mercoledì 31 maggio 2017

Un troll di Twitter!

PankajMishra

La fine del secolo americano
- di Pankaj Mishra -

Così il sogno folle di esportare i propri valori si è trasformato nel nuovo disordine mondiale
George Santayana una volta ha descritto «l’orfano incompetente, inconsistente, cosmopolita » figlio del capitalismo industriale americano come «spavaldo nei modi ma incerto nella moralità». Questo personaggio, tanto diverso dal classico yankee noiosamente rispettabile, si è incarnato, nel romanzo di Santayana L’ultimo puritano (1935), in un insegnante chiamato Cyrus Whittle. Col suo ordinario fanatismo Whittle oggi sembra il prototipo degli internazionalisti liberali, fautori della democrazia neocon e della globalizzazione del libero mercato, che hanno reso così caotico il Secolo Americano – conclusosi con l’insediamento di Donald Trump: «Non solo l’America era la più grande del mondo, ma avrebbe sbaragliato tutto il resto; e nel delirio abbagliante e giocondo dell’adempiere a quel compito dimenticava di porsi il problema del dopo». Santayana aveva assistito, dal suo osservatorio di Harvard, alla trasformazione operata dall’industrializzazione e dall’imperialismo sull’America post-guerra civile, diventata un paese ricco e libero, pieno di seguaci dello stile di vita americano. Vissuto in Europa durante due guerre mondiali, morì nel 1952, nel momento in cui una nuova ambiziosa generazione di orfani cosmopoliti iniziava a promuovere la “modernizzazione”, ossia l’americanizzazione, del mondo.
È intrigante chiedersi se per il personaggio di Whittle Santayana si sia ispirato a Henry Luce, fondatore e direttore di Time, Fortune e Life, che nel 1941 esortò i suoi connazionali a «creare il primo grande secolo americano». Luce era molto attento al profitto. «Oggi pensiamo al commercio mondiale in termini assurdamente ridotti», recriminava; l’Asia «ci renderà quattro, cinque, dieci miliardi di dollari l’anno». Nello stesso tempo Luce, figlio di missionari presbiteriani in Cina, aveva la ferma convinzione che gli americani dovessero andare oltre la promozione di un «sistema di libera impresa». Come «eredi di tutti i grandi valori della civiltà occidentale» avevano il compito di rendere gli Stati Uniti «la centrale da cui gli ideali si diffondono nel mondo, assolvendo al misterioso compito di elevare la vita dell’umanità dal livello delle bestie». Thomas Friedman nel 2009 espresse il concetto in forma più concisa: «Voglio che tutti siano americani».
La storia globale degli ideali americani post-1945 non è stata ancora scritta, né esiste un’analisi sociologica esauriente che abbia per oggetto gli intellettuali americani e americanofili. Stiamo solo emergendo, storditi, dai decenni frenetici post-guerra fredda in cui, come scrive Don DeLillo, «la spettacolare ascesa del Dow Jones e la velocità di internet sono stati di invito per tutti a vivere permanentemente nel futuro, nello splendore utopico del capitale cibernetico ». È chiaro da tempo però che l’americanizzazione del mondo, iniziata negli anni Quaranta con progetti di modernizzazione nazionale e accelerata nella nostra epoca puntando a livello globale sui mercati non regolati, ha rappresentato l’esperimento ideologico più ambizioso mai intrapreso nell’era moderna. Si fondava sul presupposto che la popolazione del resto del mondo dovesse adottare la ricetta di progresso apparentemente valida in America, qualunque essa fosse (la libera impresa, il liberalismo del New Deal, il consumismo, la finanziarizzazione, l’individualismo neoliberale); e veniva accolta con ampio e fervido entusiasmo da non americani, come i consiglieri dello Scià di Persia, gli esperti favorevoli al libero mercato in India e i componenti della redazione dell’Economist. Gli adepti, alleati e facilitatori dell’americanizzazione, dalla Grecia all’Indonesia, erano anche di gran lunga più influenti dei loro rivali socialisti e comunisti. I linguaggi americani della modernità finirono per corrispondere al senso comune della vita intellettuale pubblica in tutti i continenti, alterando radicalmente la concezione che gran parte della popolazione mondiale nutriva della società, dell’economia, della nazione, del tempo e dell’identità individuale e collettiva.
Luce fu tra i primi americani a rendere la modernità sinonimo del proprio paese. In effetti i nomi stessi delle sue riviste – Time, Life, Fortune – miravano a sintetizzare la condizione umana all’epoca in cui gli Stati Uniti uscivano dalle due guerre mondiali come il paese più ricco e più potente della terra. I giardini d’Europa sembravano prossimi alla chiusura e le élite americane si consideravano le vere eredi dei valori apparentemente occidentali della ragione, della libertà e della democrazia, che le nazioni europee, rovinate dal massacrarsi a vicenda in patria ed esercitando con brutalità il potere imperiale all’estero, non potevano più credibilmente rivendicare. Luce propugnò il secolo americano al momento giusto. Molti liberali del New Deal condivisero dopo la guerra il suo spirito missionario esaltato. Avendo salvato il loro paese da una crisi economica rovinosa e poi sconfitto il fascismo in Europa, si sentivano chiamati a nuovi doveri nel resto del mondo, soprattutto in Asia e in Africa. La superiorità della società e della cultura americana a fronte della devastazione in Europa e in Asia era palese. Walt Rostow, autore nel 1960 di The Stages of Economic Growth: A non- communist manifesto ( Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi 1962, ndt) e divenuto in seguito tristemente famoso come uno dei più brillanti fautori del fallimentare intervento americano in Vietnam, era convinto che gli Usa, «figli dell’illuminismo... devono ora affrontare la maturità attivandosi da oggi in poi per far sì che i valori dell’illuminismo o i loro equivalenti nelle culture non occidentali sopravvivano e dominino il Ventunesimo secolo».
L’aura di intellettualismo non era solo questione di immagine; gli scenari e le strategie erano inserite in uno schema teorico vero e proprio, la teoria della modernizzazione. Nils Gilman nel suo superbo saggio Mandarins of the Future (2003) lo ha definito «il progetto più esplicito e sistematico mai inventato dagli americani per riorganizzare le società straniere». Basandosi sul netto contrasto tra una tradizione opprimente e una modernità affrancatrice, la teoria della modernizzazione postulava che le nazioni postcoloniali dovessero fuggire dal passato scegliendo la via dello “sviluppo”. Il punto di arrivo di questo percorso arduo e complesso erano gli Usa, come campioni della modernità liberale.
Decenni prima che Francis Fukuyama proclamasse la “fine della storia” i teorici della modernizzazione sostenevano che il mondo capitalista assimilato ai criteri americani fosse sia auspicabile che inevitabile. Molti nell’ambiente intellettuale- industriale statunitense all’inizio degli anni Sessanta giunsero alla conclusione che la stabilità era più importante della democrazia. Il saggio del 1968 Ordine politico e cambiamento sociale di Samuel Huntington esprimeva efficacemente il crescente timore nutrito dalle élite liberali razionali nei confronti delle masse irrazionali. Quando la Guerra Fredda esplose in una serie di guerre calde, la ricerca di un alleato affidabile e sicuro contro il comunismo portò i modernizzatori ad appoggiare tutta una serie di regimi ignobili. L’esempio più vergognoso fu il Vietnam del Sud, divenuto un grande laboratorio per Rostow, che ambiva a opporre a Marx la teoria non marxiana della modernizzazione. Gli americani, nella sua ipotesi, potevano assistere i vietnamiti del Sud nel superamento dei cinque «stadi di crescita economica», fino alla «fase di decollo» in cui sarebbero stati pronti a schiacciare i comunisti nordvietnamiti. L’umiliazione in Vietnam screditò i teorici della modernizzazione.
Il loro fallimento in Iran però è stato assai più devastante sotto il profilo geopolitico, alimentando l’islamismo radicale in tutto il mondo. Decine di migliaia di americani avevano vissuto in Iran sotto il regime dello Scià, molti come consulenti del progetto di modernizzazione più brutale e traumatico condotto in Asia. Lilienthal, che promuoveva le imprese americane all’estero tramite la sua società di consulenza, agì in Iran oltre che in Vietnam. Ricorrendo a trasferimenti forzati su larga scala contribuì al diffondersi dell’odio contro l’America e alla successiva feroce impennata del nazionalismo religioso – che Michel Foucault definì a ragione la «prima grande insurrezione contro i sistemi globali, la forma di rivolta più moderna e più folle».
Negli anni Ottanta però gli orfani cosmopoliti vendevano nuovi sistemi globali, armando al contempo i mullah in Afghanistan contro il comunismo sovietico. Può sembrare strano che la cupa atmosfera degli anni Settanta, associata alla ritirata disordinata da Saigon, alla crisi energetica e alla crisi economica, ai segnali allarmanti di deindustrializzazione e alla stagnazione dei salari in patria, abbia dato origine a nuovi sogni di gloria e potere americani. Ma questo clima culturale era in gestazione durante tutta la fase di agonia del liberalismo del New Deal ad opera degli intellettuali neo-conservatori. «Siamo i primi, siamo i migliori», sosteneva Reagan nel 1984. «Come è possibile non credere alla grandezza dell’America? Noi siamo americani». L’attenzione ai profitti era associata al nuovo nazionalismo come nel caso di Luce, ma con una differenza fondamentale: nella nuova visione dell’americanizzazione, la modernità era un progetto individualista e orientato al mercato, piuttosto che collettivo e programmato dallo Stato. Negli anni Ottanta il capitalismo del laissez- faire, largamente abbandonato dopo le devastanti crisi economiche di inizio secolo, sostituì nell’Anglo-America un modello ampiamente defunto di socialdemocrazia. Era il mercato ormai il vero regno della libertà umana, con l’ulteriore vantaggio di premiare tutti grazie a una maggiore efficienza e a maggiori profitti. «Sapete, il mercato ha qualcosa di magico quando è libero di agire», rifletteva Reagan all’inizio del 1982. «Come dice la canzone, this could be the start of something big (può essere l’inizio di grandi cose)».
Dagli anni Quaranta in poi, gli americanizzatori avevano ribadito che al capolinea della storia c’erano gli Stati Uniti. Neppure gli attacchi terroristici dell’undici settembre scossero questa convinzione. Il sospetto che l’islamofascismo avesse dichiarato guerra alla modernità liberale in realtà stimolò molti intellettuali americani a tentare con più audacia di creare un mondo nuovo a immagine dell’America che preferivano. I teorici della modernizzazione, rispettosi della lunga durata nella storia, affidavano alla classe media beneficiaria del capitalismo il compito di far crescere la democrazia. Ma la generazione “post-ideologica” degli internazionalisti liberali e dei neo-con pensava ormai che la democrazia potesse essere impiantata attraverso la terapia dello shock- and - awe in società che non l‘avevano per tradizione. La loro teoria dominante identificava l’«altro da sé» sotto il profilo razziale e religioso come brutalità irrecuperabile, l’esatto opposto degli americani razionalmente egocentrici, che doveva essere sterminata universalmente attraverso una spietata guerra al terrorismo.
Le crisi e i crolli successivi hanno reso meno auspicabile, se non indesiderabile, la convergenza con il modello americano. La Russia post comunista è degenerata nel capitalismo gangster e nel dispotismo politico. Il caos e le sofferenze di massa hanno contribuito a trasformare un arcigno ex agente del Kgb, Vladimir Putin, nell’improbabile salvatore della Russia (che ficca sfacciatamente il naso nelle elezioni americane). In Iraq, il più audace esperimento di americanizzazione non solo ha causato una feroce insurrezione, ma ha spaccato il paese, favorito l’ascesa dello Stato islamico, e il disfacimento del Medio Oriente. Il vice cancelliere tedesco non sbagliava quando recentemente ha evidenziato i legami tra la crisi dei profughi in Europa e «l’erronea politica interventista americana, in particolare la guerra in Iraq».
Dopo la crisi finanziaria del 2008, la convinzione che anima sia i teorici della modernizzazione che i fautori neoliberali della terapia dello shock secondo cui la modernità politica ed economica tende a uniformare la condizioni umane, si è infine rivelata falsa proprio negli Stati Uniti, dove, a dispetto di un’enorme crescita della produttività e dell’innovazione, dai primi anni Settanta si sono intensificate le disuguaglianze di reddito e opportunità. Alla fine, come ha dimostrato la vittoria di Donald Trump nel novembre 2016, il Washington Consensus aveva fatto troppe vittime già nell’entroterra di Washington Dc. Mentre a Oriente infuriava la battaglia per la democrazia e il capitalismo, a Ovest del Potomac democrazia e capitalismo venivano continuamente minati da estreme concentrazioni di ricchezza, dalla costante criminalizzazione dei poveri, da politiche inefficaci, da forze di sicurezza canaglia e da media distratti. Risvegliandosi lentamente alla luce di queste squallide realtà, molti beneficiati dall’American Century, internazionalisti liberali nonché neo-con, si avvicinavano, fino a pochissimo tempo fa, alla famosa definizione del fanatico data da Santayana: «Colui che raddoppia gli sforzi quando ha perso di vista l’obiettivo ».
I fautori della terapia dello shock, o, come li definisce Joseph Stiglitz, «i bolscevichi del mercato», sembravano ignari del fatto che le economie in via di sviluppo o post-socialiste potessero dover seguire un percorso diverso in direzione della crescita sostenibile, rispetto alle economie pienamente sviluppate. Gli ideologi frustrati erano propensi ad attribuire alle culture – russe, arabe, comunque non americane – la responsabilità del fallito impianto della democrazia e dei liberi mercati. Non li sfiorava neppure il pensiero che le culture non americane non perseguissero la missione universale di convertire tutti allo stile di vita dell’America. Non avevano capito una cosa ovvia, ossia che in gran parte del mondo non sono presenti le condizioni culturali, economiche e sociali che hanno contribuito a dar vita all’ideale americano della libertà individuale e, in seguito, a estendere le possibilità di realizzarlo a una minoranza privilegiata.
Santayana temeva che la diffusione in tutto il mondo dell’ideologia americana dell’autoespansione avrebbe «destato un’avversione più profonda» di quella suscitata dai tiranni del passato, rischiando di provocare «una colata lavica di cecità e violenza primitiva». Ma nella sua inquietante lungimiranza Santayana non poteva prevedere che i delusi e i frustrati al centro stesso della modernità americana avrebbero fatto di un molestatore e bancarottiere seriale il loro salvatore. La tesi che il buon americanismo possa scongiurare il pericolo rappresentato dai pazzi demagoghi è ormai insostenibile. Il secolo americano si è formalmente concluso il 20 gennaio 2017, nel momento in cui Donald Trump si è insediato alla casa Bianca ribadendo che «da oggi in poi sarà soltanto l’America al primo posto». L’approccio nettamente transazionale di questo deal- maker, così si definisce, che irride apertamente la Nato come obsoleta e ammira Vladimir Putin, lascia scarso spazio a qualunque genere di universalismo ideologico. Trump punta a fare l’America di nuovo grande attraverso dazi e muri. «Per ora gli Stati Uniti», ha ammesso Robert Kagan recentemente sul Financial Times, «sono fuori dal business dell’ordine mondiale ».
Non è affatto chiaro come affronteremo quello che gli orfani incompetenti, insistenti, cosmopoliti hanno creato: un grande disordine mondiale, che come risultato finale ha portato un imprevedibile provocatore, un troll di Twitter, spavaldo nei modi ma di incerta moralità, nella stanza dell’arsenale nucleare.

