanto società basata sulla produzione generale di merci, sul lavoro astratto, e sull'accumulazione del valore, ha ricevuto ben poche attenzioni serie. Ma invece è proprio questa parte della teoria di Marx che ci permette di analizzare adeguatamente la situazione attuale di quello che è il sistema capitalistico globale ed il suo processo di crisi. La teoria della lotta di classe, al contrario, non contribuisce in alcun modo alla nostra comprensione di quello che sta attualmente accadendo, né è in grado di riuscire a formulare una nuova prospetta di emancipazione sociale. Per tale ragione, bisogna dire che oggi il Manifesto del Partito Comunista è obsoleto, e conserva solo un valore storico.

2 -
Ad una prima occhiata, tutto ciò può sembrare sorprendente.  A leggere, estrapolandoli, alcuni passaggi del Manifesto suonano come se fossero delle diagnosi altamente attuali del nostro tempo. Ad esempio, quando Marx ed Engels scrivono che la borghesia, nella sua incessante urgenza di espandersi, ha «dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi» e «ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale» (Marx/Engels 1848), questo si legge come una diagnosi in anticipo di quella che sarà la cosiddetta globalizzazione. Indubbiamente, il capitalismo si è imposto in tutto il pianeta ad un ritmo tremendo, distruggendo quasi completamente, o rendendo marginali tutti gli altri modi di produzione e di vita: ha trasformato quella che era la stragrande maggioranza della popolazione mondiale in venditori di forza lavoro, con esso la polarizzazione sociale ha assunto proporzioni immense, e la ricchezza finanziaria si è concentrata nelle mani di una piccola minoranza, mentre la più parte delle persone vive in condizioni del tutto precarie. A questo punto, sembrerebbe ovvio che dovremmo parlare di un'intensificazione di quelle che sono globalmente le contraddizioni di classe nel senso del Manifesto e di una «Nuova Lotta di Classe»  (Žižek 2015) o invocare una «Nuova Politica di Classe» (Friedrich 2018). Ma le apparenze possono ingannare. Per quanto corrette possono essere state queste diagnosi della dinamica storica del capitalismo, il paradigma dell'antagonismo di classe non offre una spiegazione adeguata di quelli che sono gli sviluppi attuali. Innanzitutto, per questo c'è una ragione fondamentale: la contrapposizione tra capitale e lavoro non era e non è affatto una contraddizione antagonistica che demolirà necessariamente il capitalismo, come è stato descritta da Marx ed Engels nel Manifesto e come da allora è stato ripetuto all'infinito. Piuttosto, è un conflitto immanente di interessi che avviene nel contesto di un quadro sociale condiviso e che si basa sulla produzione generale di merci, nel qual la ricchezza sociale assume la forma astratta del valore. La produzione di ricchezza astratta è una caratteristica del capitalismo storicamente specifica. È parte della sua più intima natura. È astratta nel senso che tutte le proprietà materiali di quelli che sono i prodotti creati, e le condizioni concrete della loro produzione, vengono sottomesse alla categoria del valore. L'unica cosa che conta è il tempo di lavoro medio nel contesto di una società, necessario alla loro riproduzione, il quale viene rappresentato dal valore dei prodotti e che, dopo vari passaggi intermedi, appare empiricamente sotto forma di denaro. Ragion per cui, il lavoro occupa una posizione centrale nella produzione della ricchezza astratta. Ma anche in questo caso, non è il contenuto materiale quello che conta. Ciò che importa è che quel lavoro (vale a dire, lavoro astratto) venga speso completamente.
