venerdì 31 maggio 2019

Dialettiche

Il nome di Asperger è ormai diffuso e ampiamente utilizzato nella nostra vita quotidiana. Tuttavia nessuno si domanda mai chi fosse l'uomo dietro la diagnosi che lo ha reso celebre. Da madre costretta a farvi fronte, Edith Sheffer ha voluto scoprire le origini di quella diagnosi e, con gli strumenti della storica, ha scelto di ripercorrere la vicenda personale e professionale di Asperger nella Vienna a cavallo tra gli anni trenta e quaranta. Quanto emerso dalle testimonianze e dai documenti getta nuova luce sulla figura del medico austriaco. Mentre il regime nazista selezionava cavie per i suoi esperimenti in base a criteri razziali, politici e religiosi, bersaglio degli psichiatri erano in particolare i bambini classificati come «asociali». Tra questi, Asperger e i suoi colleghi decidevano quali vite fossero «indegne di essere vissute» e disponevano il trasferimento dei piccoli pazienti allo Spiegelgrund, la clinica teatro di uno spietato programma di eutanasia infantile. Dopo la guerra, la diagnosi di «psicopatia autistica» di Asperger cadde nell'oblio fino a quando, nel 1981, venne divulgata da una psichiatra inglese. Con stile narrativo e una solida catena di argomentazioni, l'autrice spinge il lettore a riflettere sul modo in cui le società valutano ed etichettano coloro che vengono classificati come disabili. Mettendo in prospettiva gli eventi storici, Sheffer dà nuovo impulso al dibattito e pone interrogativi non meno inquietanti delle storie che racconta: in che misura una diagnosi è il prodotto di una determinata società? Come è stato possibile che quella formulata da Asperger nel solco degli ideali nazisti di conformità e spirito comunitario abbia incontrato il favore della società individualista di fine Novecento?

(dal risvolto di copertina di: "I bambini di Asperger. La scoperta dell'autismo nella Vienna nazista", di Edith Sheffer. Marsilio)