- Pankaj MishraPubblicato su Repubblica del 16 maggio 2017 -

Questo testo è una sintesi di un articolo pubblicato sul Times Literary Supplement. Pankaj Mishra, nato in India nel 1969, è un autore che pubblica libri di successo in Gran Bretagna e negli Usa, e che è spesso presente nelle classifiche dei giornali sugli intellettuali più influenti al mondo ( Traduzione di Emilia Benghi)

martedì 30 maggio 2017

Un gioco di specchi

Krisis

Due libri - due punti di vista
- Per una discussione su "La grande svalorizzazione" e "Denaro senza valore" -
di Ernst Lohoff

Nota preliminare sul carattere di questo testo.
Lo scorso anno, è apparso sul sito web del gruppo "Exit" un testo do Bernd Czorny, dal titolo "Ernst Lohoff e l'individualismo metodologico", che intende realizzare una critica della teoria della formazione del capitale fittizio che ho descritto nel libro "La grande svalorizzazione" e che rappresenta un cambiamento fondamentale di prospettiva nei confronti della precedente teoria della crisi della critica del valore. Czorny parte dalla mia analisi, e facendo uso delle linee guida metodologiche tracciate da Robert Kurz in "Denaro senza valore", e arriva alla conclusione originale secondo cui la mia analisi categoriale porterebbe ad un nudo empirismo, e sarebbe in gran parte inutile in termini teorici. Quest'affermazione si riflette prontamente in un gruppo della critica del valore della regione di Karlsruhe, che ha valutato diversamente il nostro libro ed ha scritto una risposta a Czorny, nella quale veniva difesa "La grande svalorizzazione". Per quanto gratificante fosse quest'intervento, aveva anche un inconveniente: a suo dire, la valutazione fatta da Czorny era falsa, mentre la teoria del capitale fittizio rappresentata nel nostro libro coincide in gran parte con la posizione di Robert Kurz; ci sono alcune differenze di contenuto relativamente a "Denaro senza valore", ma sarebbero di natura secondaria.

Questo, tuttavia, non coincide con il mio punto di vista. Al contrario, ritengo che il modello che Bernd Czorny applica, per mezzo di "Denaro senza valore", alla nostra teoria sia il problema principale - e non che egli applichi in maniera erronea questo modello. Con il suo ultimo libro, Robert Kurz ha lasciato un'eredità teorica altamente discutibile, che non solo si trova in netta opposizione alla nuova teoria della crisi, nel campo della critica dell'economia politica in generale e della teoria della crisi in particolare, ma, in'ultima analisi, invalida le basi delle elaborazioni congiunte della critica del valore. La discussione fra Bernd Czorny ed il gruppo di Karlsruhe ha evidenziato ancora una volta che questo è tutt'altro che trasparente per quanto riguarda il nostro ambito più ristretto e più ampio. Il presente testo nasce per fare più luce su tale aspetto.

1. Una biforcazione teorica.
Nel 2012, sono stati pubblicati due libri, uno subito dopo l'altro, che pretendono di innalzare ad un nuovo livello la teoria della critica del valore nel campo della critica dell'economia politica. "Denaro senza valore", di Robert Kurz, e "La grande svalorizzazione", di Norbert Trenkle ed io, segnano una sorta di biforcazione nel processo di formazione della teoria della critica del valore. Naturalmente, entrambi i libri condividono un punto di partenza simile, nella misura in cui vogliono superare le carenze delle argomentazioni precedenti della critica del valore e vogliono chiarire qual è il fulcro della teoria, ma le direzioni verso cui marciano sono diametralmente opposte. Senza indicarlo esplicitamente, entrambi i libri mettono in atto riformulazioni di grande respiro della costruzione teorica della critica del valore: la seconda parte de "La grande svalorizzazione" riformula la comprensione della categoria del capitale fittizio presente nella precedente discussione della critica del valore e, con la teoria delle merci di second'ordine, stabilisce una nuova base teorica per la vecchia idea della critica del valore, secondo cui il capitalismo si basa sulla produzione di valore futuro. Robert Kurz fa una revisione molto più ampia. In "Denaro senza valore", egli abbandona un principio teorico di base, fino a quel momento considerato ovvio dai rappresentanti dell'approccio della critica del valore nel campo della critica dell'economia politica. Fin dai primordi del gruppo Krisis, siamo sempre stati guidati dal metodo del passaggio successivo dall'astratto al concreto, proveniente dagli scritti della critica economica di Marx (Vedi MEW 42, pag. 34 e segg.).

2. L'importanza del capitale fittizio nella teoria della crisi agli inizi della critica del valore.
Inizialmente, teniamoci sul problema del capitale fittizio. Diventa più chiaro il modo in cui la teoria delle merci di second'ordine si inserisce nella teoria dell'accumulazione e della crisi della critica del valore, se in primo luogo ricordiamo la situazione precedente della teoria. Ecco qui allora una breve esposizione della storia dello sviluppo dell'approccio della critica del valore che ripercorre la funzione del riferimento alla dinamica della formazione del capitale fittizio nella nostra argomentazione teorico-critica iniziale, ed il modo in cui è stato compreso il concetto di capitale fittizio.
Fin dal suo inizio, l'approccio della critica del valore si è sforzato di comprendere le categorie fondamentali della società capitalista in quanto storicamente transitorie ed autodistruttive. Di conseguenza, anche la nostra teoria della crisi e dell'accumulazione si focalizzava sul suo basarsi in maniera analitica e categoriale sulla tesi di una crisi fondamentale della valorizzazione del valore. Secondo il nucleo della teoria della crisi di Krisis, con la Terza Rivoluzione Industriale il capitalismo in quanto sistema di valorizzazione del valore aveva raggiunto la sua barriera storica ed entrava in una crisi fondamentale. Tuttavia, questa tesi sollevava un problema centrale: chi afferma che la base della valorizzazione, la massa del valore e del plusvalore prodotto, si è ridotta a causa del dislocamento del lavoro vivo nel processo di produzione, deve avere una spiegazione plausibile del perché questo processo non ha portato alla morte dell'accumulazione capitalista. Questo divario fra il dato empirico (il proseguimento dell'accumulazione capitalista nei decenni 1980 e 1990) e la tesi centrale della teoria della critica del valore (crisi fondamentale della valorizzazione del valore) è stato colmato con la teoria addizionale secondo cui, in questo periodo, l'aumento del capitale sociale totale sarebbe stato mantenuto non sulla base della valorizzazione reale, ma soprattutto grazie all'anticipazione di valore futuro nella forma di capitale fittizio. Soltanto graie all'esplosiva espansione della sovrastruttura finanziaria, il processo di accumulazione può continuare il suo corso, nonostante la perdita della base della valorizzazione.
Quest'argomento deve perciò avere un'evidenza empirica molto forte. Da un lato, il gonfiarsi della sfera finanziaria è probabilmente la caratteristica del capitalismo contemporaneo che richiama maggiormente l'attenzione. Per dare un sostegno alla tesi centrale della sua teoria della crisi, la critica del valore non potrebbe, pertanto, rifugiarsi in un aspetto secondario dello sviluppo reale, ma deve riferirsi direttamente alla caratteristica principale di quest'epoca. Dall'altro lato, tale crescita è stata troppo drammatica perché si possa attribuire tale sviluppo ad una mera distribuzione e mobilitazione del plusvalore già accumulato. È evidente che la sfera finanziaria possiede la capacità di produrre, in qualche modo, una forma peculiare di moltiplicazione del capitale che permette di sostituire, transitoriamente, l'accumulazione di plusvalore.