Questa posizione centrale del lavoro è di per sé tutt'altro che evidente. Si tratta di una caratteristica specificamente storica del modo capitalistico di produzione o, più precisamente, della sua caratteristica centrale. Ciò che innanzitutto distingue fondamentalmente questo modo di produzione da tutti gli altri finora esistiti, è la frammentazione sociale in individui isolati l'uno dall'altro, i quali, per arrivare a stabilire quello che è il loro contesto sociale si guardano l'un l'altro in maniera retroattiva ed esterna. Riguardo ciò, l'elemento cruciale è la contraddizione per cui questa socializzazione ha luogo sotto la forma della sfera privata. Individui isolati producono cose, e lo fanno in quanto produttori privati al fine di stabilire una relazione con altri produttori provati grazie a, e per mezzo di, questi prodotti; la cosa riguarderebbe anche il fatto che essi stessi vendono la propria forza lavoro (Trenkle, 2019). Il lavoro, quindi, svolge una funzione che non ha avuto in nessuna altra società: stabilisce la mediazione sociale (Postone, 2003). Per quel che lo riguarda, il suo valore non è altro che la rappresentazione reificata di questa forma di relazione sociale storicamente specifica, la quale esprime sé stessa dapprima in merci, poi in denaro, e infine in quello che è il movimento M-C-M', vale a dire, il movimento del capitale in quanto fine in sé stesso. Il lavoro è quindi una categoria centrale, essenziale, nella società capitalistica. Non si trova ad essere esternamente contrapposto alla categoria del capitale, ma piuttosto ne forma la sua base. Ciò è vero non solo nel senso convenzionale, per cui il capitale è basato sullo sfruttamento del lavoro. La categoria del valore, e quindi anche la categoria del capitale, risultano logicamente dalla forma storicamente specifica di quella che è la mediazione sociale per mezzo del lavoro. Lavoro e capitale perciò si riferiscono sostanzialmente  l'uno all'altro. Sono due momenti di una relazione sociale comune. Ed in quanto tali, tuttavia, essi rappresentano anche degli interessi contrastanti. Il fatto che questo conflitto di interessi si sia manifestato ripetutamente in violente lotte, è parte della logica del problema.Il capitale è soggetto alla coazione compulsiva, sistematicamente inesorabile, alla valorizzazione, e questo significa che esso persegue un unico scopo: la conversione senza fine del valore in sempre più valore. Ad ogni modo, tutto ciò presuppone lo sfruttamento della forza lavoro, poiché essa è la sola merce che ha un valore d'uso unico: quello di produrre più valore di quanto non costi.  È perciò nell'interesse del capitale ridurre il valore del lavoro (espresso in salari). Al contrario, i venditori di forza lavoro vogliono vendere, naturalmente, la loro merce al prezzo più alto possibile: solo per mezzo di un salario sufficiente, possono accedere alla ricchezza della società della merce. In altre parole, solo così possono acquistare i beni di consumo dei quali hanno bisogno per poter vivere. Si tratta, in ultima analisi, di un conflitto di distribuzione. Di un conflitto che riguarda il modo in cui la massa di valore prodotta viene suddivisa fra quelle che sono le due parti, capitale e lavoro. Ma dal momento che entrambe le parti costituiscono il nucleo del modo capitalistico di produzione, entrambe condividono anche un interesse comune a voler preservare la produzione di ricchezza astratta, malgrado quelle che sono tutte le loro differenze. È questo il motivo per cui, generalmente, rispettano le regole del gioco dettate da questa forma di ricchezza. Per entrambe le parti, ciò significa innanzitutto che l'accumulazione del capitale deve continuare. Diversamente, il capitale non sarà in grado di proseguire quello che è il suo movimento, fine a sé stesso, di trasformare il denaro in sempre più denaro e, in tal modo, neppure i venditori di forza lavoro potranno avere il denaro di cui hanno bisogno per poter continuare a sopravvivere. Questa basilare comunanza, è la ragione più profonda per cui la contrapposizione tra capitale e lavoro non è riuscita a spazzare via il capitalismo, come aveva predetto il Manifesto, ma ha invece continuato, per tutto il corso del XX secolo; a rimanere assoggettata a quelli che sono stati i nuovi modi di negoziare, e di regolare politicamente, un equilibrio tra questi interessi diversi.