Asperger aiutò i nazisti ma anche la psichiatria
- di Giancarlo Dimaggio -

Rivedremo Kevin Spacey recitare? Ci sarà un altro Frank Underwood, genio perverso? Difficile. Spacey, molestatore seriale, è ormai persona non gradita. Questo sminuisce il suo talento? No. Vedremo ancora Hans Asperger nelle classificazioni delle malattie mentali? Per un po’ sì, anche se è già relegato nelle note. Poi scomparirà, superato dalla scienza. Espulso con disonore?
Chi era Asperger? Psichiatra infantile, operò a Vienna sotto il nazismo. Descrisse lo «psicopatico autistico»: da lui viene l’eponimo per gli autistici ad alto funzionamento, con intelligenza preservata, a volte con aree di funzionamento eccezionale. Faticano a capire i pensieri e le emozioni degli altri, sono quindi carenti nella cosiddetta «teoria della mente». Una ricerca di Livia Colle, dell’Università di Torino, con una autorità del campo, Simon Baron-Cohen, mostra che adulti con la sindrome di Asperger non riconoscono bene le emozioni negative nelle facce. Il loro comportamento è stereotipato, ripetitivo, trascurano le relazioni sociali, mancano di reciprocità e simpatia per chi soffre, monologano più che conversare. Faticano a cambiare rotta una volta iniziato un comportamento. La psichiatria cancella Asperger: l’eponimo è sparito dal Dsm 5 (il manuale diagnostico più diffuso) ed è marginale nell’Icd 11 (la classificazione internazionale delle malattie dell’Organizzazione mondiale della sanità). Si parla ora di disturbi dello spettro autistico, problemi simili a livelli differenti di gravità e funzionamento.
Asperger è stato solo uno psicopatologo acuto, superato dal progresso? Purtroppo no. Edith Sheffer nel libro I bambini di Asperger (Marsilio) ne mostra il lato oscuro, ci accompagna nell’abisso: ha contribuito a usare diagnosi di autismo e disabilità per sostenere l’eugenetica nazista. È stato complice dell’orribile Erwin Jekelius, direttore della «Clinica di pedagogia curativa Spiegelgrund». Si intuisce che cosa vi accadesse? Riporto dal libro di Sheffer, in memoria della piccola Ulrike Mayerhofer, diagnosticata come «gravemente autistica, praticamente inaccessibile dall’esterno». Trasferita allo Spiegelgrund, venne richiesto di sopprimerla. Un mese e mezzo dopo morì, ufficialmente di polmonite. Sheffer narra di decine di bambini disabili, prima etichettati, poi mandati a morire. Asperger era lì, operava dietro le quinte, mai esplicitamente nazista, sicuramente coinvolto. Dovevo verificare. Scopro che Herwig Czech, dell’Università di Vienna, si è occupato dello stesso argomento, in contemporanea a Sheffer, sulla prestigiosa rivista «Molecolar Autism». E conferma che Asperger contribuì alla soppressione di bambini «inadeguati», devianti dall’ideale ariano. Sheffer e Czech riscrivono una pagina di storia. Che conclusioni ne traggono? Divergenti. Sheffer ha un approccio anti-diagnostico, che non condivido. Riduce le osservazioni di Asperger al contesto — oggettivamente mostruoso — nel quale le formulò. Non possiamo accettare il termine «psicopatia autistica», che implica una devianza sociale, ma la descrizione della sindrome era valida. Oggi la si considera la forma meno grave dello spettro autistico, il Dsm 5 parla di Livello 1, ovvero lieve, ma comunque bisognoso di supporto. Sheffer nega invece il valore scientifico di quelle osservazioni che, secondo lei, nate nella cultura nazista, riprendono vigore in una società votata «all’ansia di integrazione in un mondo perfezionista». Psichiatri e psicologi che trattano le persone con autismo sarebbero guidati dall’«obiettivo di inculcargli sentimenti, pensieri e interazioni con il mondo… C’è chi parla di “curare” o “guarire” i bambini». Vede un mondo volto a etichettare e di conseguenza a stigmatizzare.
Czech, al contrario, sostiene che le osservazioni scientifiche di Asperger erano valide, non contaminate dalla complicità col nazismo. La documentazione storica di Sheffer è preziosa, le sue deduzioni e conclusioni no. Intanto due autori che peraltro cita, Frankl e Weiss, ebrei, formularono le stesse osservazioni negli stessi luoghi di Asperger, prima di lui, e lo ispirarono. In modo più compassionevole, ma descrivevano gli stessi fenomeni e i loro occhi non erano offuscati dal delirio razziale. Poi, chi ha davvero creato problemi a persone affette da autismo è Bruno Bettelheim, peraltro sopravvissuto a Dachau e noto per avere maltrattato bambini. S’inventò di sana pianta che l’autismo era causato dalle «madri frigorifero». Le ricadute di questa assurdità sulle famiglie sono state tremende. Le sue teorie erano insensate, anche se le formulò un ebreo scampato all’Olocausto, perché era uno scienziato scadente.
Ridurre le scienze della mente al contesto storico è rischioso. Così come lo è considerare le diagnosi formulate da psichiatri e psicologi come figlie di una cultura che schiaccia l’individuo verso una supposta norma. Sheffer, lo riconosco, segnala alcuni problemi reali: la diagnosi può essere usata per dare più medicine o diventare uno strumento al servizio dello stigma. Chi fa il mio lavoro può adottare una posizione paternalistica e trincerarsi dietro etichette per risparmiarsi la fatica di capire, empatizzare e curare: «È psicotico, autistico, non perdiamo tempo, un po’ di farmaci e via». È un fatto, come nota Sheffer, che la diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività abbia portato all’aumento ingiustificato di prescrizioni di Ritalin. Ma dare nomi alle malattie è inevitabile. La mente umana funziona classificando: si legga Kant e l’ornitorinco di Umberto Eco. Raggruppare concetti, oggetti, uomini in categorie è necessario per trasmettere conoscenza. Con la diagnosi identifichiamo fenomeni ricorrenti e così passiamo il sapere acquisito alle generazioni future. Poi, il terapeuta saggio conosce categorie, ma cura individui. Questo facciamo, e oggi usiamo la formula: «persona affetta da… autismo, schizofrenia» e non più «autistico» o «schizofrenico».
Temple Grandin è la protagonista del libro di Oliver Sacks Un antropologo su Marte. Affetta da autismo ad alto funzionamento, ha inventato la macchina degli abbracci che calmava le mucche che allevava. Intervistata, non ha problemi a riconoscere di essere affetta da autismo. Ci tiene solo a essere considerata prima allevatrice di bestiame e poi affetta da autismo. La diagnosi non le ha peggiorato la vita. Rivedremo House of Cards sapendo che Spacey ha compiuto azioni esecrabili, ma resta un attore ineguagliabile. Leggeremo gli scritti di Asperger sapendo che osservazioni più accurate hanno superato le sue, e che lui ha anche agito servendo il male. Psichiatri e psicologi potranno sbagliare, ma in gran parte faranno diagnosi per capire. Al fine di curare meglio.

