Alcuni punti essenziali della Critica del Valore
- di Anselm Jappe -
Il sistema capitalista è entrato in una grave crisi. Questa non è solamente una crisi ciclica, bensì finale, e va vista non nel senso di un collasso imminente, ma come disgregazione di quello che è un sistema plurisecolare. Non si tratta della profezia di un evento futuro, ma della constatazione di un processo diventato visibile nei primi anni '70, le cui radici risalgono alle origini stesse del capitalismo. Quella cui assistiamo, non è una transizione che ci porta ad un altro regime di accumulazione (come avvenne nel caso del fordismo), né coincide con l'avvento di nuove tecnologie (come avvenne nel caso dell'automobile), e non si tratta neppure di uno spostamento del centro di gravità e della sua dislocazione verso altre regioni del mondo, ma dell'esaurimento di quella che è la fonte stessa del capitalismo: la trasformazione del lavoro vivente in valore.
Le teorie fondamentali del capitalismo, così come le analizza Karl Marx nella sua critica dell'economia politica, sono il lavoro astratto e il valore, la merce e il denaro, e che vengono riassunti nel concetto di feticismo della merce.
Una critica morale basata sulla denuncia dell'«avidità» eviterebbe di prendere in considerazione ciò che è essenziale. Non si tratta di essere marxisti o post-marxisti, o di interpretare l'opera di Marx, o integrarla per mezzo di altri contributi teorici. Ma, piuttosto, va ammessa la differenza tra il Marx «essoterico» ed il Marx «esoterico», tra il nucleo concettuale e lo sviluppo storico, tra l'essenza ed il fenomeno. Marx non è «obsoleto», come sostengono i critici borghesi. Anche se ci si concentra soprattutto sulla critica dell'economia politica,e all'interno di quella che è la teoria del valore e del lavoro astratta, ciò costituisce tuttora il contributo più importante per comprendere il mondo in cui viviamo.
Un uso emancipatorio della teoria di Marx non significa affatto «superarla» , o mescolarla a quella di altri autori, oppure tentare ancora di ripristinare il «vero Marx», se non addirittura prenderlo sempre alla lettera, ma significa piuttosto pensare il mondo di oggi per mezzo degli strumenti che ci ha reso disponibili. Bisogna sviluppare le sue intuizioni fondamentali, a volte anche contro la lettera stessa dei suoi testi.
Le categorie di base del capitalismo non sono né neutre né sovra-storiche. Le loro conseguenze sono disastrose: la supremazia dell'astratto sul concreto (quindi, la loro inversione), il feticismo della merce, l'autonomizzazione dei processi sociali in relazione alla volontà umana cosciente, l'uomo dominato dalle sue stesse creazioni. Il capitalismo è inseparabile dalla grande industria, valore e tecnologia procedono di pari passo - sono queste le due forme del determinismo e del feticismo.
Inoltre, queste categorie sono soggette ad una dinamica storica che le rende ancora più distruttive, ma che allo stesso tempo apre alla possibilità di un loro superamento. Di fatto, il valore si esaurisce. Sin dai suoi inizi, più di duecento anni fa, la logica capitalistica tende a «segare il ramo su cui si trova seduta», poiché la concorrenza spinge ogni capitale particolare ad utilizzare delle tecnologie che sostituiscono il lavoro vivente: la cosa comporta un vantaggio immediato per il capitale particolare in questione, ma a livello globale, in misura corrispondente, riduce altrettanto la produzione di valore, di plusvalore e di profitto, mettendo perciò in difficoltà quella che è la riproduzione del sistema. I vari meccanismi di compensazione, l'ultimo dei quali è stato il fordismo, si sono definitivamente esauriti. La «terziarizzazione» non salverà il capitalismo: dobbiamo tener conto di quella che è la differenza tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo (di capitale, ovviamente!)