3. -
Storicamente, l'apice di questa regolamentazione dell'equilibrio degli interessi tra capitale e lavoro è stato raggiunto nell'era fordista. E non si tratta di una coincidenza. Durante quel periodo, il capitale si espandeva ad un ritmo storicamente unico, e quindi aveva costantemente bisogno di nuovi lavoratori. Viceversa, questo consentiva ai venditori di forza lavoro di ottenere il potere di negoziare condizioni relativamente buone per la vendita della loro merce, e di partecipare della ricchezza sociale in una misura che precedentemente non era nemmeno immaginabile (Trenkle, 2006). L'interruzione di questa costellazione storica non avvenne con il collasso del cosiddetto socialismo, come di solito si afferma oggi. Ma la cosa, piuttosto, può essere collocata circa quindici anni prima. La ragione di tale interruzione fu dovuta alla fine del boom fordista, che si era accompagnato all'emergere della Terza Rivoluzione Industriale. Ciò aveva significato un salto qualitativo in quello che era lo sviluppo delle forze produttive, poiché in quel modo la conoscenza era diventata la principale forza produttiva, sostituendo in tal modo il lavoro che ricopriva precedentemente quella posizione, proprio come aveva previsto Marx nei Grundrisse. Il risultato era stato l'espulsione di massa della forza lavoro dalla produzione. Questo aveva migliorato notevolmente la posizione contrattuale del capitale, consentendogli di ridurre i salari, e permettendogli così di peggiorare le condizioni lavorative. Simultaneamente, tuttavia, insieme al lavoro su vasta scala, in questo modo il capitale aveva perduto anche quelle che erano le basi per la propria valorizzazione. La conseguenza di tutto questo è stata una profonda crisi nella valorizzazione del capitale, che è durata fino agli anni '80. Nonostante tutte le misure neoliberiste, volte a indebolire la posizione dei sindacati e a deregolamentare le condizioni di lavoro, il rinnovamento delle basi produttive della valorizzazione non erano riuscite a fornire una via d'uscita che portasse fuori dalla crisi. Ciò non era stato possibile, in quanto, una volta che era stato raggiunto un livello di sviluppo della produttività, questo non può essere invertito. Quindi, non si può tornare ad una costellazione nella quale il capitale viene valorizzato per mezzo dello sfruttamento del lavoro su larga scala. Contrariamente, la deregolamentazione neoliberista e la trans-nazionalizzazione dei mercati finanziari avevano aperto le porte ad una nuova era di accumulazione di capitale che non era più principalmente basata sulla valorizzazione del capitale. Il ruolo principale della produzione di plusvalore, era stata ora rimpiazzata per mezzo dell'accumulazione di capitale fittizio (Lohoff/ Trenkle, 2012).