3. Un concetto ristretto di capitale fittizio.
Constatare l'esistenza di una tale forma di crescita del capitale, scollato dall'accumulazione di plusvalore, ed essere in grado di spiegare in maniera coerente il suo funzionamento, sono due cose diverse. Il riferimento al gonfiarsi della sovrastruttura finanziaria, è stato usato classicamente come unico argomento ausiliario di supporto. Tenendo in considerazione la nostra pretesa di lasciarci alle spalle il carattere ristretto del marxismo del movimento operaio, così come la chiarezza categoriale con cui la crisi della valorizzazione del valore è già stata analizzata da parte della critica del valore, le spiegazioni della categoria "capitale fittizio" rimangono deficitarie. Abbiamo affrontato questo concetto, finora estremamente trascurato nella discussione marxista, ma lo abbiamo fatto in un'interpretazione ambivalente relativamente all'essenza della tradizionale teoria marxista dell'accumulazione. Essenzialmente, il marxismo obsoleto conosce solamente l'accumulazione del capitale basata sull'accumulazione del valore, e in ultima analisi considera gli eventi del mercato finanziario come un gioco a somma zero che ha come risultato la mera ridistribuzione della ricchezza capitalistica già esistente. Insistendo sull'approccio della critica del valore, secondo il quale il capitale fittizio negli anni ha sostituito la valorizzazione del valore come forza motrice dell'accumulazione del capitale, è stata data un'importanza intrinseca agli sviluppi del mercato finanziario nel processo di accumulazione; cosa difficilmente compatibile con la comprensione marxista tradizionale. Tuttavia, la differenza essenziale fra la formazione del capitale fittizio e l'accumulazione di capitale basata sulla valorizzazione del valore è stata analizzata in maniera tale che questa rottura è rimasta a metà strada. Per chiarire il carattere precario del capitale fittizio, sono state usate espressioni come "accumulazione apparente" che, anziché chiarire alcunché, facevano appello ad un pregiudizio di "autenticità metafisica" secondo la quale soltanto l'economia reale conta veramente, mentre la sfera finanziaria maschera semplicemente i legami economici reali.
Faceva parte di questa spiegazione, un'interpretazione del termine "capitale fittizio" che si discosta decisamente dalla comprensione di Marx di tale categoria, e che oscura la sua posizione nel sistema della critica dell'economia politica. Sebbene l'esposizione di Marx sulla questione del capitale fittizio sia frammentaria, non lasciano alcun dubbio che vada compreso tramite questa categoria. Nella voce di capitale fittizio rientrano tutte le somme monetarie risultanti dalla vendita di capitale-denaro che si trovano nelle mani dei creditori. Ad esempio, rientrano in questo le richieste di una banca per gli ammortamenti e gli interessi, così come anche le azioni rappresentano capitale fittizio. Cosa che avviene anche con il capitale-denaro concesso nelle mani di chi lo compra, cioè, se viene speso in maniera produttiva oppure nel consumo, laddove è irrilevante ai fini della distinzione concettuale fra capitale funzionante e capitale fittizio. Quel che è decisivo è che la vendita della merce capitale-denaro permetta una "doppia esistenza della stessa somma di denaro come capitale per due persone" (MEW 25, p.366 [1988a, p.251]).

Tuttavia, questo fenomeno della duplicazione del capitale iniziale, costitutivo della nozione marxiana del capitale fittizio, è rimasto nascosto nell'interpretazione della critica del valore. Al contrario, il livello dell'economia reale è stato incluso nella determinazione categoriale da parte di quelli che allora erano gli autori del gruppo Krisis. Secondo quest'argomentazione, soltanto un consumo "scorretto" del capitale prestato produrrà capitale fittizio. Così, il testo "Capitale fittizio", elaborato in maniera congiunta da Norbert Trenkle e Robert Kurz alla fine degli anni 1990, spiega con l'esempio del credito l'origine del capitale fittizio nel modo seguente: «[...] un credito non è niente di più che l'anticipo sul valore prodotto. In quanto viene utilizzato per finanziare investimenti nei settori della produzione che promuove l'utilizzo della forza lavoro vivente, e, pertanto, la produzione di plusvalore, viene utilizzato "correttamente" nel senso della valorizzazione. Se un credito viene utilizzato solo come mero consumo oppure viene speso in infrastrutture, quindi utilizzato improduttivamente in termini di valore, o sei i suoi investimenti già realizzati si dimostrano improduttivi dal punto di vista del mercato mondiale, perché la produzione non è capace di concorrere, allora i valori che sono stati anticipati per mezzo del credito vengono sprecati. Come conseguenza, il pagamento degli interessi e dei rimborsi non può essere effettuato per mezzo dei rendimenti generati dagli investimenti realizzati, ma dev'essere coperto per mezzo di altre fonti. Il credito diventa "capitale fittizio"» (Trenkle / Kurz 1998). Tuttavia, la critica dell'economia politica di Marx colloca la formazione del capitale fittizio inequivocabilmente all'interno della sfera finanziaria. Il capitale fittizio nasce dal rapporto fra i venditori e gli acquirenti della merce capitale-denaro ed ha la sua nascita nel momento in cui viene concesso un credito, viene emessa un'azione o un titolo di debito  (Cf. MEW 25, p. 494 [1988b, p 13]).

Nell'identificarlo con le spese di consumo "scorrette", l'interpretazione classica della critica del valore ha rimandato l'emergere del capitale fittizio ad un momento successivo, ed allo stesso tempo ha dislocato il suo luogo di nascita dalla sfera finanziaria all'economia reale. In questa maniera, la produzione di capitale fittizio viene logicamente ridotta a qualcosa come l'apparire o l'accumulo di obbligazioni di pagamento da parte dei debitori. È stato soprattutto per questa riduzione che la mancanza di precisione concettuale ha avuto conseguenze anche per quel che riguarda la valutazione dello sviluppo reale. Non è un caso che autori della critica del valore abbiano ripetutamente preso grandi granchi riguardi l'accumulazione del capitale come occasione per proclamare il collasso finale del capitalismo basato sulla creazione di capitale fittizio. Tuttavia, quelli che operano con una nozione ristretta di capitale fittizio finiscono per sottovalutare la capacità di accumulazione del nuovo tipo di capitalismo. Per avere un'immagine realistica del potere di anticipazione da parte del sistema capitalista, ed un'analisi categorialmente fondata della storia interna del capitalismo attuale caricato dalla dinamica del mercato finanziario, è necessaria un'altra base teorica. Questa viene fornita dalla teoria delle merci di second'ordine, che mette al centro il problema della duplicazione del capitale-denari nelle relazioni del mercato finanziario.

4. I cambiamenti nel panorama del dibattito.
Naturalmente, ci sono ragioni per cui l'approccio critico del valore sia rimasto per molto tempo bloccato nell'analisi del capitale fittizio della visione marxista tradizionale. Questo include - come già accennato - la logica interna dello sviluppo del nostro processo di costruzione teorica. Dal momento che gli autori della critica del valore dovevano ancora concentrarsi sulla formulazione del nucleo della teoria dell'accumulazione e della crisi, avevano poco margine per un'elaborazione categorialmente fondata dell'intricata economia politica del capitale fittizio. Almeno altrettanto importante era, tuttavia, l'ambiente discorsivo in cui doveva inizialmente affermarsi la teoria della crisi della critica del valore. Almeno fino al collasso della nuova economia, ci trovavamo del tutto soli nella nostra visione secondo la quale il modo di produzione capitalista camminava direttamente verso una crisi fondamentale. Considerata l'altezza dell'economia mondiale dei decenni 1980 e 1990, la diagnosi di crisi appariva in gran parte assurda ed empiricamente confutata; venendo dato continuamente per scontato che gli impulsi della crescita avevano un solido "fondamento economico reale". Vent'anni fa, quasi nessuno avrebbe pensato che la dinamica del mercato finanziario, da sola, avrebbe portato al boom, per non parlare delle conseguenze di questo per la prospettiva dello sviluppo futuro del sistema capitalista. In un simile ambiente discorsivo, i rappresentanti della critica del valore, nell'enfatizzare la dipendenza dell'accumulazione in relazione alla dinamica del capitale fittizio, dovevano insistere sul carattere precario di questo tipo di accumulazione. Ma questa era la cosa più facile, in quanto faceva ricorso ad un "preconcetto di autenticità metafisica", rimasto fino a quel momento in ombra, secondo il quale il capitale "reale" era "più reale": la ricchezza capitalistica avrebbe potuto sorgere soltanto dalla produzione di beni.
Le circostanze storiche che sembravano permettere agli autori della critica del valore un'approssimazione superficiale ed abbastanza associativa alla categoria del capitale fittizio, però sparivano. A fronte delle gravi crisi economiche globali degli ultimi anni, la negazione della crisi stava andando di moda. Gli autori della critica del valore, oggi non dovevano faticare per rendere plausibile, contro l'apparenza empirica, il fatto che il capitalismo si trovava in una grave crisi fondamentale. Ed anche il vecchio ceterum censeo della critica del valore, secondo cui l'accumulazione sostenuta dai mercati di capitali e denaro sarebbe precaria, non porta più la critica sociale svolta dalla critica del valore a differenziarsi fondamentalmente dallo spirito apologetico del tempo. Questo, chiaramente, inverte la relazione in maniera feticista classica. Le ideologie di elaborazione della crisi, che sono diventate egemoniche tutt'al più dopo il collasso del 2008, giocano il "buon capitale reale" contro il "cattivo capitale finanziario" e perseguono l'illusione del ritorno alla società della merce orientata dal primato dell'economia reale. L'idea regressiva che la presunta causa della crisi sarebbe l'orientamento presumibilmente unilaterale dell'economia ai mercati del denaro e del capitale ed al dilatamento di questi, oggi ostacola l'idea che la società della merce abbia raggiunto un limite storico e che sia condannata.
In termini di analisi reale, la situazione storica modificata obbliga i rappresentanti dell'approccio della critica del valore a cambiare il pronostico della crisi in una diagnosi della crisi. Al giorno d'oggi, uno dei nostri compiti principali è quello di analizzare da vicino la forma dello sviluppo del processo di crisi e spiegare come si intreccino la crisi dell'anticipazione del valore e la crisi della valorizzazione del valore.
Anche con una comprensione limitata del capitale fittizio, la critica del valore è riuscita a rendere plausibile il fatto che un processo di accumulazione basata sull'anticipazione senza copertura della produzione del valore futuro, deve portare, più presto o più tardi, ad un gigantesco empito di svalorizzazione. Tuttavia, lo sviluppo interno del sistema di anticipazione di valore, può essere implementato sistematicamente solo sulla base di una critica dell'economia politica del capitale fittizio che prenda sul serio il fenomeno della duplicazione del capitale denaro nelle relazioni con i mercati finanziari. Alla luce della teoria del capitalismo inverso, emerge un'immagine molto più chiara e sfaccettata dei mutamenti subiti dal sistema capitalista mondiale negli ultimi trent'anni, rispetto alle pubblicazioni precedenti provenienti dalla critica del valore.
Inoltre, il nuovo approccio è molto più adeguato alle nuove necessità insorte nel campo della critica ideologica rispetto a vecchi argomenti. Oggi, la critica del valore deve prendere posizione soprattutto contro i diversi di tipi di sogno anacronistico di ritorno ad un capitalismo "solido" basato sul lavoro onesto. Chi insiste sul gergo della metafisica dell'autenticità e continua a parlare di mera "accumulazione apparente" nella sovrastruttura finanziaria è, pertanto, messo davanti ad un problema di delimitazione alla luce del cambiamento del paesaggio ideologico. Non può assicurare la posizione frontale contro lo spirito del tempo in maniera consistente come può fare una critica del valore che, sulla base della teoria delle merci di second'ordine, non fa alcun riferimento a quelle ideologie di "autenticità.

5. Come Robert Kurz perpetua l'interpretazione erronea della categoria del capitale fittizio.
Si stanno già delineando i vecchi errori di base nel trattamento della categoria del capitale fittizio: gli autori della critica del valore non hanno analizzato separatamente il movimento del capitale-denaro puro; la questione dell'utilizzo del capitale-denaro trasferito dall'economia reale ha avuto luogo nella determinazione concettuale del capitale fittizio. Questa confusione fra la sfera finanziaria e l'economia reale non è in nessun modo una cattiva interpretazione esclusiva della formazione teorica della critica del valore. Si tratta, innanzitutto, dell'adozione involontaria delle riduzioni provenienti dal marxismo del movimento operaio. La stessa interpretazione erronea si trova, per esempio, in Rudolf Hilferding, nella cui opera principale il capitale bancario si mescola, in una massa uniforme, con la forma-denaro del capitale produttivo. "Al contrario, il capitale bancario, il proprio e quello altrui, non è nient'altro che capitale in prestito, e questo capitale in prestito non è cosa diversa dalla forma-denaro del capitale produttivo, essendo importante che sia, per la sua maggior parte, semplice forma, vale a dire, che esista solo contabilmente"  (Hilferding, 1968, p. 235). Sebbene Hilferding sia stato uno dei pochi teorici del marxismo tradizionale che abbia parlato dettagliatamente riguardo il capitale fittizio, egli spiega quest'ultimo come un capitale che esiste meramente nell'immaginario degli attori economici coinvolti. In questo contesto, arriva a fare riferimento anche al fenomeno della duplicazione del capitale originario, ma considera questo come un fenomeno meramente giuridico. Che la pretesa meramente giuridica del denaro, di modo che essa assuma la forma di una merce negoziabile, smetta di rappresentare capitale soltanto nella testa e nei bilanci di coloro che sono coinvolti, e guadagni realtà economica come capitale considerato come un tutto, si trovava del tutto al di là dell'immaginazione di Hilferding e del marxismo tradizionale.

