La fine del secolo americano
- di Pankaj Mishra -
Così il sogno folle di esportare i propri valori si è trasformato nel nuovo disordine mondiale
George Santayana una volta ha descritto «l’orfano incompetente, inconsistente, cosmopolita » figlio del capitalismo industriale americano come «spavaldo nei modi ma incerto nella moralità». Questo personaggio, tanto diverso dal classico yankee noiosamente rispettabile, si è incarnato, nel romanzo di Santayana L’ultimo puritano (1935), in un insegnante chiamato Cyrus Whittle. Col suo ordinario fanatismo Whittle oggi sembra il prototipo degli internazionalisti liberali, fautori della democrazia neocon e della globalizzazione del libero mercato, che hanno reso così caotico il Secolo Americano – conclusosi con l’insediamento di Donald Trump: «Non solo l’America era la più grande del mondo, ma avrebbe sbaragliato tutto il resto; e nel delirio abbagliante e giocondo dell’adempiere a quel compito dimenticava di porsi il problema del dopo». Santayana aveva assistito, dal suo osservatorio di Harvard, alla trasformazione operata dall’industrializzazione e dall’imperialismo sull’America post-guerra civile, diventata un paese ricco e libero, pieno di seguaci dello stile di vita americano. Vissuto in Europa durante due guerre mondiali, morì nel 1952, nel momento in cui una nuova ambiziosa generazione di orfani cosmopoliti iniziava a promuovere la “modernizzazione”, ossia l’americanizzazione, del mondo.
È intrigante chiedersi se per il personaggio di Whittle Santayana si sia ispirato a Henry Luce, fondatore e direttore di Time, Fortune e Life, che nel 1941 esortò i suoi connazionali a «creare il primo grande secolo americano». Luce era molto attento al profitto. «Oggi pensiamo al commercio mondiale in termini assurdamente ridotti», recriminava; l’Asia «ci renderà quattro, cinque, dieci miliardi di dollari l’anno». Nello stesso tempo Luce, figlio di missionari presbiteriani in Cina, aveva la ferma convinzione che gli americani dovessero andare oltre la promozione di un «sistema di libera impresa». Come «eredi di tutti i grandi valori della civiltà occidentale» avevano il compito di rendere gli Stati Uniti «la centrale da cui gli ideali si diffondono nel mondo, assolvendo al misterioso compito di elevare la vita dell’umanità dal livello delle bestie». Thomas Friedman nel 2009 espresse il concetto in forma più concisa: «Voglio che tutti siano americani».
La storia globale degli ideali americani post-1945 non è stata ancora scritta, né esiste un’analisi sociologica esauriente che abbia per oggetto gli intellettuali americani e americanofili. Stiamo solo emergendo, storditi, dai decenni frenetici post-guerra fredda in cui, come scrive Don DeLillo, «la spettacolare ascesa del Dow Jones e la velocità di internet sono stati di invito per tutti a vivere permanentemente nel futuro, nello splendore utopico del capitale cibernetico ». È chiaro da tempo però che l’americanizzazione del mondo, iniziata negli anni Quaranta con progetti di modernizzazione nazionale e accelerata nella nostra epoca puntando a livello globale sui mercati non regolati, ha rappresentato l’esperimento ideologico più ambizioso mai intrapreso nell’era moderna. Si fondava sul presupposto che la popolazione del resto del mondo dovesse adottare la ricetta di progresso apparentemente valida in America, qualunque essa fosse (la libera impresa, il liberalismo del New Deal, il consumismo, la finanziarizzazione, l’individualismo neoliberale); e veniva accolta con ampio e fervido entusiasmo da non americani, come i consiglieri dello Scià di Persia, gli esperti favorevoli al libero mercato in India e i componenti della redazione dell’Economist. Gli adepti, alleati e facilitatori dell’americanizzazione, dalla Grecia all’Indonesia, erano anche di gran lunga più influenti dei loro rivali socialisti e comunisti. I linguaggi americani della modernità finirono per corrispondere al senso comune della vita intellettuale pubblica in tutti i continenti, alterando radicalmente la concezione che gran parte della popolazione mondiale nutriva della società, dell’economia, della nazione, del tempo e dell’identità individuale e collettiva.
