L'altro Marx
- Perché il Manifesto Comunista è obsoleto -
di Norbert Trenkle (Krisis)
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È almeno a partire dalla crisi finanziaria del 2008 che Karl Marx viene di nuovo riconosciuto, abbastanza giustamente, come altamente attuale. I suoi nuovi e vecchi amici, ad ogni modo, si sono concentrati su quella parte della sua teoria che è ormai da lungo tempo superata: la teoria della lotta di classe tra la borghesia ed il proletariato. Diversamente, l'«altro Marx», quello che ha criticato il capitalismo in quanto società basata sulla produzione generale di merci, sul lavoro astratto, e sull'accumulazione del valore, ha ricevuto ben poche attenzioni serie. Ma invece è proprio questa parte della teoria di Marx che ci permette di analizzare adeguatamente la situazione attuale di quello che è il sistema capitalistico globale ed il suo processo di crisi. La teoria della lotta di classe, al contrario, non contribuisce in alcun modo alla nostra comprensione di quello che sta attualmente accadendo, né è in grado di riuscire a formulare una nuova prospetta di emancipazione sociale. Per tale ragione, bisogna dire che oggi il Manifesto del Partito Comunista è obsoleto, e conserva solo un valore storico.
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Ad una prima occhiata, tutto ciò può sembrare sorprendente. A leggere, estrapolandoli, alcuni passaggi del Manifesto suonano come se fossero delle diagnosi altamente attuali del nostro tempo. Ad esempio, quando Marx ed Engels scrivono che la borghesia, nella sua incessante urgenza di espandersi, ha «dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi» e «ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale» (Marx/Engels 1848), questo si legge come una diagnosi in anticipo di quella che sarà la cosiddetta globalizzazione. Indubbiamente, il capitalismo si è imposto in tutto il pianeta ad un ritmo tremendo, distruggendo quasi completamente, o rendendo marginali tutti gli altri modi di produzione e di vita: ha trasformato quella che era la stragrande maggioranza della popolazione mondiale in venditori di forza lavoro, con esso la polarizzazione sociale ha assunto proporzioni immense, e la ricchezza finanziaria si è concentrata nelle mani di una piccola minoranza, mentre la più parte delle persone vive in condizioni del tutto precarie. A questo punto, sembrerebbe ovvio che dovremmo parlare di un'intensificazione di quelle che sono globalmente le contraddizioni di classe nel senso del Manifesto e di una «Nuova Lotta di Classe» (Žižek 2015) o invocare una «Nuova Politica di Classe» (Friedrich 2018). Ma le apparenze possono ingannare. Per quanto corrette possono essere state queste diagnosi della dinamica storica del capitalismo, il paradigma dell'antagonismo di classe non offre una spiegazione adeguata di quelli che sono gli sviluppi attuali. Innanzitutto, per questo c'è una ragione fondamentale: la contrapposizione tra capitale e lavoro non era e non è affatto una contraddizione antagonistica che demolirà necessariamente il capitalismo, come è stato descritta da Marx ed Engels nel Manifesto e come da allora è stato ripetuto all'infinito. Piuttosto, è un conflitto immanente di interessi che avviene nel contesto di un quadro sociale condiviso e che si basa sulla produzione generale di merci, nel qual la ricchezza sociale assume la forma astratta del valore. La produzione di ricchezza astratta è una caratteristica del capitalismo storicamente specifica. È parte della sua più intima natura. È astratta nel senso che tutte le proprietà materiali di quelli che sono i prodotti creati, e le condizioni concrete della loro produzione, vengono sottomesse alla categoria del valore. L'unica cosa che conta è il tempo di lavoro medio nel contesto di una società, necessario alla loro riproduzione, il quale viene rappresentato dal valore dei prodotti e che, dopo vari passaggi intermedi, appare empiricamente sotto forma di denaro. Ragion per cui, il lavoro occupa una posizione centrale nella produzione della ricchezza astratta. Ma anche in questo caso, non è il contenuto materiale quello che conta. Ciò che importa è che quel lavoro (vale a dire, lavoro astratto) venga speso completamente.