Sulla questione del capitale fittizio, Robert Kurz riproduce in tutti i suoi scritti successivi alla fine del secolo la fondamentale debolezza dell'originale argomentazione della critica del valore, e mescola categorialmente il movimento del capitale fittizio ed il movimento del capitale funzionale. Robert Kurz ha affermato di aver svolto una critica radicale del marxismo del movimento operaio - e con ragione, se consideriamo tutto. Tuttavia, per quanto riguarda il capitale fittizio, è rimasto intrappolato nell'orizzonte del marxismo del movimento operaio. La cosa è particolarmente evidente nel libro "Il Capitale mondiale", pubblicato nel 2005. Nel capitolo del libro in cui egli avrebbe dovuto di fatto delineare il modo in cui l'anticipazione della produzione di valore futuro poteva essere pensata a partire dalla critica dell'economia politica, tuttavia, Robert Kurz rappresenta nel dettaglio la supposta "esposizione insuperabile [...] del Capitale Finanziario" (Kurz, 2005, p.248), dopo quasi un secolo, di Rudolf Hilferding. In tal modo, fa un elogio esagerato in quanto rappresenta una comprensione del capitalismo che è incompatibile con l'approccio della critica del valore. Hilferding non solo comprende il "dominio del capitale finanziario" i maniera sociologistica, e lo identifica con la successiva soppressione della concorrenza e della legge del valore, che si suppone verrebbe sostituita da un cartello generale capitalista controllato dalle banche. Per quanto riguarda il significato dei mercati finanziari, Hilferding riproduce passo dopo passo il punto di vista dell'economia, in essendo i mercati del capitale e del denaro una mera collezione di capitale la cui funzione si limita a "trasformare denaro improduttivo in capitale funzionale" ( Hilferding, 1968, p.108).
Nel dibattito interno di Krisis, fra noi e Robert Kurz, durante gli anni 1980 e 1990, era indiscutibile che la posizione di Hilferding fosse incompatibile con l'approccio della critica del valore. È per questo che l'amore tardivo sviluppato da Robert Kurz per questo rappresentante del marxismo tradizionale, in "Das Weltkapital", e prima ancora nel testo "Le Perfidie del Capitale Finanziario" (2003), è stato un po' sconcertante. In effetti, non sembra che Robert Kurz si sentisse a proprio agio nel fare apertamente ricorso ad uno dei più importanti pensatori del marxismo del movimento operaio. Ad ogni modo, in "Denaro senza valore" prende un'altra strada, pià adeguata alla sua mentalità in quanto teorico della Tabula rasa: qui non si appoggia ad Hilferding, ma si volge contro Marx, e lo fa in maniera estremamente curiosa. Attacca l'individualismo metodologico generalizzato nelle scienze sociali ed economiche, ed afferma che la forma di esposizione su cui si basa Il Capitale sarebbe rimasta intrappolata in questo concetto teorico, ed avrebbe pertanto bisogno di una correzione. In opposizione a questo, fornisce, come contro-programma, una minacciosa "comprensione dialettica della totalità" (Kurz, 2012, p.63) che, contrariamente al metodo di Marx, argomenta coerentemente al processo capitalista globale e determina le categorie a partire da esso. Osservando più in dettaglio il punto di vista di Kurz, vediamo che presenta dei difetti fatali. Da un lato, l'accusa di individualismo metodologico rivolta a Marx è inconsistente. Dall'altro lato, è proprio sotto il nome di "comprensione dialettica della totalità" che si nasconde fatalmente il procedimento con cui il dibattito della critica del valore comprendeva precedentemente in maniera inadeguata il concetto di capitale fittizio. Visto in questo modo, "Denaro senza valore" trasforma un errore parziale che abbiamo fatto nel trattare la categoria del capitale fittizio in una sapienza metodologica di rango superiore e in un paradigma teorico generale.

6. Individualismo metodologico e storicità.
Il concetto di individualismo metodologico proviene dal dibattito delle scienze sociali e dall'economia, dove viene usato comunemente con il seguente significato: "punto di vista metodologico che assume che le istituzioni e i processi sociali devono essere spiegati per mezzo di ipotesi sui comportamenti individuali. Secondo questa tesi, i componenti fondamentali del mondo sociale (la società) sono individui le cui azioni sono determinate dalle loro inclinazioni e dalla comprensione della loro situazione"  (Enciclopédia econômica). Per rendere questo concetto utilizzabile per i suoi obiettivi, Robert Kurz ne trasforma sostanzialmente la comprensione. La prima ridefinizione mi sembra accettabile: la dislocazione del concetto, che di fatto è stato elaborato per la teoria dell'azione, per i contesti dell'analisi strutturale. In Robert Kurz gli elementi strutturali isolati prendono il posto occupato, nella comprensione comune, dagli individui superati. Egli scrive: "L'individualismo metodologico consiste, essenzialmente, nel pretendere di esporre e spiegare una logica generale e determinante per la totalità sulla base di un caso individuale ed isolato, che perciò appare come modello" (Kurz, 2012, p.60). Ma questo non è tutto. Robert Kurz generalizza il concetto a cinque "complessi"(vedi p.28 e segg.) i quali, a partire dal caso individuale, non sono mediati a sufficienza, o non lo sono affatto. Egli trasforma il concetto di "individualismo metodologico" in una specie di controparte negativa universale della sua propria comprensione della critica del valore). Per cui, quasi ogni deviazione dalla comprensione teorica di Kurz può essere sottomessa al concetto esageratamente esteso di "individualismo metodologico". Ai fini della critica che Kurz fa di Marx, è cruciale un allungamento. Di modo che su un approccio teorico che non prenda in considerazione la "storicità delle categorie", e veda le categorie soggiacenti al modo di produzione capitalista come già operanti, in una forma impura, nelle società precapitalistiche, egli emette il verdetto di "individualismo metodologico". Senza dubbio è possibile trovare, nella storia della teoria, posizioni che combinano una visione trans-storica con l' "individualismo metodologico".
In questo senso Adam Smith è uno dei classici assoluti. Nella sua derivazione dalla necessità di denaro, ad esempio, il nonno dell'economia non solo parte logicamente dai produttori privati isolati, ma allo stesso tempo proietta sul passato la dissoluzione della società in produttori privati e conseguentemente tratta il lavoro, il valore e lo scambio come necessità sociali naturali eterne. Tuttavia, questo non significa in nessun modo che ogni interpretazione trans-storica debba forzatamente allo stesso tempo prendere il caso particolare isolato come punto di partenza della costruzione della teoria. Possano andare insieme, ma non necessariamente. Ma è proprio questo che Robert Kurz suggerisce. Specialmente in Hegel - figura chiave della storia intellettuale, di gran lunga il più importante per poter comprendere il metodo di Marx - le due cose sono assolutamente separate. Nel prendere il processo mondiale nella sua totalità come "auto-sviluppo dello spirito", Hegel ha interpretato la storia mondiale come un unico processo generale del divenire delle categorie borghesi.In questo modo, egli continua la tradizione intellettuale trans-storica dell'Illuminismo, che aveva interpretato tutta la storia procedente come proto-forme immature delle relazioni borghesi. Ma allo stesso tempo Hegel è stato il pensatore per eccellenza della totalità. Solamente, disprezzava un pensiero che aveva come centro un individuo empirico, e se esiste qualcosa di simile ad un anti-programma all'individualismo metodologico ante litteram, questo è l'opera principale di Hegel. La scienza della logica.
Robert Kurz constata con ragione che Marx non è coerente nel corso dei suoi scritti con la storicizzazione delle categorie specifiche del modo di produzione capitalista. Almeno nei Grundrisse, Marx voleva realmente riconoscere forme ancora non sviluppate del valore e del lavoro astratto nelle società pre-capitaliste. La colpa di questi impulsi trans-storici è soprattutto dovuta alla separazione incompleta del trans-storicismo della filosofia di Hegel. Ma allo stesso tempo è stata proprio questa vicinanza con l'approccio hegeliano ad aver immunizzato Marx contro l'idea per cui si sarebbe potuta sviluppare la realtà capitalista a partire dal singolo caso individuale empirico.
Non è un segreto che esista una stretta relazione fra il metodo di Marx e la dialettica hegeliana. In una lettera ad Engels, scritta nel 1858, mentre lavorava alla sua opera principale, lo stesso Marx menziona che il suo approccio era legato al metodo hegeliano: "A tal proposito, faccio dei buoni sviluppi. Per esempio ho gettato via la teoria del profitto, così come esisteva finora. Per il metodo di elaborazione, mi è stato di grande utilità, esser tornato a sfogliare per puro caso [...] la Logica di Hegel" (MEW 29, p.360). Per comprendere la struttura dell'opera principale di Marx, bisogna prendere sul serio il passaggio frequentemente citato nella discussione su Marx negli anni 1970. Come ha sottolineato Roman Rosdolsky nel suo pioneristico lavoro sulla genesi del Capitale, Marx presenta la logica del modo di produzione capitalista, seguendo Hegel, come la successiva elevazione al concreto delle determinazioni astratte e più generali delle società basate sulla produzione delle merci. "Qui, soprattutto Marx dimostra che 'andare dall'astratto al concreto' è l'unico metodo scientifico adeguato per 'appropriarsi del concreto, riproducendolo come un concreto pensato'. Nell'introduzione, in un passaggio famoso, dice: 'Il concreto è concreto perché è la sintesi di molteplici determinazioni e, pertanto, è l'unita del diverso'. Per questo solo il pensiero può comprendere il concreto pienamente, in un processo di sintesi, ossia, attraverso la ricostruzione progressiva del concreto a partire delle sue determinazioni astratte più semplici"  (Rosdolsky 1968, S. 43 ). Questa "elevazione dell'astratto al concreto"  (MEW 42, p.35 ) è qualcosa di totalmente diverso dal partire da un qualsiasi individuo empirico o da un tipo ideale alla Max Weber.
Quando, al contrario, Robert Kurz afferma che ogni punto di vista trans-storico ricade anche nell'individualismo metodologico, ciò è inadeguato non solo in relazione al metodo di Hegel, ma anche a quello di Marx. Nella sua critica di Marx, Kurz respinge fondamentalmente quelle che sono le affermazioni discutibili sulle società pre-capitaliste. Ma così facendo, in nessun modo Kurz rappresenta il metodo di Marx. Egli ingnora che Marx, in contrapposizione ad Hegel, distingue rigorosamente fra esposizione logica ed esposizione storica, e che è proprio la sua opera principale ad occuparsi esclusivamente della logica della produzione capitalista. Ma Kurz non considera sistematicamente questo fatto, cosa evidente soprattutto per il fatto che egli utilizza sempre il concetto storico di "forma embrionale" e quello puramente logico di "forma elementare" come se significassero la medesima cosa.