4. -
Il capitale fittizio non è altro che l'anticipazione del valore futuro, del valore che non è ancora stato prodotto, ma che già oggi ha un suo effetto. I mezzi tecnici per poter arrivare a questo, sono i titoli finanziari che rappresentano i crediti relativi a determinate somme di denaro, e la loro moltiplicazione che avviene per mezzo di interessi o dividendi. La «produzione» di massa di tali titoli finanziari (stocks, bonds, futures, ecc.) ed il loro commercio sui mercati finanziari ha permesso al capitale di continuare a crescere per quasi 40 anni, anche se le basi per una larga produzione di plusvalore hanno smesso da tempo di esistere. La crisi fondamentale della valorizzazione del capitale, cominciata negli anni '70, non è mai stata risolta. Piuttosto, è stata, e continua ad essere soppressa per mezzo della massiccia accumulazione di capitale fittizio sui mercati finanziari. A lungo termine, questa «accumulazione di capitale senza valorizzazione» (Lohoff 2014) diventa insostenibile, in quanto porta ad un accumulo sempre più crescente di un potenziale esplosivo di crisi nei mercati finanziari , che poi si scatena in collassi ancora più violenti che minano sempre più quello che è il sistema monetario. Eppure è stato il motore di una tremenda dinamica di espansione capitalista che ha portato all'imposizione finale del modo di produzione e di vita capitalistica in tutto il pianeta.
Simultaneamente, tuttavia, in quest'epoca di capitale fittizio, la relazione tra capitale e lavoro è cambiata in un modo talmente profondo che alla fine la teoria della «contraddizione di classe» ha perso perfino ogni fondamento. Ad una prima occhiata, quest'affermazione può apparire sorprendente. Ovviamente, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale oggi si trova ad essere ancora più dipendente dal lavoro salariato e dalla produzione di merci di quanto lo sia mi stata prima nella storia. E tuttavia, allo stesso tempo, paradossalmente il capitale è diventato in gran parte indipendente dallo sfruttamento della forza lavoro, dal momento che l'accumulazione si è spostata nella sfera del capitale fittizio. Certo, ciò non significa che il lavoro non venga più sfruttato. Sostenerlo sarebbe assolutamente in contrasto con la realtà. Tuttavia, la produzione di plusvalore ha smesso da tempo di essere il motore dell'accumulazione di capitale, ed è diventata anch'essa stessa una variabile dipendente, che viene azionata dalle dinamiche del capitale fittizio sui mercati finanziati (Lohoff/Trenkle 2012; Trenkle 2016). In nessun altro luogo, questo è più evidente di quanto lo sia nel settore delle costruzioni, che attualmente rappresenta il settore più dinamico dell'«economia reale». In questo settore, gli investimenti vengono fatti solo finché esiste la speculazione immobiliare, la quale è il punto di riferimento centrale per l'accumulazione di capitale fittizio. Solo così possono esserci persone in grado di vendere il loro lavoro in quel settore - quasi sempre a condizioni indicibili - mentre allo stesso tempo non hanno i mezzi per poter vivere, dal momento che il capitale fittizio fa aumentare costantemente i prezzi degli immobili. La dipendenza delle attività nell'economia reale (e quindi del dispendio di lavoro) dalle dinamiche dei mercati finanziari, nell'era del capitale fittizio è un fenomeno universale. Ciò spiega anche quella che è stata l'enorme espansione del settore terziario, il quale è in gran parte improduttivo nel senso della valorizzazione del capitale - cioè, non produce alcun valore o plusvalore. Se oggi tuttavia può fornire, in tutto il mondo, quella che è la quota, di gran lunga maggiore, di posti di lavoro, ciò avviene solo perché tale settore viene alimentato da entrate e profitti generati prevalentemente dal capitale fittizio, come anticipi di quello che è il valore futuro. Il prezzo che il lavoro deve pagare per questa dipendenza è, ovviamente, estremamente alto. Dacché il capitale non è più da tempo dipendente dal lavoro, per quello che è il suo movimento di accumulazione, esso può allora dettare ampiamente le proprie condizioni di compravendita. È questa la ragione decisiva della precarizzazione e dell'intensificazione globale del lavoro, cosa che va di pari passo con un'ampia perdita di potere fra i sindacati e i partiti dei lavoratori. Simultaneamente, vediamo un'enorme concentrazione di ricchezza in sempre più poche mani, ciò perché il capitale fittizio può accumularsi nei mercati finanziari in un rapporto diretto con sé stesso, senza dover compiere la fastidiosa deviazione che costringe a passare dall'utilizzo del lavoro per la produzione delle merci  (Trenkle 2018).
Nonostante questa riallocazione delle dinamiche di accumulazione verso i mercati finanziari, tuttavia, a risultare accelerato è lo spietato sfruttamento delle risorse naturali. Ed è proprio perché la produzione viene eseguita ad un livello di produttività incredibilmente alto che il consumo di materiale viene sempre più  tremendamente incrementato. La singola unità di merce rappresenta sempre meno valore proprio perché può essere prodotta con un minimo di forza lavoro. Per poter compensare questo, quanto meno parzialmente, la produzione e la distribuzione di merci sono state aumentate in maniera permanente. L'«imperativo della crescita», giustamente criticato, ha in questo una sua causa fondamentale.