Questa posizione centrale del lavoro è di per sé tutt'altro che evidente. Si tratta di una caratteristica specificamente storica del modo capitalistico di produzione o, più precisamente, della sua caratteristica centrale. Ciò che innanzitutto distingue fondamentalmente questo modo di produzione da tutti gli altri finora esistiti, è la frammentazione sociale in individui isolati l'uno dall'altro, i quali, per arrivare a stabilire quello che è il loro contesto sociale si guardano l'un l'altro in maniera retroattiva ed esterna. Riguardo ciò, l'elemento cruciale è la contraddizione per cui questa socializzazione ha luogo sotto la forma della sfera privata. Individui isolati producono cose, e lo fanno in quanto produttori privati al fine di stabilire una relazione con altri produttori provati grazie a, e per mezzo di, questi prodotti; la cosa riguarderebbe anche il fatto che essi stessi vendono la propria forza lavoro (Trenkle, 2019). Il lavoro, quindi, svolge una funzione che non ha avuto in nessuna altra società: stabilisce la mediazione sociale (Postone, 2003). Per quel che lo riguarda, il suo valore non è altro che la rappresentazione reificata di questa forma di relazione sociale storicamente specifica, la quale esprime sé stessa dapprima in merci, poi in denaro, e infine in quello che è il movimento M-C-M', vale a dire, il movimento del capitale in quanto fine in sé stesso. Il lavoro è quindi una categoria centrale, essenziale, nella società capitalistica. Non si trova ad essere esternamente contrapposto alla categoria del capitale, ma piuttosto ne forma la sua base. Ciò è vero non solo nel senso convenzionale, per cui il capitale è basato sullo sfruttamento del lavoro. La categoria del valore, e quindi anche la categoria del capitale, risultano logicamente dalla forma storicamente specifica di quella che è la mediazione sociale per mezzo del lavoro. Lavoro e capitale perciò si riferiscono sostanzialmente l'uno all'altro. Sono due momenti di una relazione sociale comune. Ed in quanto tali, tuttavia, essi rappresentano anche degli interessi contrastanti. Il fatto che questo conflitto di interessi si sia manifestato ripetutamente in violente lotte, è parte della logica del problema.Il capitale è soggetto alla coazione compulsiva, sistematicamente inesorabile, alla valorizzazione, e questo significa che esso persegue un unico scopo: la conversione senza fine del valore in sempre più valore. Ad ogni modo, tutto ciò presuppone lo sfruttamento della forza lavoro, poiché essa è la sola merce che ha un valore d'uso unico: quello di produrre più valore di quanto non costi. È perciò nell'interesse del capitale ridurre il valore del lavoro (espresso in salari). Al contrario, i venditori di forza lavoro vogliono vendere, naturalmente, la loro merce al prezzo più alto possibile: solo per mezzo di un salario sufficiente, possono accedere alla ricchezza della società della merce. In altre parole, solo così possono acquistare i beni di consumo dei quali hanno bisogno per poter vivere. Si tratta, in ultima analisi, di un conflitto di distribuzione. Di un conflitto che riguarda il modo in cui la massa di valore prodotta viene suddivisa fra quelle che sono le due parti, capitale e lavoro.
Ma dal momento che entrambe le parti costituiscono il nucleo del modo capitalistico di produzione, entrambe condividono anche un interesse comune a voler preservare la produzione di ricchezza astratta, malgrado quelle che sono tutte le loro differenze. È questo il motivo per cui, generalmente, rispettano le regole del gioco dettate da questa forma di ricchezza. Per entrambe le parti, ciò significa innanzitutto che l'accumulazione del capitale deve continuare. Diversamente, il capitale non sarà in grado di proseguire quello che è il suo movimento, fine a sé stesso, di trasformare il denaro in sempre più denaro e, in tal modo, neppure i venditori di forza lavoro potranno avere il denaro di cui hanno bisogno per poter continuare a sopravvivere. Questa basilare comunanza, è la ragione più profonda per cui la contrapposizione tra capitale e lavoro non è riuscita a spazzare via il capitalismo, come aveva predetto il Manifesto, ma ha invece continuato, per tutto il corso del XX secolo; a rimanere assoggettata a quelli che sono stati i nuovi modi di negoziare, e di regolare politicamente, un equilibrio tra questi interessi diversi.