Luce fu tra i primi americani a rendere la modernità sinonimo del proprio paese. In effetti i nomi stessi delle sue riviste – Time, Life, Fortune – miravano a sintetizzare la condizione umana all’epoca in cui gli Stati Uniti uscivano dalle due guerre mondiali come il paese più ricco e più potente della terra. I giardini d’Europa sembravano prossimi alla chiusura e le élite americane si consideravano le vere eredi dei valori apparentemente occidentali della ragione, della libertà e della democrazia, che le nazioni europee, rovinate dal massacrarsi a vicenda in patria ed esercitando con brutalità il potere imperiale all’estero, non potevano più credibilmente rivendicare. Luce propugnò il secolo americano al momento giusto. Molti liberali del New Deal condivisero dopo la guerra il suo spirito missionario esaltato. Avendo salvato il loro paese da una crisi economica rovinosa e poi sconfitto il fascismo in Europa, si sentivano chiamati a nuovi doveri nel resto del mondo, soprattutto in Asia e in Africa. La superiorità della società e della cultura americana a fronte della devastazione in Europa e in Asia era palese. Walt Rostow, autore nel 1960 di The Stages of Economic Growth: A non- communist manifesto ( Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi 1962, ndt) e divenuto in seguito tristemente famoso come uno dei più brillanti fautori del fallimentare intervento americano in Vietnam, era convinto che gli Usa, «figli dell’illuminismo... devono ora affrontare la maturità attivandosi da oggi in poi per far sì che i valori dell’illuminismo o i loro equivalenti nelle culture non occidentali sopravvivano e dominino il Ventunesimo secolo».
L’aura di intellettualismo non era solo questione di immagine; gli scenari e le strategie erano inserite in uno schema teorico vero e proprio, la teoria della modernizzazione. Nils Gilman nel suo superbo saggio Mandarins of the Future (2003) lo ha definito «il progetto più esplicito e sistematico mai inventato dagli americani per riorganizzare le società straniere». Basandosi sul netto contrasto tra una tradizione opprimente e una modernità affrancatrice, la teoria della modernizzazione postulava che le nazioni postcoloniali dovessero fuggire dal passato scegliendo la via dello “sviluppo”. Il punto di arrivo di questo percorso arduo e complesso erano gli Usa, come campioni della modernità liberale.
Decenni prima che Francis Fukuyama proclamasse la “fine della storia” i teorici della modernizzazione sostenevano che il mondo capitalista assimilato ai criteri americani fosse sia auspicabile che inevitabile. Molti nell’ambiente intellettuale- industriale statunitense all’inizio degli anni Sessanta giunsero alla conclusione che la stabilità era più importante della democrazia. Il saggio del 1968 Ordine politico e cambiamento sociale di Samuel Huntington esprimeva efficacemente il crescente timore nutrito dalle élite liberali razionali nei confronti delle masse irrazionali. Quando la Guerra Fredda esplose in una serie di guerre calde, la ricerca di un alleato affidabile e sicuro contro il comunismo portò i modernizzatori ad appoggiare tutta una serie di regimi ignobili. L’esempio più vergognoso fu il Vietnam del Sud, divenuto un grande laboratorio per Rostow, che ambiva a opporre a Marx la teoria non marxiana della modernizzazione. Gli americani, nella sua ipotesi, potevano assistere i vietnamiti del Sud nel superamento dei cinque «stadi di crescita economica», fino alla «fase di decollo» in cui sarebbero stati pronti a schiacciare i comunisti nordvietnamiti. L’umiliazione in Vietnam screditò i teorici della modernizzazione.