5. -
Tutto sommato, nell'epoca del capitale fittizio, in tutto il mondo, le condizioni di lavoro e di vita sono diventate via via sempre più insopportabili, mentre allo stesso tempo viene sempre più distrutto, in maniera orrenda, l'ambiente naturale. Di questo, il cambiamento climatico è l'espressione più estrema e pericolosa. Naturalmente, tutto ciò provoca anche resistenza, ma le varie forme di critica, di protesta e di resistenza, sono largamente frammentate, e nella migliore delle ipotesi rimangono superficialmente correlate tra di loro: non hanno alcun punto di riferimento comune. È questo il motivo per cui, recentemente, ci sono alcune parti della sinistra che cercano di riabilitare il concetto di classe in quanto categoria sintetizzante. Ma per quanto possa essere corretta l'indicazione secondo cui va superata la frammentazione e bisogna creare un nuovo movimento anticapitalista trans-nazionale, a tal riguardo, la categoria della classe non serve a molto. Ciò che collega i diversi approcci della critica, della protesta e della resistenza non è il fatto che essi siano - apparentemente senza saperlo - tutti frammenti di un soggetto mondiale di classe che debba essere solamente riunito. Questo implicherebbe un comune, positivo meta-interesse ed una qualche sorta di presunta unità di classe presupposta, la quale semplicemente non esiste. Ciò che collega le diverse forme di resistenza, è piuttosto un punto fermo negativo. Queste forme di resistenza vengono accese tutte in maniera diversa da delle linee di conflitto determinate da quelle che sono le dinamiche imperiali e distruttive della produzione di ricchezza astratta. Questa connessione, tuttavia, dove non c'è un concetto critico di questa forma, storicamente specifica, di produzione di ricchezza, rimane invisibile, dal momento che gli effetti di questa dinamica sono empiricamente assai differenti nelle varie aree sociali e nelle diverse dimensioni.
Al momento, in particolare, nei centri capitalisti ci sono quattro linee di conflitto particolarmente virulente: la questione delle abitazioni, i cambiamenti climatici, la precarizzazione delle condizioni lavorative e l'immigrazione. Esse, derivano tutti direttamente dalla specifica traiettoria di quella che è la produzione di ricchezza astratta nell'era del capitale fittizio e della crisi fondamentale della valorizzazione del capitale. 
Qui sopra, ho tratteggiato brevemente le prime tre di queste linee di conflitto, ma appare evidente anche quale sia il collegamento con il grande flusso dell'immigrazione verso i grandi centri capitalisti. Le persone, per lo più fuggono perché le loro precedenti condizioni di vita sono state distrutte dalla violenza della capitalizzazione, ma, allo stesso tempo, non c'è più bisogno di loro in quanto lavoratori. Sono «persone superflue» (Bauman 2005) che all'attuale livello di forza produttiva il capitalismo «produce» su larga scala, e nelle condizioni di un'accumulazione che viene guidata dal capitale fittizio.
Chiunque cerchi di ridurre tutte queste problematiche e linee di conflitto al comune denominatore di un onnicomprensivo interesse di classe, fallirà necessariamente. Non esiste niente di simile. Tutt'altro.
Spesso, gli interessi relativi alle varie linee di conflitto sono perfino diametralmente opposti, come quando, ad esempio, nei centri capitalistici i precarizzati temono che l'immigrazione causerà un ulteriore deterioramento delle condizioni lavorative e costringerà i prezzi degli alloggi ad aumentare dell'altro, o quando le misure di politica climatica, come quelle della tassa sulla CO2, minacciano i posti di lavoro nell'industria automobilistica e fanno aumentare il prezzo del carburante, del riscaldamento e dell'elettricità. In tal modo, i tentativi di resistenza non si legano insieme, ma entrano in conflitto tra di loro. Per questo motivo, una sintesi anticapitalistica non può aver luogo sulla base di interessi comuni, ma solo in una comune contrapposizione contro la forma capitalista della produzione di ricchezza.
Tutto questo è assai meno astratto di quanto possa sembrare inizialmente. Da un lato, è possibile mostrare in maniera molto concreta, e sulle basi di ciascuna singola linea di conflitto, in che cosa consista il loro terreno comune negativo. Dall'altro lato, tutto questo si traduce in una prospettiva comune di emancipazione sociale, che può consistere solamente nell'abolizione (Aufhebung) della produzione di ricchezza astratta, e nel realizzare una società di individui liberamente associati. E, finalmente, a partire da questa base, potranno essere sviluppate richieste concrete, misure e iniziative concrete in questa direzione, che consentano di legare insieme momenti di resistenza apparentemente diversi. Perciò, ad esempio, la lotta per gli alloggi fa parte di una più ampia lotta per appropriarsi e trasformare la produzione sociale di ricchezza in strutture cooperative che siano organizzate secondo i criteri della razionalità materiale, e in cui ciascuno possa agire secondo quelli che sono i suoi propri bisogni e abilità. Questa trasformazione della produzione di ricchezza e delle relazioni sociali non può avvenire solo a partire da uno sconvolgimento rivoluzionario della società, ma deve piuttosto essere un momento essenziale di un processo di emancipazione, nel corso del quale la nuova società, per così dire, inventa sé stessa.
Laddove il discorso di classe mette sempre in discussione principalmente il «chi», vale a dire, il presunto attore dell'emancipazione, la Negazione Determinata (bestimmte Negation) della produzione di ricchezza astratta offre delle risposte assai chiare al «che cosa», vale a dire, al contenuto del processo di emancipazione sociale. Perciò, alla domanda circa quali siano gli attori in questo processo, il processo di emancipazione sociale risponde da sé solo. Dal momento che gli attori non esistono a priori, essi possono costituire sé stessi solo a partire ed in relazione al contenuto emancipatorio, lungo quelle che sono le varie linee di conflitto. Ci si può riferire al Manifesto del Partito Comunista soltanto per un aspetto: quello del grande slancio rivoluzionario che è in grado di accendere. Ma per quel che attiene al contenuto dell'emancipazione, bisogna fare riferimento all'«altro Marx», a quella parte della teoria marxiana che la sinistra tradizionale in gran parte ancora ignora.