- Giancarlo Dimaggio - Pubblicato su La Lettura del 7/10/2018 -

giovedì 30 maggio 2019

Opposizione partecipativa

«L’oscurità divide. Qualcuno è spaventato dal buio – o comunque preferisce evitarlo – e a molti non piace quello che sembra rappresentare. Altri si lasciano ammaliare dal suo strano potere, “dall’ilarità delle tenebre”, crogiolandosi nella sua incertezza, adescati dalle varie suggestioni del folklore e delle leggende, dal richiamo del mistero e da possibilità sconosciute. La storia dei diversi atteggiamenti verso ciò che non riusciamo a capire completamente, in tutte le sue manifestazioni sia fisiche che metaforiche, è influenzata dal contesto geografico e culturale e mette in continua discussione la pretesa di poter comprendere pienamente la realtà che ci circonda. L’oscurità esisteva prima di noi ed esiste indipendentemente dalla nostra volontà, ma gioca in molti modi un ruolo nelle nostre vite. Eppure il linguaggio dell’oscurità e della luce è così familiare nel nostro modo di esprimerci che è facile sottovalutarne l’importanza. Al giorno d’oggi siamo talmente abituati ad associare la luce con la gioia e la comprensione che abbiamo dimenticato quanto ognuno di noi faccia affidamento sull’oscurità, quella pacifica e a volte rassicurante sensazione che è allo stesso tempo una delle consapevolezze più elevate e di una sublime bellezza. L’oscurità nutre l’immaginazione.»
Da sempre l’oscurità nutre la nostra immaginazione: che sia un concetto sfuggente o una reale presenza fisica, il suo significato è profondamente stratificato. In questo libro illustrato, Nina Edwards indaga il complesso rapporto tra l’uomo e l’oscurità, prendendo in considerazione diversi periodi storici e molteplici aspetti della questione – fisici e metaforici, culturali e letterari –, e restituendo un’inedita storia del mondo, enigmaticamente pervaso dalle tenebre: nell’arte, nella poesia, nella religione, nella moda e in ogni aspetto del quotidiano.

(dal risvolto di copertina di:  Nina Edwards, "Storia del buio", pagine: 394, € 27,00. Il Saggiatore)

Ogni tenebra ha il suo cuore e dentro (spesso) c’è una luce
- Dal nero assoluto alla penombra, perché l’oscurità affascina arte, poesia, religione, moda -
di Gianfranco Marrone