Il loro fallimento in Iran però è stato assai più devastante sotto il profilo geopolitico, alimentando l’islamismo radicale in tutto il mondo. Decine di migliaia di americani avevano vissuto in Iran sotto il regime dello Scià, molti come consulenti del progetto di modernizzazione più brutale e traumatico condotto in Asia. Lilienthal, che promuoveva le imprese americane all’estero tramite la sua società di consulenza, agì in Iran oltre che in Vietnam. Ricorrendo a trasferimenti forzati su larga scala contribuì al diffondersi dell’odio contro l’America e alla successiva feroce impennata del nazionalismo religioso – che Michel Foucault definì a ragione la «prima grande insurrezione contro i sistemi globali, la forma di rivolta più moderna e più folle».
Negli anni Ottanta però gli orfani cosmopoliti vendevano nuovi sistemi globali, armando al contempo i mullah in Afghanistan contro il comunismo sovietico. Può sembrare strano che la cupa atmosfera degli anni Settanta, associata alla ritirata disordinata da Saigon, alla crisi energetica e alla crisi economica, ai segnali allarmanti di deindustrializzazione e alla stagnazione dei salari in patria, abbia dato origine a nuovi sogni di gloria e potere americani. Ma questo clima culturale era in gestazione durante tutta la fase di agonia del liberalismo del New Deal ad opera degli intellettuali neo-conservatori. «Siamo i primi, siamo i migliori», sosteneva Reagan nel 1984. «Come è possibile non credere alla grandezza dell’America? Noi siamo americani». L’attenzione ai profitti era associata al nuovo nazionalismo come nel caso di Luce, ma con una differenza fondamentale: nella nuova visione dell’americanizzazione, la modernità era un progetto individualista e orientato al mercato, piuttosto che collettivo e programmato dallo Stato. Negli anni Ottanta il capitalismo del laissez- faire, largamente abbandonato dopo le devastanti crisi economiche di inizio secolo, sostituì nell’Anglo-America un modello ampiamente defunto di socialdemocrazia. Era il mercato ormai il vero regno della libertà umana, con l’ulteriore vantaggio di premiare tutti grazie a una maggiore efficienza e a maggiori profitti. «Sapete, il mercato ha qualcosa di magico quando è libero di agire», rifletteva Reagan all’inizio del 1982. «Come dice la canzone, this could be the start of something big (può essere l’inizio di grandi cose)».
Dagli anni Quaranta in poi, gli americanizzatori avevano ribadito che al capolinea della storia c’erano gli Stati Uniti. Neppure gli attacchi terroristici dell’undici settembre scossero questa convinzione. Il sospetto che l’islamofascismo avesse dichiarato guerra alla modernità liberale in realtà stimolò molti intellettuali americani a tentare con più audacia di creare un mondo nuovo a immagine dell’America che preferivano. I teorici della modernizzazione, rispettosi della lunga durata nella storia, affidavano alla classe media beneficiaria del capitalismo il compito di far crescere la democrazia. Ma la generazione “post-ideologica” degli internazionalisti liberali e dei neo-con pensava ormai che la democrazia potesse essere impiantata attraverso la terapia dello shock- and - awe in società che non l‘avevano per tradizione. La loro teoria dominante identificava l’«altro da sé» sotto il profilo razziale e religioso come brutalità irrecuperabile, l’esatto opposto degli americani razionalmente egocentrici, che doveva essere sterminata universalmente attraverso una spietata guerra al terrorismo.
Le crisi e i crolli successivi hanno reso meno auspicabile, se non indesiderabile, la convergenza con il modello americano. La Russia post comunista è degenerata nel capitalismo gangster e nel dispotismo politico. Il caos e le sofferenze di massa hanno contribuito a trasformare un arcigno ex agente del Kgb, Vladimir Putin, nell’improbabile salvatore della Russia (che ficca sfacciatamente il naso nelle elezioni americane). In Iraq, il più audace esperimento di americanizzazione non solo ha causato una feroce insurrezione, ma ha spaccato il paese, favorito l’ascesa dello Stato islamico, e il disfacimento del Medio Oriente. Il vice cancelliere tedesco non sbagliava quando recentemente ha evidenziato i legami tra la crisi dei profughi in Europa e «l’erronea politica interventista americana, in particolare la guerra in Iraq».