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Storicamente, l'apice di questa regolamentazione dell'equilibrio degli interessi tra capitale e lavoro è stato raggiunto nell'era fordista. E non si tratta di una coincidenza. Durante quel periodo, il capitale si espandeva ad un ritmo storicamente unico, e quindi aveva costantemente bisogno di nuovi lavoratori. Viceversa, questo consentiva ai venditori di forza lavoro di ottenere il potere di negoziare condizioni relativamente buone per la vendita della loro merce, e di partecipare della ricchezza sociale in una misura che precedentemente non era nemmeno immaginabile (Trenkle, 2006). L'interruzione di questa costellazione storica non avvenne con il collasso del cosiddetto socialismo, come di solito si afferma oggi. Ma la cosa, piuttosto, può essere collocata circa quindici anni prima. La ragione di tale interruzione fu dovuta alla fine del boom fordista, che si era accompagnato all'emergere della Terza Rivoluzione Industriale. Ciò aveva significato un salto qualitativo in quello che era lo sviluppo delle forze produttive, poiché in quel modo la conoscenza era diventata la principale forza produttiva, sostituendo in tal modo il lavoro che ricopriva precedentemente quella posizione, proprio come aveva previsto Marx nei Grundrisse. Il risultato era stato l'espulsione di massa della forza lavoro dalla produzione. Questo aveva migliorato notevolmente la posizione contrattuale del capitale, consentendogli di ridurre i salari, e permettendogli così di peggiorare le condizioni lavorative. Simultaneamente, tuttavia, insieme al lavoro su vasta scala, in questo modo il capitale aveva perduto anche quelle che erano le basi per la propria valorizzazione. La conseguenza di tutto questo è stata una profonda crisi nella valorizzazione del capitale, che è durata fino agli anni '80. Nonostante tutte le misure neoliberiste, volte a indebolire la posizione dei sindacati e a deregolamentare le condizioni di lavoro, il rinnovamento delle basi produttive della valorizzazione non erano riuscite a fornire una via d'uscita che portasse fuori dalla crisi. Ciò non era stato possibile, in quanto, una volta che era stato raggiunto un livello di sviluppo della produttività, questo non può essere invertito. Quindi, non si può tornare ad una costellazione nella quale il capitale viene valorizzato per mezzo dello sfruttamento del lavoro su larga scala. Contrariamente, la deregolamentazione neoliberista e la trans-nazionalizzazione dei mercati finanziari avevano aperto le porte ad una nuova era di accumulazione di capitale che non era più principalmente basata sulla valorizzazione del capitale. Il ruolo principale della produzione di plusvalore, era stata ora rimpiazzata per mezzo dell'accumulazione di capitale fittizio (Lohoff/ Trenkle, 2012).
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Il capitale fittizio non è altro che l'anticipazione del valore futuro, del valore che non è ancora stato prodotto, ma che già oggi ha un suo effetto. I mezzi tecnici per poter arrivare a questo, sono i titoli finanziari che rappresentano i crediti relativi a determinate somme di denaro, e la loro moltiplicazione che avviene per mezzo di interessi o dividendi. La «produzione» di massa di tali titoli finanziari (stocks, bonds, futures, ecc.) ed il loro commercio sui mercati finanziari ha permesso al capitale di continuare a crescere per quasi 40 anni, anche se le basi per una larga produzione di plusvalore hanno smesso da tempo di esistere. La crisi fondamentale della valorizzazione del capitale, cominciata negli anni '70, non è mai stata risolta. Piuttosto, è stata, e continua ad essere soppressa per mezzo della massiccia accumulazione di capitale fittizio sui mercati finanziari. A lungo termine, questa «accumulazione di capitale senza valorizzazione» (Lohoff 2014) diventa insostenibile, in quanto porta ad un accumulo sempre più crescente di un potenziale esplosivo di crisi nei mercati finanziari , che poi si scatena in collassi ancora più violenti che minano sempre più quello che è il sistema monetario. Eppure è stato il motore di una tremenda dinamica di espansione capitalista che ha portato all'imposizione finale del modo di produzione e di vita capitalistica in tutto il pianeta.