E la luce fu… Sì certo, perché prima era solo il buio. Constatazione ovvia, ma non banale. Non foss’altro che non ci si riflette quasi mai: se la luce ha una sua origine, qual è invece quella del buio? quando è nato? da dove? e perché? Oppure è sempre esistito? Per non parlare del seguito, di quelle che, senza infingimenti o false retoriche, potremmo chiamare le sue gesta: azioni e passioni d’ogni tipo e natura.
Anche il buio ha difatti una luna lunga storia, tanto immaginaria quanto solida, che coinvolge dalla notte dei tempi (è il caso di dirlo) uomini e cose, esperienze individuali e sogni collettivi, società e culture. Ce lo ricorda adesso Nina Edwards, attrice e scrittrice inglese, sapientemente inanellando aneddoti e riflessioni, mitologie e leggende, spigolature e incubi, teorie scientifiche e narrazioni letterarie, note filosofiche e deliri ancestrali. E bene ha fatto la casa editrice Il Saggiatore a tradurre prontamente questa ricca "Storia del buio", uscita lo scorso anno nel Regno Unito, confezionando peraltro il volume con una fattura tanto elegante quanto suggestiva (copertina nera tono su tono, accarezzabile con timore e tremore), come a suggerire già dalla grafica l'inevitabile, ambigua inquietudine suscitata dall'argomento.
Il buio è tutto e il suo contrario, non solo perché a detta di fisici e poeti contiene la luce al suo interno (opposizione partecipativa, in termini linguistici), ma anche perché dà luogo a sentimenti variegati quando non opposti, affascina e spaventa, respinge e attrae, avvolge e separa, facendosi indiretta allegoria di una basilare incomprensione dell'animale uomo nei confronti di sé stesso e del mondo. Se la luce è, per quasi universale trasposizione metaforica, razionalità e intendimento, conoscenza chiara e distinta del mondo, nel buio pascolano invece le vacche nere hegeliane, simbolo di un'indistinzione e d'una con fusione che, priva di altri appigli, cerca disperatamente di proporsi come condizione originaria. Solo per chi cade e ci crede. L'oscurità insomma, nota Edwards, divide fortemente il suo pubblico, forzatamente cieco ma spasimante di una specie di luce oltre le tenebre, d'una verità oltre la verità, oppure furiosamente apostolo di un illuminismo che, pur liberando le masse dalle catene dell'ignoranza, non sente altre ragioni che sé stesso.
Ma la questione, col buio, non è soltanto metafisica o, a essere scientisti, cognitiva. Poiché coinvolge anche il corpo e la sensorialità, la percezione e il suo doppio: l'oscurità è gelida, agghiacciante e perciò indolore, tristemente insapore, orridamente silenziosa: supera il senso della vista per coinvolgere sinesteticamente l'intera corporeità di individui e folle, coppie clandestine che s'appartano nella notte speranzose d'amore e composite trinità che forse lo tollerano loro malgrado. Chiudere gli occhi: per quale motivo? Desiderio di concentrazione ulteriore? licenziamento del mondo esterno? desiderio di un altrove inaccessibile? stupido tentativo per non farsi scoprire? sonno? Le tenebre, si sa, hanno un loro cuore: ma fanno solo orrore? Il corpo al buio è forse solo con sé stesso: ma da soli, dice il saggio, siamo già in troppi. Se i nostri organi sensoriali ci forniscono una finestra sul mondo, per far funzionare questi famigerati cinque sensi occorre che i riflettori siano già stati accesi, l'oscurità dev'essere già stata abolita, il sole deve stare già lì: e qualcuno, si presume, deve avercelo messo. Da qui il valore affabulatorio del buio, le mille e mille leggende che esso racconta di sé o che si narrano di lui, e che, tutte, vanno a formare la sua Storia generale. Che è fatta, insiste Edwards, di luci e di ombre.
Per metterla sul pop, c'è per esempio il tema della moda, a cui è dedicato un capitolo del libro, del colore nero che fa lutto (solo da noi) ma pura eleganza, tradizione e noia, sobrietà puritana oppure spiccata sensualità. Cinesi e giapponesi, anticamente, usavano laccare di nero i denti per conservarne intatto lo smalto e per abbellirli di più. Analogamente nell'Europa ottocentesca la classe agiata faceva sfoggio della propria ricchezza con quella che è stata chiamata la Grande Rinuncia al Colore negli abiti: i capitalisti vestivano rigorosamente di nero, tutti uguali e ognuno per sé. Cosa che ha investi anche il simbolo stesso dell'industrializzazione, l'automobile, che a detta di Ford, doveva essere democraticamente a portata di tutti a patti di esser nera.
Ecco, per metterla piuttosto sul politico, il libro ricostruisce le ragioni, infantili e insulse, della paura diffusa dell'Uomo Nero, proponendosi un buon antidoto d'ogni risorgente forma di razzismo. La storia del buio è comunque magistra vitae: e ha ottimi motivi per contrapporsi a quella della luce - le cui vicende non sono di fatto meno ambigue.

- Gianfranco Marrone - Pubblicato su Tuttolibri del 25/5/2019 -

mercoledì 29 maggio 2019

Cinema Statico!!!

Che cosa ha significato il fotoromanzo per la cultura italiana? Cosa ne ha determinato l‘impressionante successo nel corso degli anni Cinquanta? Superando l’idea di un prodotto subculturale in cui si narrano solo banali storie d’amore a lieto fine, Silvana Turzio ripercorre l’evoluzione di questo genere, di fama ambivalente, indagandone i rapporti con il cinema e la letteratura “popolare” (dal rosa al giallo), ma non solo. Scopriamo infine che il fotoromanzo è stato un genere anche politico e di controinformazione. Arricchito da un prezioso apparato fotografico, questo viaggio nelle “storie lacrimevoli” è la più completa ricostruzione di un genere, fondamentale per portare uno sguardo più contemporaneo sulla cultura visiva popolare.