Agli inizi degli anni '70, venne raggiunto un triplo, se non quadruplo, punto di rottura: economico (visibile nell'abbandono dell'indicizzazione del dollaro sul gold-standard), ecologico (visibile nel rapporto del Club di Roma), energetico (visibile nel «primo shock petrolifero», cui si può aggiungere il cambiamento di mentalità e delle forme di vita dopo il '68 («modernità liquida», «terzo spirito del capitalismo»). In questo modo, la società delle merci ha cominciato a cozzare contro i suoi propri limiti, sia interni che esterni.
In questa crisi permanente di accumulazione - cosa che significa una crescente difficoltà a realizzare dei profitti - i mercati finanziari (il capitale fittizio) sono diventati la principale fonte di profitto, che consente di consumare dei guadagni futuri non ancora realizzati. L'impennata mondiale della finanza è l'effetto, e non la causa, della crisi della valorizzazione del capitale. Gli attuali profitti di alcuni attori economici non dimostrano che il sistema si trova in buona salute. La torta è sempre più piccola, anche se viene tagliata in fette sempre più grandi. Né la Cina, né gli altri «paesi emergenti» salveranno il capitale, nonostante tutto lo sfruttamento selvaggio di cui essi sono il teatro.
In quella che è l'analisi del capitalismo, il concetto di «lotta di classe» va criticato. Il ruolo delle classi è quello, piuttosto, di una conseguenza del loro posto nell'accumulazione di valore, in quanto processo anonimo - non sono le classi che si trovano all'origine di questa accumulazione. Ciò che rende storicamente unico il capitalismo non è l'ingiustizia sociale, essa esisteva già da molto prima. A renderlo unico, sono il lavoro astratto ed il denaro che lo rappresenta, e che hanno creato una società del tutto inedita, nella quale gli attori, anche quelli «dominanti», sono sostanzialmente gli esecutori di una logica che va al di là di essi, e trascendendoli li supera (un'affermazione questa che, tuttavia, non assolve determinate figure da quelle che sono le loro responsabilità).
Il ruolo storico del movimento operaio, al di là di quelle che erano le sue intenzioni proclamate, ha consistito soprattutto nel promuovere l'integrazione del proletariato. Ciò si è rivelato effettivamente possibile nel corso di quella che è stata la lunga fase ascendente della società capitalista. Ma oggi non è più così. È necessario riprendere una critica della produzione, e non solo limitarsi a richiedere un'equa distribuzione delle categorie presupposte (denaro, valore, lavoro). Oggi, la questione del lavoro astratto smette di essere «astratta», ma diventa direttamente sensibile.
L'Unione Sovietica è stata essenzialmente una forma di «modernizzazione di recupero» (attraverso l'autarchia). Ciò vale anche per i movimenti rivoluzionari della «periferia» e per quei paesi che tali movimenti hanno potuto governare. Dopo il 1980, il loro fallimento è stata la causa di numerosi conflitti attuali. Il trionfo del capitalismo è anche con la sua bancarotta. Il valore non solo non crea una società sostenibile, oltre che ingiusta, ma distrugge anche quelle che sono le sue stesse basi per quanto concerne tutti i settori.
Anziché continuare a cercare un «soggetto rivoluzionario», bisogna superare quello che è il «soggetto automatico» (Marx), sul quale si fonda la società delle merci. Accanto allo sfruttamento - che continua ad esistere, anche in proporzioni gigantesche - quello che è diventato il problema creato dal capitalismo, è la creazione di un'umanità «superflua», se non addirittura di un'«umanità-spazzatura». Il capitale non ha più bisogno dell'umanità, e finisce così per auto-divorarsi. Tale situazione, costituisce un terreno favorevole all'emancipazione, ma anche alla barbarie. Piuttosto che una dicotomia Nord-Sud, quello che ci troviamo di fronte è un «apartheid globale», con dei muri costruiti intorno a delle isole di ricchezza, in ogni paese, in ogni città.