Simultaneamente, tuttavia, in quest'epoca di capitale fittizio, la relazione tra capitale e lavoro è cambiata in un modo talmente profondo che alla fine la teoria della «contraddizione di classe» ha perso perfino ogni fondamento. Ad una prima occhiata, quest'affermazione può apparire sorprendente. Ovviamente, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale oggi si trova ad essere ancora più dipendente dal lavoro salariato e dalla produzione di merci di quanto lo sia mi stata prima nella storia. E tuttavia, allo stesso tempo, paradossalmente il capitale è diventato in gran parte indipendente dallo sfruttamento della forza lavoro, dal momento che l'accumulazione si è spostata nella sfera del capitale fittizio. Certo, ciò non significa che il lavoro non venga più sfruttato. Sostenerlo sarebbe assolutamente in contrasto con la realtà. Tuttavia, la produzione di plusvalore ha smesso da tempo di essere il motore dell'accumulazione di capitale, ed è diventata anch'essa stessa una variabile dipendente, che viene azionata dalle dinamiche del capitale fittizio sui mercati finanziati (Lohoff/Trenkle 2012; Trenkle 2016). In nessun altro luogo, questo è più evidente di quanto lo sia nel settore delle costruzioni, che attualmente rappresenta il settore più dinamico dell'«economia reale». In questo settore, gli investimenti vengono fatti solo finché esiste la speculazione immobiliare, la quale è il punto di riferimento centrale per l'accumulazione di capitale fittizio. Solo così possono esserci persone in grado di vendere il loro lavoro in quel settore - quasi sempre a condizioni indicibili - mentre allo stesso tempo non hanno i mezzi per poter vivere, dal momento che il capitale fittizio fa aumentare costantemente i prezzi degli immobili.
La dipendenza delle attività nell'economia reale (e quindi del dispendio di lavoro) dalle dinamiche dei mercati finanziari, nell'era del capitale fittizio è un fenomeno universale. Ciò spiega anche quella che è stata l'enorme espansione del settore terziario, il quale è in gran parte improduttivo nel senso della valorizzazione del capitale - cioè, non produce alcun valore o plusvalore. Se oggi tuttavia può fornire, in tutto il mondo, quella che è la quota, di gran lunga maggiore, di posti di lavoro, ciò avviene solo perché tale settore viene alimentato da entrate e profitti generati prevalentemente dal capitale fittizio, come anticipi di quello che è il valore futuro. Il prezzo che il lavoro deve pagare per questa dipendenza è, ovviamente, estremamente alto. Dacché il capitale non è più da tempo dipendente dal lavoro, per quello che è il suo movimento di accumulazione, esso può allora dettare ampiamente le proprie condizioni di compravendita. È questa la ragione decisiva della precarizzazione e dell'intensificazione globale del lavoro, cosa che va di pari passo con un'ampia perdita di potere fra i sindacati e i partiti dei lavoratori. Simultaneamente, vediamo un'enorme concentrazione di ricchezza in sempre più poche mani, ciò perché il capitale fittizio può accumularsi nei mercati finanziari in un rapporto diretto con sé stesso, senza dover compiere la fastidiosa deviazione che costringe a passare dall'utilizzo del lavoro per la produzione delle merci (Trenkle 2018).
Nonostante questa riallocazione delle dinamiche di accumulazione verso i mercati finanziari, tuttavia, a risultare accelerato è lo spietato sfruttamento delle risorse naturali. Ed è proprio perché la produzione viene eseguita ad un livello di produttività incredibilmente alto che il consumo di materiale viene sempre più tremendamente incrementato. La singola unità di merce rappresenta sempre meno valore proprio perché può essere prodotta con un minimo di forza lavoro. Per poter compensare questo, quanto meno parzialmente, la produzione e la distribuzione di merci sono state aumentate in maniera permanente. L'«imperativo della crescita», giustamente criticato, ha in questo una sua causa fondamentale.