- Norbert Trenkle (Krisis) - Pubblicato il 1° luglio 2019 su Krisis - Versione estesa di un documento presentato alla conferenza su "Manifesto Comunista: Storia, Eredità, Critica" (Praga, 7 giugno 2019). -

Bibliografia:

Bauman, Zygmunt (2005) Verworfenes Leben, Bonn 2005
Friedrich, Sebastian & Redaktion analyse und kritik (Hg.): Neue Klassenpolitik, Berlin 2018
Lohoff, Ernst; Trenkle, Norbert (2012): Die große Entwertung, Münster 2012
Lohoff, Ernst (2014): Kapitalakkumulation ohne Wertakkumulation, Krisis 1/2014, www.krisis.org/2014/kapitalakkumulation-ohne-wertakkumulation/
Marx, Karl; Engels, Friedrich (1848): Manifest der Kommunistischen Partei, in MEW 4, Berlin 1977, S. 459 – 493
Postone, Moishe (2003): Zeit, Arbeit und gesellschaftliche Herrschaft, Freiburg 2003
Trenkle, Norbert (2006): Kampf ohne Klassen, in: Krisis 30, Münster 2006
Trenkle, Norbert (2016): Die Arbeit hängt am Tropf des fiktiven Kapitals, Krisis 1/2016, www.krisis.org/2016/die-arbeit-haengt-am-tropf-des-fiktiven-kapitals/
Trenkle, Norbert (2018): Workout. Die Krise der Arbeit und die Grenzen der kapitalistischen Gesellschaft, www.krisis.org/2018/workout-die-krise-der-arbeit-und-die-grenzen-der-kapitalistischen-gesellschaft/
Trenkle, Norbert (2019): Ungesellschaftliche Gesellschaftlichkeit, www.krisis.org/2019/ungesellschaftliche-gesellschaftlichkeit/
Žižek, Slavoy (2015): Der neue Klassenkampf, Berlin 2015

fonte: Krisis

sabato 21 settembre 2019

Inchieste Selvagge

Phoebe Siegler incontra per la prima volta Charles Heist, il Detective selvaggio, in un ufficio cupo e trasandato, in mezzo a una distesa di roulotte all’estrema periferia di Los Angeles. La donna vuole ingaggiarlo per la ricerca di Arabella, la figlia di una sua amica, scomparsa da tre mesi: i pochissimi indizi portano alla California, a una qualche comunità strampalata e a Leonard Cohen, di cui la ragazza era una fan sfegatata.
Heist, un solitario di poche parole che tiene nel cassetto della scrivania un opossum come animale domestico, conquista subito l’esuberante, sarcastica e logorroica Phoebe.
L’improbabile coppia inizia così un viaggio tra i vagabondi che abitano nel deserto californiano per scoprire che Arabella è in pericolo e che solo il Detective selvaggio, per ragioni misteriose, può tirarla fuori da guai. L’avventura di Phoebe nel deserto si prospettava bizzarra sin dall’inizio, ma di certo nessuno poteva immaginare quanto sarebbe diventata pericolosa…
Dopo l’indimenticabile Brooklyn senza madre, Jonathan Lethem ritorna al romanzo poliziesco, restituendoci gli stessi, formidabili ingredienti: giochi di parole magistrali, personaggi vividi e intensi, e soprattutto il suo straordinario, velocissimo, senso dell’umorismo.

(dal retro di copertina di: "Il detective selvaggio", di Johnatan Lethem. La nave di Teseo.)