L'impotenza degli Stati di fronte al capitale globale non è solamente un problema di cattiva volontà, ma è la conseguenza del carattere dello Stato e della politica, strutturalmente subordinato alla sfera del valore. É impossibile superare la crisi ecologica nel contesto del capitalismo, anche avendo come obiettivo la decrescita o, peggio ancora, il «capitalismo verde» e lo «sviluppo sostenibile»: Fino a ché perdura la società delle merci, la crescita della produttività significa che una massa sempre più crescente di oggetti materiali - la cui produzione consuma quelle che sono delle risorse reali - rappresenta una massa sempre più piccola di valore, la quale è l'espressione del lato astratto del lavoro - e nella logica del capitale ciò che conta è solamente la produzione di valore. Il capitalismo è perciò essenzialmente, inevitabilmente, produttivistica e rivolto alla produzione per la produzione.
Allo stesso tempo, stiamo vivendo una crisi antropologica, una crisi di civiltà che è anche una crisi della soggettività. Quella che c'è, è una perdita dell'immaginario, soprattutto di quella nata nel corso dell'infanzia. Il narcisismo è diventato la forma psichica dominante. Quello con cui abbiamo a che fare, è un fenomeno mondiale: la Playstation, la possiamo trovare nella capanna, in mezzo alla giungla, così come nel loft newyorkese. Di fronte alla regressione e alla decivilizzazione promossa dal capitale, bisogna decolonizzare l'immaginario e reinventare la felicità.
La società capitalista, basata sul lavoro e sul valore, è anche una società patriarcale - ed essa lo è nella sua essenza, e non solo per caso. Storicamente, la produzione di valore è una faccenda maschile. In effetti, non tutte le attività creano del valore che poi appare nello scambio sul mercato. Le attività cosiddette «riproduttive», e che si svolgono soprattutto nella sfera domestica, vengono generalmente assegnate alle donne. Tali attività sono indispensabili alla produzione di valore, ma non producono alcun valore. Giocano un ruolo indispensabile, ma ausiliario, nella società del valore. Questa società consiste tanto nella sfera del valore quanto in quella del non valore, vale a dire che essa è l'insieme di queste due sfere. Ma la sfera del non valore non è una sfera libera, o «non alienata», ma tutto il contrario. Questa sfera del non valore contiene lo status di «non-soggetto» (e per molto tempo, anche a livello giuridico), dal momento che queste attività non vengono considerate «lavoro» (per quanto utili esse possano essere) e non compaiono sul mercato.
Il capitalismo non ha inventato la separazione tra la sfera privata, domestica, e la sfera pubblica del lavoro. Ma l'ha accentuata, e di molto. Malgrado tutte le sue pretese universalistiche che si sono espresse attraverso l'Illuminismo, il capitalismo è nato nella forma di quello che era un dominio dell'uomo bianco occidentale, ed ha continuato a basarsi su una logica di esclusione: da un lato, separazione tra la produzione del valore, il lavoro che lo crea e le qualità umane che ad esso contribuiscono (in particolar modo, la disciplina interiorizzata e lo spirito di concorrenza individuale), e, dall'altro lato, tutto ciò che non ne fa parte.
Una parte degli esclusi, nel corso degli ultimi decenni, soprattutto le donne, sono state parzialmente «integrate» nella logica di mercato ed hanno potuto accedere allo status di «soggetto» - ma solo quando hanno dimostrato di aver acquisito ed interiorizzato le «qualità» dell'uomo bianco occidentale. Generalmente, il prezzo da pagare per questa integrazione consiste in una doppia alienazione (per le donne, famiglia e lavoro). Allo stesso tempo, vengono create delle nuove forme di esclusione, specialmente in tempi di crisi. Tuttavia, non si tratta tanto di chiedere l'«inclusione» degli esclusi nella sfera del lavoro, del denaro e dello status di soggetto, quanto di farla finita con una società nella quale solo la partecipazione al mercato dà il diritto di essere «soggetto». Il patriarcato, così come il razzismo, non è una sopravvivenza anacronistica nel contesto di un capitalismo che tenderebbe invece all'uguaglianza davanti al denaro.