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Tutto sommato, nell'epoca del capitale fittizio, in tutto il mondo, le condizioni di lavoro e di vita sono diventate via via sempre più insopportabili, mentre allo stesso tempo viene sempre più distrutto, in maniera orrenda, l'ambiente naturale. Di questo, il cambiamento climatico è l'espressione più estrema e pericolosa. Naturalmente, tutto ciò provoca anche resistenza, ma le varie forme di critica, di protesta e di resistenza, sono largamente frammentate, e nella migliore delle ipotesi rimangono superficialmente correlate tra di loro: non hanno alcun punto di riferimento comune. È questo il motivo per cui, recentemente, ci sono alcune parti della sinistra che cercano di riabilitare il concetto di classe in quanto categoria sintetizzante. Ma per quanto possa essere corretta l'indicazione secondo cui va superata la frammentazione e bisogna creare un nuovo movimento anticapitalista trans-nazionale, a tal riguardo, la categoria della classe non serve a molto. Ciò che collega i diversi approcci della critica, della protesta e della resistenza non è il fatto che essi siano - apparentemente senza saperlo - tutti frammenti di un soggetto mondiale di classe che debba essere solamente riunito. Questo implicherebbe un comune, positivo meta-interesse ed una qualche sorta di presunta unità di classe presupposta, la quale semplicemente non esiste. Ciò che collega le diverse forme di resistenza, è piuttosto un punto fermo negativo. Queste forme di resistenza vengono accese tutte in maniera diversa da delle linee di conflitto determinate da quelle che sono le dinamiche imperiali e distruttive della produzione di ricchezza astratta. Questa connessione, tuttavia, dove non c'è un concetto critico di questa forma, storicamente specifica, di produzione di ricchezza, rimane invisibile, dal momento che gli effetti di questa dinamica sono empiricamente assai differenti nelle varie aree sociali e nelle diverse dimensioni.
Al momento, in particolare, nei centri capitalisti ci sono quattro linee di conflitto particolarmente virulente: la questione delle abitazioni, i cambiamenti climatici, la precarizzazione delle condizioni lavorative e l'immigrazione. Esse, derivano tutti direttamente dalla specifica traiettoria di quella che è la produzione di ricchezza astratta nell'era del capitale fittizio e della crisi fondamentale della valorizzazione del capitale.
Qui sopra, ho tratteggiato brevemente le prime tre di queste linee di conflitto, ma appare evidente anche quale sia il collegamento con il grande flusso dell'immigrazione verso i grandi centri capitalisti. Le persone, per lo più fuggono perché le loro precedenti condizioni di vita sono state distrutte dalla violenza della capitalizzazione, ma, allo stesso tempo, non c'è più bisogno di loro in quanto lavoratori. Sono «persone superflue» (Bauman 2005) che all'attuale livello di forza produttiva il capitalismo «produce» su larga scala, e nelle condizioni di un'accumulazione che viene guidata dal capitale fittizio.
Chiunque cerchi di ridurre tutte queste problematiche e linee di conflitto al comune denominatore di un onnicomprensivo interesse di classe, fallirà necessariamente. Non esiste niente di simile. Tutt'altro.
Spesso, gli interessi relativi alle varie linee di conflitto sono perfino diametralmente opposti, come quando, ad esempio, nei centri capitalistici i precarizzati temono che l'immigrazione causerà un ulteriore deterioramento delle condizioni lavorative e costringerà i prezzi degli alloggi ad aumentare dell'altro, o quando le misure di politica climatica, come quelle della tassa sulla CO2, minacciano i posti di lavoro nell'industria automobilistica e fanno aumentare il prezzo del carburante, del riscaldamento e dell'elettricità. In tal modo, i tentativi di resistenza non si legano insieme, ma entrano in conflitto tra di loro. Per questo motivo, una sintesi anticapitalistica non può aver luogo sulla base di interessi comuni, ma solo in una comune contrapposizione contro la forma capitalista della produzione di ricchezza.
Tutto questo è assai meno astratto di quanto possa sembrare inizialmente. Da un lato, è possibile mostrare in maniera molto concreta, e sulle basi di ciascuna singola linea di conflitto, in che cosa consista il loro terreno comune negativo. Dall'altro lato, tutto questo si traduce in una prospettiva comune di emancipazione sociale, che può consistere solamente nell'abolizione (Aufhebung) della produzione di ricchezza astratta, e nel realizzare una società di individui liberamente associati. E, finalmente, a partire da questa base, potranno essere sviluppate richieste concrete, misure e iniziative concrete in questa direzione, che consentano di legare insieme momenti di resistenza apparentemente diversi. Perciò, ad esempio, la lotta per gli alloggi fa parte di una più ampia lotta per appropriarsi e trasformare la produzione sociale di ricchezza in strutture cooperative che siano organizzate secondo i criteri della razionalità materiale, e in cui ciascuno possa agire secondo quelli che sono i suoi propri bisogni e abilità. Questa trasformazione della produzione di ricchezza e delle relazioni sociali non può avvenire solo a partire da uno sconvolgimento rivoluzionario della società, ma deve piuttosto essere un momento essenziale di un processo di emancipazione, nel corso del quale la nuova società, per così dire, inventa sé stessa.