7. La merce empirica e la categoria della merce nel Libro I de Il Capitale.
Così, Kurz mette in discussione direttamente la forma di esposizione del Capitale. Egli ritiene che l'errore fondamentale risieda nel punto di partenza dell'analisi di Marx: "il problema dell'esposizione in Marx finisce per essere dovuto al fatto che lo "inizio" nella figura dell'analisi della forma del valore conduce, anche senza volere, nella trappola dell'individualismo metodologico" (Kurz, 2012, p.169). Kurz ritiene che Marx avrebbe dovuto scrivere quanto segue: "le determinazioni elementari della forma del valore della merce come momento del capitale non possono nemmeno essere sviluppate sulla base della merce individuale" (Kurz 2012, p.169). Kurz suppone qui che Marx sia stato tentato di spiegare la logica del capitalista a partire dalla "merce empirica individuale". Ma cosa c'è di vero in questa accusa? Se consideriamo le prime due frasi del Capitale come completamente isolate, aderendo al testo immediato ed ignorando sia le somiglianze metodologiche fra la Scienza della Logica di Hegel e la principale opera di Marz, sia il resto del primo capitolo, l'accusa appare plausibile. Marx scrive: "la ricchezza delle società in cui domina il modo di produzione capitalista appare come un'immensa collezione di merci  e la mer e individuale come la sua forma elementare. La nostra inchiesta comincia, pertanto, con l'analisi della merce" (MEW 23, p.49).
Se leggiamo le parole di apertura nel loro contesto critico del feticismo, appare, tuttavia, che Marx nel primo capitolo del suo libro non parla in alcun modo di qualsivoglia merce empirica. Invece, egli utilizza il termine "merce" in un senso del tutto diverso da quello che significa comunemente. L'oggetto dell'analisi del primo capitolo del Capitale è determinato dalla seguente forma: "solo i prodotti dei lavori privati autonomi ed indipendenti fra di essi si confrontano come merci" (MEW 23, p.57).

Se Marx qui avesse parlato della merce nella superficialità empirica, tale dichiarazione centrale proverebbe il suo analfabetismo teorico. Naturalmente, lui sapeva bene che, sotto il modo di produzione capitalista, tutto assume potenzialmente la forma della merce, non solo i prodotti del lavoro privato. Né la merce forza lavoro rappresenta un prodotto "separato autonomo, di un lavoro privato svolto indipendentemente", né tanto meno lo rappresenta la terra ed altre risorse naturale - per non parlare della merce capitale-denaro; né i prodotti del cosiddetto "settore primario" (miniere, agricoltura ecc.) rimangono confinari in questa determinazione essenziale, perché nella sua produzione subentra un elemento di appropriazione della natura senza lavoro e la trasformazione di una data natura in merce segue la sua propria logica. Nel primo capitolo del Capitale, Marx restringe il concetto di merce alla merce in quanto rappresentante del valore, di modo che essa incarna la struttura capitalista centrale. È solo nello svolgersi della rappresentazione, nella misura in cui l'analisi del modo di produzione capitalista si sviluppa al di là delle determinazioni astratte più generali, che Marx introduce gradualmente tutti i tipi di merce della cui esistenza inizialmente egli fa astrazione. Nel primo libro del Capitale, il processo di concretizzazione arriva sol all'analisi della merce forza lavoro. Le altre merci, il lettore le incontra solo nel terzo libro, quando finalmente la ricostruzione della totalità capitalista raggiunge uno stadio in cui il concetto selettivo di merce può essere abbandonato. Non è un caso che Marx, nel primo capitolo della sua opera principale, sviluppa le "sottigliezze metafisiche e i trucchetti teologici" della merce, nell'esempio del vestito e della tela, lasciando da parte l'agricoltura, di gran lunga il ramo più importante della produzione di ricchezza del suo tempo. Era necessario restringere il concetto di merce in modo tale da prendere in considerazione soltanto la struttura di base della società capitalista: la socializzazione attraverso i prodotti del lavoro privato. Il dissolversi della produzione sociale nel lavoro privato, tuttavia, non è niente di più che la determinazione più astratta del modo di produzione capitalista, la sua totalità ancora non interamente sviluppata, la sua totalità in nuce. La merce, che si trova all'inizio del Capitale, è altrettanto non empirica della categoria dello "essere" con cui Hegel inizia la sua Scienza della Logica.
Se diamo credito a Robert Kurz, allora il supposto individualismo metodologico di Marx troverebbe la sua continuità nel trattamento del Capitale (Kurz, 2012, p.169). Ma anche l'affermazione secondo cui Marx ha analizzato il ciclo del capitale a partire dal capitale individuale e empirico è insostenibile. La categoria del capitale individuale svolge un ruolo solo nell'analisi dell'interazione di molti capitali, vale a dire, nel terzo volume della sua principale opera. Fino ad allora, la rappresentazione si muove logicamente sul piano del "capitale in generale" (vedi Rosdolsky 1968, p.61 e ss.), una categoria la cui esistenza è stata significativamente soppressa da Kurz.

L'idea secondo cui Marx si sarebbe orientato a partire dalla merce empirica e dal capitale individuale empirico non è nuova. Tale interpretazione era già diffusa nel marxismo tradizionale, sebbene non come rimprovero e piuttosto come interpretazione positiva. È stato il grande merito dei primordi della "Nuova Lettura di Marx" e i loro precursori hanno fatto luce su questa lettura ridotta ed hanno fatto chiarezza sulla differenza qualitativa fra la critica dell'economia politica e la dottrina economica borghese - anche se poi successivamente hanno in gran misura cancellato questa differenza (vedi Lewed, 2016). Naturalmente, Robert Kurz aveva quanto meno altrettanto familiarità di loro con tutti questi dibattiti. Ed è maggiormente degno di nota e necessario spiegare perché, in Denaro senza Valore, egli tratti tutto questo come qualcosa di inesistente, ripudiando in questo modo la forma di esposizione di Marx. Perché Robert Kurz si è dimenticato, nel suo ultimo libro, quello che precedentemente per lui era evidente? Perché ha imboccato il vicolo cieco di una nuova metodologia che parla in maniera permanente della totalità del modo di produzione capitalista, proprio per impedire il metodo che permetterebbe la sua ricostruzione?

8. Individualismo metodologico e sostanza del lavoro.
Uno dei motivi che assume rilievo nelle omissioni di Bernd Czorny a proposito de La Grande Svalorizzazione: il kurziano confesso ha combinato l'accusa di "individualismo metodologico" in maniera del tutto automatica con una seconda accusa. Egli presumibilmente avrebbe adottato un "concetto contraddittorio di sostanza"(Czorny, 2016). E, in effetti, esiste una stretta relazione fra le due questioni.
Negli scritti di critica dell'economia di Marx, si trovano fianco a fianco due differenti versioni della categoria della sostanza del lavoro: un concetto naturalistico-filosofico che proviene originariamente dall'accademica borghese del XIX secolo, ed un concetto genuinamente critico del feticismo. I critici del valore che si riferiscono al primo, si ritrovano con un enorme problema analitico rispetto al capitalismo contemporaneo. Un concetto naturalistico-filosofico della sostanza del lavoro rende impossibile spiegare nelle categorie della critica dell'economia politica come il sistema di produzione di ricchezza capitalista possa anticipare e capitalizzare in anticipo la produzione di valore futuro. Il segreto fondamentale dell'economia politica della formazione di capitale fittizio, l'inversione temporale nella relazione fra il dispendio di valore e la formazione di capitale, può essere rilevato soltanto in base ad un concetto di sostanza che sia critico del feticismo. Robert Kurz non voleva abbandonare l'idea di una sostanza filosofica pseudo-sensibile. In questo modo, egli fu obbligato a continuare con il supporto della contrapposizione fra ricchezza senza sostanza e ricchezza sostanziale. In Denaro Senza Valore, lo fa per mezzo della sostituzione della nozione filosofica di lavoro delle merci particolari e la sua elevazione al piano del processo capitalista globale: "[...]l'energia umana astratta non si 'infiltra' in maniera immediata nella merce individuale prodotta per ciascun caso, ma è oggettivamente aggregata, dietro le spalle degli agenti individuali di produzione, ad una massa totale di sostanza del valore socialmente prodotto" (Kurz, 2012, p.179 ).
Viviamo in un'epoca in cui la maggioranza dei pubblicisti non vogliono né sono capaci di pensare tre frasi di seguito. Robert Kurz ha rappresentato i programma di totale opposizione. Il suo lavoro teorico era motivato dall'impulso sfrenato di portare ogni idea fino al suo fine logico. Il suo ultimo libro documenta anche, a suo modo, questa caratteristica di base della formazione teorica di Kurz. In Denaro senza Valore, Robert Kurz ha sviluppato in un sistema chiuso due punti deboli dell'inizio della critica del valore. Con l'inquietante "pensiero dialettico della totalità" egli eleva la frettolosa confusione dei piani di analisi ad una nuova meta-teoria. Nell'idea oscura di una base di energia sociale globale, che rappresenta la produzione di valore totale, e deve rappresentare qualcosa come il contenuto della totalità capitalista, nella quale, tuttavia, Kurz trova tutt'al più dichiarazioni metaforiche (vedi Kurz, 2012, p.204), l'idea di una sostanza naturalistica del lavoro arriva alla più alta consacrazione teorica.

Roman Rosdolsky aveva già mostrato alla fine degli anni 1950, in maniera incontrovertibile, l'incoerenza nel pensiero di Marx, ed aveva confrontato il marx "essoterico" guidato dal paradigma della lotta di classe con il Marx "esoterico" critico del feticismo. Robert Kurz ha ripreso quest'idea decenni più tardi e l'ha introdotta nel dibattito critico del valore con il teorema del "doppio Marx" (Kurz, 1991, p.16). Il contrasto fra il Robert Kurz di Denaro senza Valore e la mia posizione può essere inteso come un gioco di specchi per determinare in maniera più precisa la linea di demarcazione fra il Marx esoterico ed il Marx essoterico, al fine di continuare a sviluppare ulteriormente la critica dell'economia politica.

Il metodo su cui si è basato Marx nella sua opera principale, l'ascesa graduale della determinazione più astratta del modo di produzione capitalista fino alla totalità sviluppata, è ancora rivoluzionario ed indispensabile come modo di esposizione della totalità capitalista. Dall'altro lato, l'uso sovra-storico del concetto di lavoro e la derivazione naturalizzante della sostanza del lavoro come substrato fisiologico si allontanano dal nucleo della critica del feticismo dell'argomentazione di Marx. Essa oscura l'opposizione fra il concetto di valore storicamente specifico e negativo della critica dell'economia politica, da un lato, ed il concetto sovra-storico affermativo del valore-lavoro dell'economia classica, dall'altro lato.
Ma Robert Kurz si è aggrappato alla malaugurata confusione della critica del feticismo della merce facendo uso di un concetto meccanico-filosofico della sostanza del lavoro, e lo ha messo in contrapposizione alla metodologia di Marx. Il risultato è devastante. Chi, come Robert Kurz nel suo ultimo libro, finge di essere in grado di captare la totalità senza dissolverla in un tutto articolato, finisce inevitabilmente in un argomentazione circolare (vedi anche Samol, 2013, p.12). Oppure deve presupporre che quello che vuole dimostrare ritorna sempre segretamente alla strada che lo condanna ad un supposto "individualismo metodologico". Una "comprensione dialettica della totalità" dove la ricostruzione della totalità sociale ormai non è il risultato dell'ascesa dall'astratto al concreto, ma il processo globale sviluppato diventa il presupposto di ogni determinazione categoriale, diventa impossibile qualsiasi determinazione categoriale degna di questo nome.

Robert Kurz, com'è noto, tende ad esagerare le formulazioni. Se seguiamo questo modello, allora l'importanza del suo ultimo libro, ai fini dell'approccio della critica del valore, può essere riassunta in una frase. In Denaro Senza Valore, Robert Kurz ha distrutto tutto quello che lui ed altri hanno costruito a caro prezzo nel corso di decenni.

- Ernst Lohoff - Pubblicato su Krisis del 17 aprile 2017 -

fonte: KRISIS

lunedì 29 maggio 2017

Di interesse culturale!