Attualmente, il populismo costituisce un enorme pericolo. Attraverso di esso, viene criticata solamente la sfera finanziaria, ed in questo si mescolano quelli che sono degli elementi di sinistra e di destra, arrivando perfino ad evocare l'«anticapitalismo» tronco dei fascisti. Bisogna combattere il capitalismo nel suo insieme, in blocco, e non solo quella che è la sua fase neoliberista. Un ritorno al keynesismo e allo stato sociale non è né desiderabile né possibile. Vale la pena lottare per «integrarsi» nella società dominante (ottenere dei diritti, migliorare la propria situazione materiale) - oppure questo è semplicemente impossibile?
Occorre, quindi, evitare l'entusiasmo fuorviante di chi va a sommare quelle che sono tutte le attuali forme di contestazione per poi dedurne l'esistenza di una rivoluzione che sarebbe già in atto. Alcune di queste forme rischiano di essere recuperate da una difesa dell'ordine costituito, mentre altre possono portare alla barbarie. Il capitalismo arriva a realizzare esso stesso, da sé solo, la sua propria abolizione, quella del denaro, del lavoro, ecc. - ma fare in modo che il risultato non sia peggiore, dipende solamente da un agire cosciente. È necessario superare la dicotomia tra riforma e rivoluzione - ma questo va fatto in nome del radicalismo, dal momento che il riformismo non è in alcun modo «realista». Spesso, si presta eccessiva attenzione a quella che è la forma della contestazione (violenza/non-violenza, ecc.) anziché interessarsi al suo contenuto.
L'abolizione del denaro e del valore, della merce e del lavoro, dello Stato e del Mercato deve avvenire in un sol colpo, tutt'insieme - né come programma massimalista né come utopia, bensì come la sola forma possibile di «realismo». Non basta liberarsi dalla «classe dei capitalisti», occorre liberarsi dalla relazione sociale capitalistica - una relazione che riguarda tutti, in tutto il mondo, quali che siano i ruoli sociali di ciascuno. Appare quindi difficile il poter tracciare una linea tra «loro» e «noi», anche solo per dire che «noi siamo il 99%», come hanno fanno molti «movimenti nelle piazze». Tuttavia, questo genere di problema può presentarsi in maniera assai diversa nelle varie regioni del mondo.
Non si tratta assolutamente solo di realizzare una qualche forma di autogestione di quella che è l'alienazione capitalistica. L'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione non basterebbe. La sottomissione e la subordinazione della vita sociale alla sua forma valore e alla sua accumulazione, al limite, potrebbe fare a meno di una «classe dominante» ed avvenire in una forma «democratica», senza essere per questo meno distruttiva. La colpa non ricade né sulla struttura tecnica, in quanto tale, né su una modernità considerata come insuperabile, ma su quel «soggetto automatico» che è il valore.
Esistono modi diversi di intendere l'«abolizione del lavoro». Concepirla attraverso le tecnologie, rischia di rafforzare la diffusa tecnolatria. Piuttosto che ridurre semplicemente il tempo di lavoro, o fare un «elogio dell'ozio», si tratta di andare perfino oltre quella che è la distinzione che si fa tra il «lavoro» e le altre attività. Su questo punto, le culture non capitaliste sono assai ricche di insegnamenti.
Non esiste alcun modello del passato da riprodurre tale e quale, nessuna saggezza ancestrale che ci possa guidare, nessuna spontaneità del popolo che ci possa dare la certezza di essere salvati. Ma il fatto stesso che tutta l'umanità, per periodi di tempo molto lunghi - ed anche una buona parte dell'umanità fino a poco tempo fa - abbia vissuto facendo a meno delle categorie capitaliste dimostra che tali categorie non hanno niente di naturale e che è possibile vivere senza di esse.
- Anselm Jappe - 2017 - da "La société autophage: Capitalisme, démesure et autodestruction" - Éditions La Découverte -
fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme
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