Laddove il discorso di classe mette sempre in discussione principalmente il «chi», vale a dire, il presunto attore dell'emancipazione, la Negazione Determinata (bestimmte Negation) della produzione di ricchezza astratta offre delle risposte assai chiare al «che cosa», vale a dire, al contenuto del processo di emancipazione sociale. Perciò, alla domanda circa quali siano gli attori in questo processo, il processo di emancipazione sociale risponde da sé solo. Dal momento che gli attori non esistono a priori, essi possono costituire sé stessi solo a partire ed in relazione al contenuto emancipatorio, lungo quelle che sono le varie linee di conflitto. Ci si può riferire al Manifesto del Partito Comunista soltanto per un aspetto: quello del grande slancio rivoluzionario che è in grado di accendere. Ma per quel che attiene al contenuto dell'emancipazione, bisogna fare riferimento all'«altro Marx», a quella parte della teoria marxiana che la sinistra tradizionale in gran parte ancora ignora.
- Norbert Trenkle (Krisis) - Pubblicato il 1° luglio 2019 su Krisis - Versione estesa di un documento presentato alla conferenza su "Manifesto Comunista: Storia, Eredità, Critica" (Praga, 7 giugno 2019). -
Bibliografia:
Bauman, Zygmunt (2005) Verworfenes Leben, Bonn 2005
Friedrich, Sebastian & Redaktion analyse und kritik (Hg.): Neue Klassenpolitik, Berlin 2018
Lohoff, Ernst; Trenkle, Norbert (2012): Die große Entwertung, Münster 2012
Lohoff, Ernst (2014): Kapitalakkumulation ohne Wertakkumulation, Krisis 1/2014, www.krisis.org/2014/kapitalakkumulation-ohne-wertakkumulation/
Marx, Karl; Engels, Friedrich (1848): Manifest der Kommunistischen Partei, in MEW 4, Berlin 1977, S. 459 – 493
Postone, Moishe (2003): Zeit, Arbeit und gesellschaftliche Herrschaft, Freiburg 2003
Trenkle, Norbert (2006): Kampf ohne Klassen, in: Krisis 30, Münster 2006
Trenkle, Norbert (2016): Die Arbeit hängt am Tropf des fiktiven Kapitals, Krisis 1/2016, www.krisis.org/2016/die-arbeit-haengt-am-tropf-des-fiktiven-kapitals/
Trenkle, Norbert (2018): Workout. Die Krise der Arbeit und die Grenzen der kapitalistischen Gesellschaft, www.krisis.org/2018/workout-die-krise-der-arbeit-und-die-grenzen-der-kapitalistischen-gesellschaft/
Trenkle, Norbert (2019): Ungesellschaftliche Gesellschaftlichkeit, www.krisis.org/2019/ungesellschaftliche-gesellschaftlichkeit/
Žižek, Slavoy (2015): Der neue Klassenkampf, Berlin 2015
fonte: Krisis
1 commento:
Sarebbe interessante,se qualcuno ne e'capace,fare un confronto con le teorie dell'economista francese Bernard Schmitt,che sostiene,credo in estrema sintesi,che il valore di una merce non e'la quantità di lavoro esistente in essa,ma semplicemente il salario.Se non ho capito male naturalmente.Anche tutta la visione di chi vede il debito/credito come antico e recente principale rapporto sociale può essere molto utile a capire la stessa storia del capitalismo. Vedi il libro "Debito" di Graeber e i lavori di Maurizio Lazzarato tra gli altri.Infine mi sia permesso fare riferimento al grande pensiero di Gilles Deleuze, che ha creato una visione concettuale assolutamente necessaria per vedere i problemi in un'altro modo e sopratutto leggere Marx e la Psicoanalisi in maniera critica e realistica.Vedere tutta la sua opera, in particolare quella su Spinoza e Nietzsche. Oltre ai grandiosi l'AntiEdipo e Millepiani. Per capire le questioni del "mondo" non si può prescindere da Deleuze. Grazie.Cordiali Saluti.
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