giovedì 4 maggio 2017

piccoli borghesi

Drieu

Controverso, originalissimo, Pierre Drieu La Rochelle è tra i più importanti scrittori francesi della prima metà del Novecento. Sconvolge, nei suoi libri, la calma apparente, una lucidità disperata e raggelata, ma che dissimula un tremore, una voragine dentro la quale Drieu si è già calato. Tutti i suoi romanzi esprimono la necessità di una confessione. Così è anche in "Piccoli borghesi", forse il suo capolavoro, pure se assente dalle librerie italiane da quasi mezzo secolo e che oggi riproponiamo nella storica traduzione di Alfredo Cattabiani. In questo romanzo familiare c'è la storia della vita dell'autore e i suoi complicati rapporti con suo padre. Un padre che Drieu, come ci ricorda Alessandro Gnocchi nel l'approfondito e intelligente saggio introduttivo, odiava e temeva.

( dal risvolto di copertina di: Pierre Drieu La Rochelle: Piccoli borghesi, edizioni Theoria)

La feroce complicità di Drieu La Rochelle
- di Enzo Di Mauro -

Non c’è libro e anzi pagina del parigino di genealogia normanna Pierre Drieu La Rochelle (1893-1945) che non sia apertamente o, secondo alcuni, sfacciatamente autobiografica, quasi si trattasse di un ininterrotto diario travestito, di una lunga memoria d’oltretomba a uso della posterità – come se una sottile astuzia della coscienza, di una coscienza beninteso inquieta e autodistruttiva, si fosse messa all’opera fin da subito affinché la vita si trasformasse, passo dopo passo, atto dopo atto, scelta dopo scelta, in un mito originato dal ramo storto del Novecento e della sua storia. Sotto tale aspetto, la vicenda di Drieu appare esemplare e del tutto all’altezza di un perfetto figlio del secolo che desiderava a tal punto la rivolta, la sconfitta e il fallimento da scegliere infine con funerea voluttà la parte maledetta. Ma, più che politica o ideologica, la sua rivolta seppe essere al dunque soltanto esistenziale. Ovunque si posasse, il suo sguardo finiva per incenerire, polverizzare e ridicolizzare ogni fede e ogni speranza.

Al pari di molti giovani della sua generazione, aveva raggiunto le trincee del primo grande conflitto mondiale pensando all’avventura della guerra come a un «sogno mistico» e rigeneratore. Allo stesso modo teorizzò più tardi, nel 1934, la fola di un immaginario «socialismo fascista» (così intitolò uno dei suoi saggi, di sicuro quello maggiormente frequentato) che fosse in grado di guidare la costruzione di una nuova e grande e forte nazione europea. Ma ecco che ogni idea e ogni credenza, proprio nel mentre venivano pensate, si dissolvevano, precipitavano in un vuoto di senso. Così per le donne, per gli amori occasionali, per la bella vita, per il dandismo, per l’eleganza. Non c’era per lui elemento vitale e decisione che non fosse materia di noia, di disincanto e in specie di profondo, irrefrenabile disgusto. Niente e nessuno usciva indenne dalle forche caudine di questo sentimento, di questo impulso, di questa coazione. Per sé, fin da adolescente, aveva pronta un’uscita di sicurezza, la più radicale, la più fatale, tante volte senza successo reiterata e infine riuscita allorquando il suo mondo definitivamente crollava. Non altro era il significato autentico del celebre incipit di Racconto segreto, scritto nei mesi precedenti il suicidio e uscito postumo nel 1951: «Da ragazzo ho giurato a me stesso di restare fedele alla mia giovinezza: un giorno ho cercato di mantenere la parola».

In tutta l’opera narrativa di Drieu – da Stato civile (1921) a Fuoco fatuo (1931), da La commedia di Charleroi (1934) a Gilles (1939) – questo sentimento di ripulsa, di disgusto appunto, miracolosamente non lacera mai il tessuto linguistico che invece mantiene sempre un’andatura classica, si potrebbe dire duttile per quel portato satirico ch’essa contiene e rivolge all’ambiente sociale e ai personaggi che lo significano. La si coglie al meglio, una simile cifra, in Piccoli borghesi, un romanzo del 1937 – a comporre di fatto un dittico col successivo Gilles – che mancava dalle librerie italiane dal 1969, quando Alfredo Cattabiani lo tradusse per Longanesi, e che ora torna nella medesima e ottima versione per i tipi delle rinate Edizioni Theoria (introduzione di Alessandro Gnocchi, pp. 410, euro 18,00). Va innanzitutto osservato che nemmeno Sartre (per fare un nome non a caso) ha mai rappresentato con tanta spietata e feroce lucidità la classe sociale sulla quale, in termini di consenso, fecero leva i fascismi europei. Drieu, beninteso, quel mondo lo conosceva bene, era la sua genealogia, la semenza da cui era nato. I Ligneul, i Le Pesnel, i Rabier, don Maurois, la signorina Rozel e poi Gravier, Gustave, Rose e tutti gli altri – ovvero coloro che affollano come mosche impazzite le pagine di Rêveuse bourgeoisie – sono la farina ammuffita e immangiabile di un sacco che contiene i resti di ciò che Drieu era stato e che ora, qui, egli rigetta, avendone a suo tempo assimilato l’impotenza, l’inettitudine, la vacuità, le ambizioni sbagliate, il risentimento.

Li osserviamo alcuni di lato, all’inizio, mentre si combina l’infausto matrimonio tra Camille Le Pesnel e Agnès Ligneul, davanti alla chiesa, dopo la messa, in un piccolo centro balneare della Normandia: «Si salutavano e chiacchieravano divisi in piccoli gruppi composti sempre dalle stesse persone. Ogni gruppo a sua volta si osservava a vicenda, facendo paragoni e commenti. L’arroganza e il disprezzo si scontravano a metà strada con l’umiltà e l’invidia. Le vacanze estive servivano a mettere alla prova il rango sociale di ogni famiglia ed erano un’occasione per fare nuove conoscenze, ma nello stesso tempo creavano mille divisioni, dovute alle venti sfumature in cui si divideva la borghesia di allora». È dentro questo spazio morale, tra la Normandia e Parigi, in un arco temporale che va dai primi anni novanta dell’Ottocento e la metà degli anni venti del secolo scorso, che si consuma quella che è una caduta storica non meno che esistenziale. Ipocrisia, dissimulazione, ottusa e inerte sensualità, cinismo, vuoto patriottismo, retorica di classe: ecco di cosa si compone questo pozzo limaccioso. Tutto ne esce dolorosamente ridicolizzato, anche quel «romanticismo dell’azione» che conduce il giovane Yves a morire in trincea. Nel fondo di questa immensa fossa comune muore anche il mito della giovinezza

- Enzo Di Mauro - Pubblicato su Alias del 3 aprile 2017 -

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