Dopo la crisi finanziaria del 2008, la convinzione che anima sia i teorici della modernizzazione che i fautori neoliberali della terapia dello shock secondo cui la modernità politica ed economica tende a uniformare la condizioni umane, si è infine rivelata falsa proprio negli Stati Uniti, dove, a dispetto di un’enorme crescita della produttività e dell’innovazione, dai primi anni Settanta si sono intensificate le disuguaglianze di reddito e opportunità. Alla fine, come ha dimostrato la vittoria di Donald Trump nel novembre 2016, il Washington Consensus aveva fatto troppe vittime già nell’entroterra di Washington Dc. Mentre a Oriente infuriava la battaglia per la democrazia e il capitalismo, a Ovest del Potomac democrazia e capitalismo venivano continuamente minati da estreme concentrazioni di ricchezza, dalla costante criminalizzazione dei poveri, da politiche inefficaci, da forze di sicurezza canaglia e da media distratti. Risvegliandosi lentamente alla luce di queste squallide realtà, molti beneficiati dall’American Century, internazionalisti liberali nonché neo-con, si avvicinavano, fino a pochissimo tempo fa, alla famosa definizione del fanatico data da Santayana: «Colui che raddoppia gli sforzi quando ha perso di vista l’obiettivo ».
I fautori della terapia dello shock, o, come li definisce Joseph Stiglitz, «i bolscevichi del mercato», sembravano ignari del fatto che le economie in via di sviluppo o post-socialiste potessero dover seguire un percorso diverso in direzione della crescita sostenibile, rispetto alle economie pienamente sviluppate. Gli ideologi frustrati erano propensi ad attribuire alle culture – russe, arabe, comunque non americane – la responsabilità del fallito impianto della democrazia e dei liberi mercati. Non li sfiorava neppure il pensiero che le culture non americane non perseguissero la missione universale di convertire tutti allo stile di vita dell’America. Non avevano capito una cosa ovvia, ossia che in gran parte del mondo non sono presenti le condizioni culturali, economiche e sociali che hanno contribuito a dar vita all’ideale americano della libertà individuale e, in seguito, a estendere le possibilità di realizzarlo a una minoranza privilegiata.
Santayana temeva che la diffusione in tutto il mondo dell’ideologia americana dell’autoespansione avrebbe «destato un’avversione più profonda» di quella suscitata dai tiranni del passato, rischiando di provocare «una colata lavica di cecità e violenza primitiva». Ma nella sua inquietante lungimiranza Santayana non poteva prevedere che i delusi e i frustrati al centro stesso della modernità americana avrebbero fatto di un molestatore e bancarottiere seriale il loro salvatore. La tesi che il buon americanismo possa scongiurare il pericolo rappresentato dai pazzi demagoghi è ormai insostenibile. Il secolo americano si è formalmente concluso il 20 gennaio 2017, nel momento in cui Donald Trump si è insediato alla casa Bianca ribadendo che «da oggi in poi sarà soltanto l’America al primo posto». L’approccio nettamente transazionale di questo deal- maker, così si definisce, che irride apertamente la Nato come obsoleta e ammira Vladimir Putin, lascia scarso spazio a qualunque genere di universalismo ideologico. Trump punta a fare l’America di nuovo grande attraverso dazi e muri. «Per ora gli Stati Uniti», ha ammesso Robert Kagan recentemente sul Financial Times, «sono fuori dal business dell’ordine mondiale ».
Non è affatto chiaro come affronteremo quello che gli orfani incompetenti, insistenti, cosmopoliti hanno creato: un grande disordine mondiale, che come risultato finale ha portato un imprevedibile provocatore, un troll di Twitter, spavaldo nei modi ma di incerta moralità, nella stanza dell’arsenale nucleare.
- Pankaj Mishra - Pubblicato su Repubblica del 16 maggio 2017 -
Questo testo è una sintesi di un articolo pubblicato sul Times Literary Supplement. Pankaj Mishra, nato in India nel 1969, è un autore che pubblica libri di successo in Gran Bretagna e negli Usa, e che è spesso presente nelle classifiche dei giornali sugli intellettuali più influenti al mondo ( Traduzione di Emilia Benghi)
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