(dal risvolto di copertina di: "Il fotoromanzo. Metamorfosi delle storie lacrimevoli", di Silvana Turzio. Meltemi)

Votoromanzo, quando Dc e Pci furono sedotti dal cinema statico
- di Mirella Serri  -

Vitina stretta e gonna a palloncino, lei assomiglia ad Ava Gardner e lui che la stringe tra le braccia nerborute è un incrocio tra Rock Hudson e Gregory Peck. Sono i protagonisti del fotoromanzo Più forte del destino e le loro immagini ricalcano quelle dei divi del cinema hollywoodiano. Però Sandra e Giorgio sono operai di Bologna, roccaforte del Partito comunista negli anni Cinquanta. Vogliono sposarsi ma incontrano tanti ostacoli. Come mai? Sandra ha firmato un contratto capestro (se in attesa di un figlio può essere licenziata), non riescono a trovare un'abitazione e, mentre Giorgio è in prigione per aver scioperato, viene molestata da un ricco e cinico capitalista. Però un compagno li esorta a votare per il partito di Togliatti che garantisce asili, assistenza e la «costruzione da parte del Comune di 2.000 appartamenti dove c'è una lavatrice elettrica». Questo fotoromanzo, pubblicato prima a disegni e poi con le fotografie, appare alla vigilia delle elezioni del 1956 e del 1958. Chi è l'editore di "Più forte del destino"? Il Partito comunista. E lo è proprio nell'anno in cui i massimi dirigenti del Pci si scagliano contro il romanzo per immagini, lanciato in Italia con gran successo da Cesare Zavattini e dal regista Damiano Damiani.
A raccontarci adesso, la singolare e fino ad oggi sconosciuta storia del fotoromanzo politico italiano, e a rivalutarlo non solo perché ha avvicinato milioni di donne alla letteratura, ma anche come strumento per veicolare contenuti politici e culturali, è la saggista Silvana Turzio nel volume "Il fotoromanzo. Metamorfosi delle storie lacrimevoli" (Meltemi editore, pp.230, €20). Nel divertente excursus dal dopoguerra a oggi (il racconto illustrato va ancora forte e vende circa 250 mila copie settimanali), la studiosa fa emergere le contraddizioni dei grandi partiti, dal Pci alla Dc, di fronte a "Bolero film", "Grand Hotel" e testate affini: dette anche «cinema statico», per la loro straordinaria diffusione - circa un milione e mezzo di copie a settimana fino agli anni Sessanta - queste pubblicazioni furono considerati i più potenti veicoli della sottocultura americana e una fucina di sogni e illusioni sbagliate per i più poveri. Però poi le maggiori organizzazioni politiche affidavano pubblicità e propaganda al genere così deleterio. Da dove nasceva questo odio-amore?
«Vade retro!»: era il comunista Giancarlo Pajetta a pronunciare l'anatema contro il fotoromanzo «subdolo e potente strumento di corruzione». Palmiro Togliatti predicava il rifiuto dei rotocalchi femminili, ed Enrico Berlinguer lamentava che le ragazze leggessero "Bolero film" a scapito di altri più importanti testi letterari. Anche i democristiani si applicarono alla disamina del diabolico prodotto: nel 1951 la Dc propose l'istituzione di una commissione parlamentare di Vigilanza e Controllo della stampa per limitare le nefaste pubblicazioni.
A remare controcorrente e a capire, invece, per prime l'importanza di quel singolare fumetto furono le donne comuniste: dopo l'apparizione di "Bolero film", edito da Mondadori, la rivista del Pci "Noi Donne" uscì con la storia per immagini di "Pamela" per esaltare l'emancipazione femminile alla vigilia delle elezioni dell'aprile 1948, e in solo mese passò dalla 40.000 alle 165.000 copie. Anche "Famiglia cristiana" aveva subodorato che signore e signorine erano un terreno fertile: così raccontò con i fotoromanzi le vite di Maria Goretti, di Giovanna d'Arco e di tante altre martiri. Le protagoniste, anche se si trattava di sante, di suore o di pie donne, esibivano corpi eleganti e sinuosi da star d'oltreoceano.
Le contraddizioni della politica nei confronti del «cinema statico» non si arrestarono nemmeno per il '68: i giovani radicali lo denigrarono come veicolo di riti e miti borghesi e dell'idea tradizionale di famiglia. Dettero vita però a fotoromanzi icone della sinistra come Jean-Luc Godard e Alan Sekula. A Torino, culla dei movimenti operai e studenteschi, si realizzarono storie con immagini che avevano come tema la «lotta per la casa» e la rivista satirica "Il Male" trasformò in interpreti di storie patetiche i rivoluzionari, come Franco Piperno, esponente di spicco di Potere Operaio. "Lucciola", pubblicazione delle prostitute di Pordenone, ebbe come inserto con fotografie "Part-time", dove le belle di giorno descrivevano gli incontri con i clienti, mentre Achille Bonito Oliva interpretò "Cosa bolle in pentola", sottotitolo "Cosa sa fare una moglie quando il marito preferisce una trans", ed il testo era redatto dalla futura parlamentare Tiziana Maiolo.
La controcultura artistica e giovanile si dimostrò insomma consapevole, come del resto sindacato e partiti, che per far attecchire l'amore per l'innovazione e per la cultura era necessario far breccia nel cuore delle donne, grandi lettrici e appassionate fruitrici di fotoromanzi.