Il detective selvaggio di Jonathan Lethem
- di Liborio Conca -

C’è questo aneddoto che riguarda Bob Dylan e Leonard Cohen, insieme a bordo dell’automobile del primo. Bob desiderava mostrare all’Esimio Collega Canadese una proprietà da poco acquistata in California. A un certo punto la radio trasmise Just Like a Woman. Colpito ancora una volta dalla magia di quella canzone, Cohen ribadì a Dylan tutta la sua ammirazione nei suoi confronti. Al che, di rimando, Bob gli disse: «Sai, una volta un cantautore mi ha detto “Tu sei il numero uno, ma io sono il numero due”. In realtà, Leonard, io penso che tu sia il numero uno. Io sono il numero zero».
Probabilmente è così. Come è altrettanto probabile che non ci sia niente in comune tra Leonard Cohen e Donald Trump. Niente a parte una cosa, uno di quelli che ci divertiamo a definire beffardi scherzi del destino: Leonard è morto nelle stesse ore che hanno visto Donald issarsi alla Casa Bianca, nei primi giorni del novembre 2016. Una coincidenza che non poteva passare inosservata, specialmente per gli intellettuali americani di estrazione liberal che hanno vissuto l’elezione di Trump come l’equivalente politico di un violento pugno nello stomaco. Jonathan Lethem, a tutta evidenza, è uno di loro, uno di quelli colpiti allo stomaco.
Nel nuovo romanzo Il detective selvaggio (La nave di Teseo, traduzione di Andrea Silvestri) ha messo in piedi una storia di deserti, stravaganti comunità hippie e ragazzine scomparse; il tutto, sembrerebbe, per elaborare il trauma dell’elezione del «mostro arancione». Al tempo stesso, per l’autore che battezzò Dylan il protagonista del suo capolavoro La fortezza della solitudine, la concomitante morte di Cohen non poteva restare fuori dall’ingranaggio narrativo.
I fatti del romanzo, dalla trama piuttosto complicata, si svolgono nel 2017. Phoebe Siegler ha poco più di trent’anni e si è appena licenziata dal New York Times, scandalizzata dall’atteggiamento troppo remissivo mostrato dalle alte sfere del giornale verso la «Bestia-Eletta». In una New York pervasa da una «atmosfera di nevrosi caffeica», Phoebe trova rifugio da Roslyn Swados, una ex collega fresca di divorzio, riuscendo a stabilire un rapporto di complicità anche con la figlia adolescente della donna, Arabella. Phoebe si scopre nel bel mezzo di un turbolento rapporto madre-figlia, destinato a deflagrare quando Arabella, che nel frattempo si è trasferita a Portland per frequentare il college, fa perdere le sue tracce. A questo punto Phoebe decide di partire, ansiosa di ritrovare tanto la ragazza quanto sé stessa. Il fatto è che Arabella ha un’autentica venerazione per Leonard Cohen, e con tutta probabilità si è diretta verso la comunità di Mount Baldy, laddove sorge il centro buddhista che aveva ospitato Leonard Cohen per diversi anni. La destinazione dunque è la California, nei dintorni suburbani di Los Angeles, ed è qui che entra in gioco Charles Heist, il detective selvaggio del titolo. Heist, specializzato nella ricerca di persone in fuga, ha la fama di detective dai metodi poco ortodossi, custodisce un opossum ferito nel cassetto della scrivania e nel complesso ricorda una versione non-psichedelica di Doc Sportello, l’investigatore del Thomas Pynchon di Vizio di forma, portato al cinema da Paul Thomas Anderson con il volto di Joaquin Phoenix. Agli occhi di Phoebe, Heist ha qualcosa di misterioso che la impaurisce e la attrae al tempo stesso. Nel corso del romanzo, i segreti di Heist – che qui non verranno svelati per non commettere reato di spoiler – assumeranno un ruolo di primo piano, mescolandosi/sovrapponendosi alle ricerche di Phoebe e alla fuga di Arabella.
Come detto prima, lungo tutto Il detective selvaggio (a proposito: è giusto puntualizzare che il personaggio creato da Lethem non ha niente a che fare con Ulises Lima e Arturo Belano, gli omologhi selvaggi che abbiamo inseguito nel romanzo di Roberto Bolaño) aleggia un enorme spettro dai capelli arancioni: per una come Phoebe, è come se l’elezione di Trump, un fatto politico, abbia portato in superficie uno stato di collasso emotivo strisciante, un’insofferenza generale verso l’intera struttura della società. Lo stordimento di Phoebe è il medesimo di Lethem, uno dei grandi eredi della tradizione postmoderna, qui alle prese con una storia ricca di inventiva e tra le sue più cupe, con bagliori apocalittici nel cuore inesplorato dell’America e una manciata di personaggi derelitti sistemati ai margini della nazione. Per fronteggiare il mostro, sembra suggerire Lethem, occorrono vie radicali, servono coraggio e fantasie, bisogna rivisitare l’America nell’abisso profondo dei suoi confini.

- Liborio Concapubblicato il 19 settembre 2019 su tuttolibri -