Kantidiota

"Kant è un idiota", si può leggere, scritto con vernice spray, sull'edificio russo dedicato al filosofo illuminista tedesco del XVIII secolo, situato nell'enclave russa di Kalilingrad, che oggi si trova in rovina ed è diventato un lungo di incontro e di bevute per i giovani del luogo, stando a quanto riferisce il sito web di notizie "Novy Kaliningrad",
Recentemente, qualcuno ha tracciato sulla facciata in mattoni rossi dell'edificio, con vernice spray una frase taducibile come "Kant è un idiota". L'evidente insulto è accompagnato dal disegno di un fiore e da quello di un cuore, apparentemente tracciati dalla medesima bomboletta di vernice.
Un reporter del Novy Kaliningrad che ha visitato il posto, ha scoperto che nell'erba vicina era stato appiccato un incendio, che avrebbe potuto diffondersi all'edificio, qualora non fosse stato spento.
Lo scorso anno, le autorità regionali hanno annunciato che stanno cercando un custode per l'edificio che è stato dichiarato di interesse culturale. Tuttavia, le condizioni dello stabile sono rimaste pietose.
I russi sono rinomati per aver preso assai sul serio la filosofia di Kant, famosa soprattutto forse per la sua "Critica della Ragion Pura". Nel 2013, una discussione sul filosofo, avventuta fra due uomini in un negozio di alimentari della città di Rostov-sul-Don, nel sud della Russia, si è conclusa con uno degli uomini che ha aperto il fuoco contro l'altro, facendo uso di pallottole di gomma.

fonte: The Moscow Times

sabato 27 maggio 2017

Robert Kurz va a Cannes!

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La fabbrica di niente
- Un film di Pedro Pinho -

La "Quinzaine des réalisateurs" (quest'anno, la quarantanovesima), è una selezione parallela del festival di Cannes creata dopo gli eventi del maggio 68 ed organizzata dalla "Société des réalisateurs de films". Il film portoghese di Pedro Pinho è stato selezionato nel quadro dell'ondata di cinema neorealista.

Una notte, un gruppo di lavoratori si accorge che la direzione sta smantellando la loro fabbrica. Ragion per cui, si organizzazo per tentare di salvare quello che rimane  cercare di impedire la delocalizzazione degli impianti, e nel mentre si ritrovano senza più il loro posto, senza lavoro, La "Fabbrica di niente" è un invito a ripensare il ruolo del lavoro umano in un sistema in cui la crisi è diventata il modello di governo dominante. Il film è un inno allo spirito collettivo, e allo stesso tempo una commedia musicale umana.

La corrente neorealista, la Wertkritik e la teoria della crisi
- Estratto dall'intervista ad  Edouard Waintrop, delegato generale della "Quinzaine des réalisateurs": "C'è una sorta di corrente neorealista mondiale" -

«C'è una sorta di corrente  neorealista mondiale che si ritrova anche nel film portoghese di Pedro Pinho, "La fabbrica di niente", che parla a più livelli cimematografici della lotta operaia contro la delocalizzazione. È un film che ha delle immagini e dei colori incredibili, ed abbiamo a che fare con un giovane cineasta che non ha per niente paura. Il film comincia quasi come se fosse un giallo, e poi assume più toni, c'è um momento in cui è una commedia musicale, c'è un momento quasi teorico dove un professore di filosofia politica molto noto spiega cos'è il capitalismo oggi, nel dettaglio più intimo della politica, del sociale».

Dalla classe operaia alla classe dei superflui, del capitalismo e del suo "limite interno assoluto" e del superamento dell'autogestione della produzione di merci. La "gabbia di ferro" che modella le forme sociali e le categorie capitalista dev'essere spezzata, e per prima cosa dev'essere spezzata nella sua logica fondamentale del rapporto di scissione fra i sessi. Operando una rottura ontologica con la sintesi sociale capitalista costituita dal lavoro, il fine può essere solamente una società concepita al di là della maschilità e della femminilità, al di là del lavoro, della forma merce e della forma denaro, al di là del mercato e dello Stato, al di là della politica e dell'economia, al di là del diritto e della democrazia, al di là dell'industria, al di là dei generi, delle razze e delle classi.

«Non esiste nessuna classe intra-capitalista che ne rovescia un'altra. C'è solo l'incontrarsi di individui desiderosi di sbarazzarsi del "soggetto automatico" (nonostante la loro rispettiva posizione in seno al capitalismo) che si scontra con quella parte della società che vuole assolutamente conservarlo (anch'essa a prescindere dalla sua data posizione) e che intende trovare la propria salvezza nella concorrenza senza scrupoli» (Robert Lurz,  Lire Marx, La balustrade, 2002, p. 367).

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

 

A Fábrica de Nada - Trailer from TERRATREME FILMES on Vimeo.

giovedì 25 maggio 2017

Cercando un altro Graal

machine

Stiamo varcando una nuova frontiera nell'evoluzione dell’elaborazione dati, stiamo entrando nell'era dei sistemi cognitivi. La vittoria di Watson, il sistema di intelligenza artificiale sviluppato da IBM, al quiz televisivo Jeopardy! ha rivelato come ricercatori e ingegneri, in ogni parte del mondo, stiano spingendo i confini della scienza e della tecnologia fino a creare macchine che sentono, imparano, ragionano e interagiscono in modi inediti con le persone, dando loro suggerimenti e consigli. Con questo libro, Kelly e Hamm introducono all'affascinante mondo dei «sistemi cognitivi» anche i lettori non specialisti, aprendo una finestra sul futuro del computing. I sistemi cognitivi promettono di penetrare nella complessità e aiutare persone e organizzazioni a prendere decisioni migliori. Possono supportare i medici nella diagnosi e nella cura dei pazienti, aumentare le prospettive di analisi, prevedere i maggiori eventi meteorologici e contribuire a progettare città più intelligenti. Di questa tecnologia gli autori descrivono aspetti interni ed esterni, spiegandoci come ci aiuterà a capire e dominare i «big data», una delle più grandi sfide nell'elaborazione delle informazioni che imprese e governi dovranno affrontare nei prossimi decenni. Coinvolgente e appassionato, il libro ispirerà decisori pubblici, università e imprese tecnologiche di tutto il mondo a lavorare insieme per alimentare questa eccitante ondata di innovazione.

(dal risvolto di copertina di John E. III Kelly e Steve Hamm: Macchine intelligenti. Watson e l'era del cognitive computing, Egea)

Storytelling di una tecno-utopia
- di Mumerico -

Nel Frammento sulle macchine (1858/1859) Marx definisce il rapporto tra macchine come lavoro oggettivato e appropriazione del lavoro vivo dell’operaio da parte del capitale. Per molti aspetti questo testo fornisce una chiave di interpretazione per il libro di John E. III Kelly e Steve Hamm, Macchine intelligenti (Egea, pp. 144, euro 17). Marx descrive l’azione della scienza che costruisce le macchine: piuttosto che di invenzione, si tratta della dissezione dei comportamenti umani, resi così elementari da essere facilmente catturabili e quindi simulabili da una macchina. Ho sempre pensato che Marx qui anticipi Alan Turing quando nel 1936 sostiene l’equivalenza della sua «Macchina» – che costituisce il disegno teorico del computer – con il lavoro di un essere umano che calcola, articolando la sua azione in una successione finita di passi così semplici da essere sintetizzati in forma di istruzioni o comandi che chiunque, anche una macchina, può eseguire.
L’autore del «Capitale» affronta, inoltra, il nuovo ruolo del lavoro vivo quando le macchine esauriranno gran parte dei processi produttivi. Il lavoratore non parteciperà più alla creazione concreta della merce, ma sarà solo sorvegliante e controllore della produzione. Questo passaggio è riprodotto da Joseph Licklider, informatico e teorico della rete Arpanet negli anni Sessanta. Nel 1965 in un libro sul futuro delle biblioteche (The future of libraries), sosteneva che la produzione di sapere sarebbe stata il frutto di una simbiosi tra uomo e macchina. In questa simbiosi la gestione materiale e l’organizzazione dell’insieme delle conoscenze sarebbe stata appannaggio della macchina, mentre l’essere umano sarebbe solo stato il governatore del processo e un facilitatore senza alcun ruolo attivo. Licklider sperava comunque che l’uomo avrebbe conservato la capacità di intuizione in qualche caso, ma in generale avrebbe supportato la macchina nella produzione di sapere, non più di merci.

Licklider anticipa il discorso sulla ricerca, ma soprattutto la retorica intorno ai Big Data, ai quali Macchine Intelligenti dedica un intero capitolo. I due autori – che a Licklider si rifanno esplicitamente – appartengono al mondo Ibm: John E. III Kelly è Senior Vicepresident di Ibm Cognitive solutions, mentre Steve Hamm all’epoca della stesura del testo era il chief storyteller dell’Ibm.

La tesi del libro è che stiamo vivendo un cambio di paradigma nell’ambito delle macchine intelligenti e i sistemi cognitivi sarebbero il futuro, al quale aspiriamo. Ma non è chiaro completamente se questi sistemi rappresentino un salto di paradigma, o se siano solo una generazione più moderna delle attuali macchine in funzione, come Watson, il computer dell’Ibm che ha sconfitto i concorrenti umani a Geopardy, un quiz televisivo molto seguito negli Stati Uniti.
In un mondo complesso – si afferma – gli esseri umani non possono essere soli a prendere le decisioni. I sistemi che le prenderanno si saranno addestrati a contatto con umani in formazione, per esempio studenti di medicina, per imparare a simularne le tecniche di apprendimento, avendo a disposizione milioni di dati di casi utili per la diagnosi in corso. Una sorta di nuova cattura del ragionamento, invece che dei movimenti umani, ai fini di semplificarne la procedura e reiterarla attraverso l’analisi delle ingenti masse di dati a disposizione.

Come già sosteneva Licklider, in questo modello la quantità di dati disponibili trasformerà completamente l’efficienza cognitiva nella presa di decisione, producendo un cambio di marcia che metterà la macchina in grado non solo di archiviare e conservare, ma anche di selezionare i dati utili per ogni scelta. Le macchine svolgeranno l’analisi e la lettura di informazioni e trattati, perché gli umani non saprebbero gestire l’eccessiva quantità di informazione.

I due autori non chiariscono se i sistemi cognitivi, di cui parlano, sarebbero ancora all’interno del modello della macchina di von Neumann (il modello del calcolatore, attuale, per intenderci) oppure no. Ma se fossero oltre quel modello bisognerebbe chiarire meglio come garantirebbero l’affidabilità, soprattutto in presenza di dati così ingenti.
Si allude al calcolo parallelo come a un possibile superamento del modello sequenziale introdotto da von Neumann e alla ricerca su una macchina che adotterebbe la computazione quantistica per il proprio funzionamento. Ma questi interrogativi tecnici restano progetti di ricerca pieni di incognite ancora senza risposta, conditi dall’agiografia di manager e ricercatori Ibm che sembrano cavalieri della tavola rotonda senza macchia e senza peccato, di cui si narrano le gesta per il recupero del sacro Graal. Ovvero la soluzione la cui esistenza si ipotizza, ma per ora ancora introvabile.

