Phoebe Siegler incontra per la prima volta Charles Heist, il Detective selvaggio, in un ufficio cupo e trasandato, in mezzo a una distesa di roulotte all’estrema periferia di Los Angeles. La donna vuole ingaggiarlo per la ricerca di Arabella, la figlia di una sua amica, scomparsa da tre mesi: i pochissimi indizi portano alla California, a una qualche comunità strampalata e a Leonard Cohen, di cui la ragazza era una fan sfegatata.
Heist, un solitario di poche parole che tiene nel cassetto della scrivania un opossum come animale domestico, conquista subito l’esuberante, sarcastica e logorroica Phoebe.
L’improbabile coppia inizia così un viaggio tra i vagabondi che abitano nel deserto californiano per scoprire che Arabella è in pericolo e che solo il Detective selvaggio, per ragioni misteriose, può tirarla fuori da guai. L’avventura di Phoebe nel deserto si prospettava bizzarra sin dall’inizio, ma di certo nessuno poteva immaginare quanto sarebbe diventata pericolosa…
Dopo l’indimenticabile Brooklyn senza madre, Jonathan Lethem ritorna al romanzo poliziesco, restituendoci gli stessi, formidabili ingredienti: giochi di parole magistrali, personaggi vividi e intensi, e soprattutto il suo straordinario, velocissimo, senso dell’umorismo.
(dal retro di copertina di: "Il detective selvaggio", di Johnatan Lethem. La nave di Teseo.)
Il detective selvaggio di Jonathan Lethem
- di Liborio Conca -
C’è questo aneddoto che riguarda Bob Dylan e Leonard Cohen, insieme a bordo dell’automobile del primo. Bob desiderava mostrare all’Esimio Collega Canadese una proprietà da poco acquistata in California. A un certo punto la radio trasmise Just Like a Woman. Colpito ancora una volta dalla magia di quella canzone, Cohen ribadì a Dylan tutta la sua ammirazione nei suoi confronti. Al che, di rimando, Bob gli disse: «Sai, una volta un cantautore mi ha detto “Tu sei il numero uno, ma io sono il numero due”. In realtà, Leonard, io penso che tu sia il numero uno. Io sono il numero zero».
Probabilmente è così. Come è altrettanto probabile che non ci sia niente in comune tra Leonard Cohen e Donald Trump. Niente a parte una cosa, uno di quelli che ci divertiamo a definire beffardi scherzi del destino: Leonard è morto nelle stesse ore che hanno visto Donald issarsi alla Casa Bianca, nei primi giorni del novembre 2016. Una coincidenza che non poteva passare inosservata, specialmente per gli intellettuali americani di estrazione liberal che hanno vissuto l’elezione di Trump come l’equivalente politico di un violento pugno nello stomaco. Jonathan Lethem, a tutta evidenza, è uno di loro, uno di quelli colpiti allo stomaco.
Nel nuovo romanzo Il detective selvaggio (La nave di Teseo, traduzione di Andrea Silvestri) ha messo in piedi una storia di deserti, stravaganti comunità hippie e ragazzine scomparse; il tutto, sembrerebbe, per elaborare il trauma dell’elezione del «mostro arancione». Al tempo stesso, per l’autore che battezzò Dylan il protagonista del suo capolavoro La fortezza della solitudine, la concomitante morte di Cohen non poteva restare fuori dall’ingranaggio narrativo.
I fatti del romanzo, dalla trama piuttosto complicata, si svolgono nel 2017. Phoebe Siegler ha poco più di trent’anni e si è appena licenziata dal New York Times, scandalizzata dall’atteggiamento troppo remissivo mostrato dalle alte sfere del giornale verso la «Bestia-Eletta». In una New York pervasa da una «atmosfera di nevrosi caffeica», Phoebe trova rifugio da Roslyn Swados, una ex collega fresca di divorzio, riuscendo a stabilire un rapporto di complicità anche con la figlia adolescente della donna, Arabella. Phoebe si scopre nel bel mezzo di un turbolento rapporto madre-figlia, destinato a deflagrare quando Arabella, che nel frattempo si è trasferita a Portland per frequentare il college, fa perdere le sue tracce. A questo punto Phoebe decide di partire, ansiosa di ritrovare tanto la ragazza quanto sé stessa. Il fatto è che Arabella ha un’autentica venerazione per Leonard Cohen, e con tutta probabilità si è diretta verso la comunità di Mount Baldy, laddove sorge il centro buddhista che aveva ospitato Leonard Cohen per diversi anni. La destinazione dunque è la California, nei dintorni suburbani di Los Angeles, ed è qui che entra in gioco Charles Heist, il detective selvaggio del titolo. Heist, specializzato nella ricerca di persone in fuga, ha la fama di detective dai metodi poco ortodossi, custodisce un opossum ferito nel cassetto della scrivania e nel complesso ricorda una versione non-psichedelica di Doc Sportello, l’investigatore del Thomas Pynchon di Vizio di forma, portato al cinema da Paul Thomas Anderson con il volto di Joaquin Phoenix. Agli occhi di Phoebe, Heist ha qualcosa di misterioso che la impaurisce e la attrae al tempo stesso. Nel corso del romanzo, i segreti di Heist – che qui non verranno svelati per non commettere reato di spoiler – assumeranno un ruolo di primo piano, mescolandosi/sovrapponendosi alle ricerche di Phoebe e alla fuga di Arabella.
Come detto prima, lungo tutto Il detective selvaggio (a proposito: è giusto puntualizzare che il personaggio creato da Lethem non ha niente a che fare con Ulises Lima e Arturo Belano, gli omologhi selvaggi che abbiamo inseguito nel romanzo di Roberto Bolaño) aleggia un enorme spettro dai capelli arancioni: per una come Phoebe, è come se l’elezione di Trump, un fatto politico, abbia portato in superficie uno stato di collasso emotivo strisciante, un’insofferenza generale verso l’intera struttura della società. Lo stordimento di Phoebe è il medesimo di Lethem, uno dei grandi eredi della tradizione postmoderna, qui alle prese con una storia ricca di inventiva e tra le sue più cupe, con bagliori apocalittici nel cuore inesplorato dell’America e una manciata di personaggi derelitti sistemati ai margini della nazione. Per fronteggiare il mostro, sembra suggerire Lethem, occorrono vie radicali, servono coraggio e fantasie, bisogna rivisitare l’America nell’abisso profondo dei suoi confini.
- Liborio Conca - pubblicato il 19 settembre 2019 su tuttolibri -
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