Una cosa sembra chiara nel progetto dei sistemi cognitivi: c’è una crisi in corso. Al di là di tutta la retorica che lo storyteller capo mette in atto per schivarla, la crisi è quella della legge di Moore che prevede che ogni anno e mezzo si ottenga il raddoppio delle possibilità computazionali mantenendo inalterati gli spazi dei chip. Il silicio è al limite. Il grande progetto capitalistico di uno sviluppo senza fine sembra essere arenato o prossimo a rallentare notevolmente.
Non si può crescere senza mai fermarsi, non lo può fare l’economia, né i materiali per quanto sofisticati essi siano. La materia presenta il conto. il filosofo Herbert Marcuse direbbe che la natura è il limite di ciò che la tecnica non riesce a controllare. L’abbondanza infinita è una chimera e la crescita permanente un mito della retorica instancabile del capitale. Inoltre le capacità cognitive del cervello umano racchiuse in uno spazio poco più grande di un pompelmo e che consumano scarsissima energia sono ben lontane dalle prestazioni di tutti i sistemi cognitivi presenti e anche di quelli oggetto di ricerca futura, come ammettono gli stessi autori del libro.
Resta l’idea di catturare le capacità cognitive umane nella macchina. Ma diversamente da quando la tecnica catturava i movimenti ripetitivi della produzione materiale, qui la cattura riguarda i meccanismi umani per la presa di decisione, l’incertezza e l’instabilità che scelgono la soluzione in casi difficili. Il problema è che non esiste un unico sistema di ragionamento, altra chimera delle macchine intelligenti, non c’è una categorizzazione unica possibile.
Sistemi descritti nel libro come gli analytics pervasivi che dovrebbero aiutare le persone a orientarsi nella realtà di tutti i giorni o i cognitive enterprise lab che servirebbero a favorire la presa di decisione in situazioni complesse appaiono meccanismi accentratori, le cui capacità programmate in maniera opaca somigliano a una minaccia di normalizzazione rispetto alla diversità e variabilità dei criteri di valutazione umana.
Solo i nomi attribuiti a questi strumenti fanno rabbrividire e tradiscono la dimensione commerciale e l’interesse per una psicopolitica di controllo sugli individui. Rendere elementari i movimenti in una catena di montaggio per farli svolgere dalle macchine può avere un carattere liberatorio, a certe condizioni, automatizzare le decisioni degli esseri umani in tutti i campi, inclusa la ricerca e la conoscenza, sembra il disegno ricattatorio di uno di quei cattivi di Hollywood che il buono di turno riesce presto o tardi a sventare, per la gioia degli spettatori. Non è neanche molto chiaro quali siano i benefici che i sistemi cognitivi già in funzione e quelli che verranno dovrebbero portare all’umanità.
Aspettiamo un nuovo capitolo dell’infinito storytelling Ibm per maggiori dettagli.

- Numerico - Pubblicato su Manifesto dell'8 aprile 2017 -

martedì 23 maggio 2017

Selfie

selfie

Il turismo è l’industria più importante di questo nuovo secolo, perché muove persone e capitali, impone infrastrutture, sconvolge e ridisegna l’architettura e la topografia delle città. Con la lucidità del suo sguardo sociologico, d’Eramo tratteggia i lineamenti di un’epoca in cui la distinzione tra viaggiatori e turisti non ha più senso e recupera le origini di questo fenomeno globale, osservandone l’evoluzione fino ai giorni nostri. La nascita dell’epoca del turismo rivive attraverso le voci dei primi grandi globetrotter, a partire da Francis Bacon, passando per Samuel Johnson, fino a Gobineau e Mark Twain, che restituiscono una concezione del viaggio ancora elitaria e che, tuttavia, porta con sé quella ricerca del diverso, del selvaggio e dell’autentico tipica di ogni esperienza turistica. E proprio a questo spasmodico bisogno di autenticità si è adeguato il panorama urbano in cui viviamo oggi. Con una fondamentale precisazione: l’autenticità che appartiene alla logica del turismo è un’autenticità fasulla, che soddisfa le aspettative del turista piuttosto che offrire un’istantanea reale – e dunque non sempre piacevole o di facile interpretazione – di un certo luogo. Al punto da generare intere città turistiche, come Las Vegas o l’analogo esempio cinese di Lijiang, dove la Torre Eiffel può essere esportata e riprodotta di fianco al Canal Grande. Se il turismo è un’industria, i turisti sono il suo mercato e le varie città turistiche entrano in competizione per conquistarsene una fetta. Attraverso un percorso urbano che si sviluppa su tutto il mappamondo, d’Eramo smaschera la dialettica del fenomeno turistico e la affronta senza pregiudizi snobistici, collocandola nello spirito del suo tempo.  

(dal risvolto di copertina di: Marco d’Eramo: Il selfie del mondo. Indagine sull'età del turismo, Feltrinelli)

La ricerca del sublime sacrificata nei templi del tempo libero
- di Vanni Codeluppi -

Il filosofo Immanuel Kant è stato il primo a teorizzare, nella Critica del Giudizio, la figura del turista come un soggetto che si muove per il mondo alla ricerca di esperienze estetiche gratificanti. Alla ricerca cioè di mete di visita che sono in grado di assumere ai suoi occhi un carattere sublime. Non sono però sublimi in assoluto, ma lo diventano per un turista che li vive come inferiori rispetto a sé. Che trova dunque in tal modo una conferma della sua superiorità nei confronti della natura, ma anche di chi la abita, ovvero gli abitanti di un determinato luogo geografico.
Dall’epoca di Kant, però, il turismo è profondamente mutato. Quello che era un turismo d’élite è stato progressivamente sostituito da un vero e proprio turismo di massa. Pertanto, è andata scomparendo la distinzione tra i viaggiatori e la popolazione che vive in un territorio preciso, la quale ha cominciato a sua volta a viaggiare per il mondo alla ricerca di esperienze sublimi.
Ciò è potuto avvenire perché il turismo si è trasformato in uno dei fenomeni che più caratterizzano le società contemporanee. Al punto che l’attuale può essere considerata una vera «era del turismo». Marco d’Eramo, storica firma del manifesto, ne dà conto nel libro Il selfie del mondo (Feltrinelli, pp. 254, euro 22). D’Eramo racconta, intrecciando interpretazioni teoriche con un’elevata quantità di fatti e notizie, come il turismo si sia sviluppato. Come cioè le città e i luoghi turistici siano diventati oggetto di un intenso processo di miglioramento e promozione allo scopo di soddisfare una domanda di vacanze in forte crescita. Come dunque ogni territorio geografico e culturale è stato progressivamente considerato dotato di una specifica identità che può essere sfruttata per esercitare una capacità d’attrazione nei confronti della domanda turistica.
D’Eramo mette bene in luce come tutto ciò sia nato nel corso dell’Ottocento. Non a caso in tale periodo è andato definendosi il modello dell’albergo. In realtà, l’albergo ottocentesco era un «grand hotel», ovvero un luogo di elevato prestigio destinato ad ospitare poche persone privilegiate appartenenti all’aristocrazia e all’alta borghesia. Grazie alla locomotiva ferroviaria e al piroscafo, il viaggio da tormento si trasformava in piacere e le famiglie altolocate cominciavano a spostarsi. Non è un caso che nella seconda metà dell’Ottocento ci sia stata anche una larga diffusione di guide turistiche, come quelle pubblicate da Karl Baedeker in Germania o quelle celebri di Mark Twain.
Il turismo è diventato un fenomeno di massa soprattutto nel Novecento, in conseguenza di una legittimazione etica e sociale del concetto di tempo libero. D’Eramo mette inoltre in evidenza come il turismo si sia sviluppato anche moltiplicando i suoi modelli, assegnando una maggiore importanza allo sguardo del turista. Il quale ha trovato disturbanti le esperienze fatte con gli altri sensi. Che dunque vengono di frequente indebolite o addirittura eliminate.
Per esempio, D’Eramo riporta che i turisti che non hanno il coraggio di fare rafting nel Grand Canyon in Arizona trovano a pochi chilometri di distanza un cinema IMAX con 525 posti su cui viene proiettato un film di 34 minuti su uno schermo da 21 metri con sei amplificatori Dolby stereo che permette di vivere la stessa esperienza di scendere nel fiume con il canotto.
Ciò è possibile perché, come aveva già sottolineato nelle sue Mythologies Roland Barthes, il turismo si presenta essenzialmente come un fenomeno culturale e comunicativo. D’Eramo sposa perciò la posizione di Dean MacCannell, secondo il quale quello che conta per i luoghi turistici è la loro capacità d’attrazione, che la società elabora dando vita a delle «frecce», cioè dei markers che attirano l’attenzione.
Il turista poi, visitando tale luogo, produce a sua volta altri markers: cartoline, fotografie, giudizi sui social network. Non a caso, l’atto del fotografare sostituisce spesso per i turisti il guardare. E il digitale, semplificando l’atto del fotografare, ha intensificato questi comportamenti. Dunque, la diffusa pratica odierna del selfie, che dà il titolo al libro di D’Eramo, è dovuta al bisogno di segnalare la propria presenza e la propria esistenza, ma anche alla necessità di produrre dei «marcatori». Il turista contribuisce pertanto a conferire con i suoi markers una natura autentica all’attrazione turistica.
Di conseguenza, nascono anche città interamente dedicate al turismo, o trasformate a tale scopo. D’Eramo racconta di diverse città di questo tipo: Venezia, San Gimignano, Las Vegas o la cinese Lijiang, ricostruita dopo un terremoto secondo un modello di pura fantasia. Eppure oggi ogni anno ben 20 milioni di turisti si accalcano all’interno di tale città per vedere dei falsi nuovi edifici antichi, come il palazzo mai esistito della famiglia Mu.
Si tratta di città che applicano il modello dell’«autenticità messa in scena» di cui ha parlato MacCannell. L’autenticità dev’essere cioè «marcata» per essere visibile al turista. Perciò spesso il turista rimane deluso, perché si è precostituito delle aspettative tramite i markers che ha incontrato prima della sua visita e che non corrispondono alla realtà. Eppure l’industria turistica odierna non si ferma. Spesso addirittura trasforma in attrazione gli stessi turisti. E riesce a fare affari persino svelando la messa in scena, cioè mostrando cosa è possibile trovare dietro le quinte, secondo quel modello che oggi applicano abitualmente i grandi chef, che permettono ai clienti di entrare nelle loro cucine.
Eppure, nonostante tutto, va riconosciuto, come fa anche D’Eramo in sede conclusiva, che il tanto bistrattato sguardo del turista di massa non è molto lontano da quello della modernità. Rappresenta cioè il riflesso di quell’insaziabile volontà di conoscere e comprendere il mondo circostante che ha alimentato con successo il processo di sviluppo delle società occidentali.

- di Vanni Codeluppi - Pubblicato sul Manifesto del 29 aprile 2017 -

lunedì 22 maggio 2017

Ribelli

schiavi

Il miraggio della libertà nel mondo antico
Intervista con Orietta Rossini, curatrice della mostra «Spartaco. Schiavi e padroni a Roma», all’Ara Pacis
- di Federico Gurgone -

Il giurista Gaio, suddito dell’illuminato Marco Aurelio, divideva in due la specie umana: liberi e schiavi. Un sistema binario, nel probabile rapporto di sette a tre, raccontato crudamente all’Ara Pacis dalla mostra Spartaco. Schiavi e padroni a Roma, curata da Claudio Parisi Presicce, Orietta Rossini e Lucia Spagnuolo e visitabile fino al 17 settembre.
A un certo punto del percorso espositivo, l’attenzione è catturata da un contenitore bronzeo di profumi in forma di testa di schiavo, in prestito dal Louvre. È questa l’essenza di Roma: il profumo degli eletti costruito sul sudore insanguinato della maggioranza. L’Urbe segna l’origine del capitalismo. E infatti poggiava i piedi sullo schiavismo. «L’idea è nata al museo archeologico di Madrid, dopo aver visto le catene in ferro rinvenute nelle miniere romane – racconta Orietta Rossini
– Quando sono giunti all’Ara Pacis i due reperti esposti, l’archeologa accompagnatrice mi ha detto che i restauratori avevano individuato evidenti tracce di resti organici impresse nel ferro».
Non sorprende: sono catene pensate per ferire le caviglie appena ti muovevi. E dovevi muoverti, altrimenti non lavoravi. Dalla Spagna viene anche una gerla in quercia, impermeabilizzata con pece in quanto serviva per togliere acqua dai tunnel. Fu restituita dalle miniere andaluse di Rio Tinto, luogo di provenienza anche della stele di Quartulus, morto di fatica a quattro anni, rimasta a Madrid.
«Prima di procedere all’allestimento, abbiamo preso contatti con l’International Labour Organization, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di schiavitù nel mondo contemporaneo», continua la curatrice. Le foto esposte, scelte da Alessandra Mauro di Contrasto, sottolineano la tragica corrispondenza delle sezioni antiche con la realtà dei 21 milioni di schiavi del 2017, delocalizzati nelle periferie del capitale.
Ginnasti bambini nepalesi, agricoltori dell’Amazzonia presi per debiti; caporali in Italia, schiavisti senza nome laddove i padroni romani per lo meno non potevano nascondersi. «Essendo persone concrete e note, Claudio poté imporre una legge per punirle qualora abbandonassero uno schiavo anziano nel lazzaretto dell’Isola Tiberina. Finché non eliminiamo la povertà ci sarà sempre la schiavitù». Nelle miniere ci finivano i dannati ad metalla, ma anche i poveri di ogni epoca. Quartulus era nato libero.
Il Rio Tinto è rosso per i sedimenti ferrosi. Eppure il suo nome evoca sangue. I filoni di rame sono stati sfruttati dai fenici, dai romani e dalla britannica Rio Tinto Company, che costruì un villaggio per accogliere i minatori inglesi, reprobi di prima classe rispetto ai colleghi spagnoli scesi in sciopero nel 1888. L’esercito sparò su di loro, lasciando sul campo duecento morti.

Le miniere sono gironi danteschi. «Sì, se ne parliamo al di sotto dell’Ara Pacis è proprio perché ne costituiscono il nucleo: l’inferno», conferma Rossini, secondo la quale l’Impero Romano è stata la più grande economia schiavista della storia. In seguito alla smisurata introduzione di manodopera servile, i romani divennero ricchi e latifondisti, misero a tacere i Gracchi e dimenticarono i Cincinnato con la spada nella destra e l’aratro nella sinistra.
«Si trattava di un’economia proto-capitalista. Secondo Peter Temin, chi voleva far fruttare il suo capitale aveva anche gli strumenti finanziari per farlo: il prestito, l’interesse, l’investimento, le banche». E nel commercio al capitalista conveniva soprattutto impiegare uno schiavo, sottoposto alla sua illimitata autorità. Bastava dargli per stimolo un piccolo capitale da investire per conto proprio, e il servus diventava un borghese. Uno schiavo manager, benestante ma senza diritti: se veniva menomato da una terza persona, era il padrone a essere risarcito.
I romani giocavano al bastone e alla carota, elargendo benevolenza e terrore: il metus che colpì inesorabile i seimila spartachisti superstiti crocefissi lungo l’Appia. I curatori hanno fortemente voluto un’olio su tela dipinto nel 1878 da Fëdor Andreevic Bronnikov nella vicinissima via Vittoria, dall’altra parte di via del Corso, e subito dopo portato in Russia, da dove non era più uscito. Raffigura un episodio di crocefissione di schiavi: la peggiore delle punizioni, inventata per loro. «Gesù è trattato come uno schiavo: è umiliato. Si crocifiggeva fuori dalle mura urbane: a Roma sull’Esquilino, presso il campus sceleratus del quadro. La tabula puteolana stabilisce per il municipio di Pozzuoli la procedura delle esecuzioni. Esisteva un servizio di crocifissione pubblico, al quale poteva ricorrere anche un privato. C’era un preciso tariffario, il prezzo dei carnefici e della sofferenza richiesta. Una banalità del male. Un lavoro».
Bisognava essere pragmatici. Romolo non si era fatto problemi a reclutare schiavi fuggiaschi e i suoi eredi impiegarono massicciamente la manumissione: l’atto giuridico con il quale si affrancava uno schiavo. Al padrone conveniva liberarlo, se lui pagava. Da giovane magari non si ribellava, per la speranza di una vecchiaia da liberto. Da anziano non serviva più a nulla, meglio rottamarlo. Non che i romani siano mai stati razzisti; capitalisti estremi, tutto qui. «A Roma, paradossalmente, un ascensore sociale esisteva».
«La macchina era meritocratica – spiega Rossini – Gli schiavi migliori potevano far carriera. Fino agli anni ’60, in Mississippi, gli afro-americani non erano ammessi all’università; gli schiavi greci, invece, a Roma ci venivano da professori. Furono gli schiavi ellenici a portare la medicina sul Tevere, superando le antiscientifiche tradizioni dei pater famililas alla Catone. Nella mostra si può ammirare l’intero armamentario di un chirurgo: bisturi, divaricatori, cateteri, pinze e tenaglie».

Tra il 135 e il 71 a.C. tre generazioni di schiavi si ribellarono alla Repubblica. Inutile negare un dato di fatto: nessuno dei leader ribelli pensò mai di abolire la schiavitù, un male necessario esistente anche nella Tracia di Spartaco e nella Siria di Euno, il capo della prima rivolta. Erano ribelli, non rivoluzionari, argomenta Rossini. «Spartaco va immaginato come un mirmillone: il peso massimo dei gladiatori. Non poteva accettare per carattere la sottomissione. Aggiungi poi che Plutarco lo descrive non solo dotato di grande forza fisica, ma anche di intelligenza e acume: ’è più un greco che un trace’, il maggiore dei complimenti». Di fronte alla possibilità di aggredire Roma, però, rinunciò come Annibale. L’esercito era impegnato allora anche contro Sertorio in Spagna e Mitridate in Grecia. La situazione era favorevole, tuttavia Spartaco prese tempo perché consapevole della necessità di un presupposto: sollevare l’Italia degli oppressi contro i romani. La sua, più che una rivolta servile, fu una ribellione antiromana su base etnica.
E perché, peggiorata la situazione, non scappò? «Perché sarebbe stata una soluzione individuale. Invece lui accettò di guidare un esercito composto da disperati di diversa origine, non solo servile. In un momento successivo penso si sia reso conto di dover agire su base sociale. Non sappiamo se per convenienza o per convinzione. Nessuno può restituirci le sue idee. Certo era un uomo motivato dalla sete di libertà. Certo arrivò a instaurare tra i rivoltosi un regime più egualitario: spartiva il bottino in parti uguali, per questo ebbe un forte seguito tra gli scontenti».
Il suo sacrificio, in parte, servì. I romani impararono che l’eccesso di brutalità genera ribellione. Il sistema, per conservarsi, capì che non doveva esagerare. C’è una differenza tra il trattato di Catone sull’agricoltura e quello di Columella, scritto duecento anni dopo: nel secondo si invita a una gestione un po’ meno disumana delle risorse umane. Sempre pragmatici questi romani.

- Federico Gurgone - Pubblicato sul Manifesto del 9 maggio 2017 -

domenica 21 maggio 2017

Destino e complotto

piglia

«Nel romanzo in quanto genere, il complotto ha sostituito la nozione tragica di destino: alcune forze invisibili definiscono il mondo sociale e il soggetto, che non le comprende, è un loro strumento. Il romanzo ha fatto entrare la politica nella finzione sotto forma di complotto. La differenza tra tragedia e romanzo sembra essere legata a una ridefinizione del concetto di fatalità: il destino viene vissuto sotto forma di complotto. Non sono più gli dei a decidere la sorte, quanto piuttosto forze oscure che architettano macchinazioni che definiscono il funzionamento segreto della realtà. Gli oracoli hanno cambiato luogo; è la classica trama dell’informazione, le versioni e controversie della vita pubblica, il luogo visibile e denso dove il soggetto legge quotidianamente la cifra di un destino che non riesce a comprendere.»

da: Ricardo Piglia, "Romanzo e complotto" (2006)
- Pubblicato su «Nuova Prosa 46. America Latina dalle derive del realismo magico alla realtà del romanzo. Inediti, testimonianze, saggi» 2017 -

sabato 20 maggio 2017

Servi e padroni

servo

Seneca, Hegel, Marx La dialettica del padrone che si tramuta in servo
- di Umberto Curi -

In quello straordinario «romanzo filosofico» che è la Fenomenologia dello Spirito (1807) di G.W.F. Hegel, le figure del signore e del servo vengono introdotte quali esemplificazioni della «lotta per il riconoscimento», intesa come lotta per la vita e per la morte. L’esito dello scontro è descritto in un passaggio dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche: «Poiché la vita è essenziale quanto la libertà, la lotta termina innanzitutto, come negazione unilaterale, con la seguente disuguaglianza. Uno dei due combattenti preferisce la vita, si conserva come autocoscienza singolare, ma rinuncia al suo essere-riconosciuto; l’Altro, invece, si mantiene saldo alla sua autorelazione, e viene riconosciuto dal primo come da un assoggettato. Si ha così il rapporto tra signoria e servitù».
Ne risulta un riconoscimento asimmetrico: io riconosco l’altro senza che l’altro mi riconosca. Così facendo, io divento il suo servo e lui il mio signore. D’altra parte, quello del signore non è un riconoscimento totale, perché egli non riconosce a sua volta la realtà e dignità umana del servo. Ciò conduce al rovesciamento del rapporto tra signoria e servitù, perché, nel servizio, la co- scienza, si sostituisce la lotta di classe. Dall’altro lato, al binomio signore-servo subentra il dualismo borghesiaproletariato ovvero, negli scritti maturi di critica dell’economia politica, l’antitesi capitalista-operaio. Con un tratto di significativa continuità, rispetto all’impostazione hegeliana, perché al termine del processo il vero «vincitore» della lotta non sarà il signore (capitalista), ma il servo (operaio). Se si rimette «sui piedi» quella dialettica che Hegel aveva indebitamente messo sulla «testa» — come Marx auspica nella Sacra Famiglia (1845) — e non ci si affida a un «metodo mistico», ma si assume il «metodo trasformativo», si potrà giungere a individuare in coloro che attualmente sono servi il soggetto concreto della storia.
D’altra parte, la logica del rovesciamento, ben prima di Hegel e Marx, si ritrova già nel monito che Seneca rivolge nelle Lettere al giovane Lucilio: «Comportati con il tuo inferiore come vorresti che il tuo superiore agisse con te. Tutte le volte che ti verrà in mente quanto potere hai sul tuo schiavo, pensa che il tuo padrone ha su di te altrettanto potere». E poi, riassumendo: «Mostrami chi non è schiavo: c’è chi è schiavo della lussuria, chi dell’avidità, chi dell’ambizione, tutti sono schiavi della speranza, tutti della paura». Dove compare già l’assunto riguardante l’intercambiabilità, e dunque la potenziale reversibilità, dei ruoli fra il servo e il padrone.

Ma forse il testo che meglio esprime questa relazione è il racconto Il padrone e il servo, che Lev Tolstoj scrive nel 1895. Vasilij è il padrone burbero, avaro e avido, di un piccolo emporio di paese. Il suo servo Nikita lo assiste con slancio e dedizione, per un salario che è pari alla metà di quanto sarebbe prescritto. Durante un viaggio con la slitta trainata da un cavallo, i due vengono sorpresi da una bufera di neve. Vasilij abbandona il servo al suo destino, cercando di salvarsi in groppa al cavallo che ha sciolto dalla slitta. Ma al termine di un lungo giro, il cavallo lo riporta dove era stato lasciato Nikita. È a questo punto che si compie la svolta. Non è possibile che i due uomini si salvino insieme. Allora il padrone fa sdraiare il servo sulla pancia e si distende su di lui, riscaldandolo col calore del suo corpo.
Al mattino seguente, i soccorritori trovano Nikita ancora vivo sotto il corpo del padrone assiderato. Così Tolstoj narra gli ultimi pensieri di Vasilij prima della morte: «E si rammenta che Nikita è lì disteso sotto di lui e che si è scaldato ed è vivo, e gli sembra di esser lui Nikita e che Nikita sia lui, e che la sua vita non sia in lui stesso ma in Nikita. Si mette in ascolto, e sente il respiro, e persino il leggero russare di Nikita. “È vivo, Nikita, e dunque anch’io sono vivo” dice a se stesso con aria di trionfo. E si ricorda dei soldi, della bottega, della casa, degli acquisti, delle vendite e dei milioni dei Mironov; fa fatica a capire perché quest’uomo che chiamavano Vasilij Brechunòv si occupasse di tutte le cose di cui si occupava. “Be’, è perché non sapeva qual era il punto” pensa di Vasilij Brechunòv. “Non lo sapeva così come io lo so adesso. E adesso non mi sbaglio. Adesso so”. E sente di essere libero, e non c’è più nulla che lo trattiene. E null’altro vide e udì e sentì in questo mondo Vasilij Andreevic. Intorno tutto era ancora avvolto dal nevischio».

- Umberto Curi - Pubblicato su Corriere/La Lettura del 5 febbraio 2017 -