- Mirella Serri  - Pubblicato sulla Stampa del 25 maggio 2019 -

martedì 28 maggio 2019

Leggere!

Liberare il lavoro, o liberarsi dal lavoro?
- Simone Weil lettrice di Marx -
di Franck Fischbach

Nel suo libro scritto nel 1934, le "Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale", Simone Weil redige un primo capitolo che intitola «Critica del marxismo». Mi propongo qui di esaminare quel capitolo, al fine di determinare la natura e la portata delle critiche che Weil rivolge al «marxismo». Ma indubbiamente bisogna aggiungere immediatamente che la prima questione che qui si pone, alla lettura di questo capitolo e di tutto il libro stesso, è quella di sapere e determinare a chi sia rivolta la critica, o piuttosto le critiche formulate da Weil: se ci si attiene al titolo del capitolo, appare evidente che l'oggetto della critica sia il «marxismo», ma, leggendo il testo, si constata che nessun «marxista», nessuna corrente del «marxismo», né  - come direbbe Ètienne Balibar - alcuno "dei" marxismi viene mai citato, e che alla fine le critiche di Weil sono tutte rivolte a Marx in persona. Da parte di Weil, questo può significare una pura e semplice assimilazione di Marx al (ai) marxismo(i): pertanto fa uso dell'espressione «Marx e i suoi seguaci», senza fare alcuna distinzione fra gli stessi «seguaci», e, soprattutto, inscrivendo tali «seguaci» in diretta continuità con Marx, sulla base di una qualche sorta di principio secondo cui essi sono tutti dei fedeli discepoli del maestro, ed hanno proseguito l'opera teorica e pratica sulla base dei principi di Marx stesso. Insomma, in breve, sembrerebbe che, per Weil, Marx ed il marxismo siano una sola ed unica cosa. Non la rimprovereremo qui per questo, considerando che questo gesto di assimilazione del marxismo allo stesso Marx è perfettamente comprensibile, essendo la Weil un'autrice che scrive nel 1934. Ciò detto, è proprio a partire da questi anni che comincia a diventare possibile non assimilare più immediatamente Marx ed il marxismo, e questo soprattutto proprio grazie alla pubblicazione nel 1932 dei "Manoscritti del 1844" e de "L'ideologia tedesca" - due testi che Simone Weil perciò aveva potuto conoscere quando aveva scritto le sue "riflessioni".
Ad ogni modo, comunque, Simone Weil sviluppa nelle sue "Riflessioni" una critica del marxismo e di Marx le cui grandi linee sono le seguenti. Essenzialmente, lei vede in Marx un pensatore della produzione che avrebbe messo al centro del propria comprensione storica quello che era lo sviluppo delle forze produttive. Ciò avrebbe portato Marx a far dipendere l'emancipazione umana dallo sviluppo stesso delle forze produttive della società: secondo Weil, Marx avrebbe pensato che «ogni progresso delle forze produttive fa avanzare l'umanità sulla strada della liberazione» (R, p.19). Secondo lei, si tratta di una mera "fede", nella misura in cui non vede in Marx alcuna «dimostrazione del fatto che le forze produttive siano suscettibili di uno sviluppo illimitato» (ivi, p.20). A questo si aggiunge che, anche ammettendo che un un simile sviluppo delle forze produttive sia possibile, non c'è niente che garantisca che questo sia un progresso in sé, e che metta l'umanità sulla strada della sua emancipazione. Se il primo di questi due punti indica un'opinione, il secondo viene visto da Weil come un vero e proprio atto di fede che ha fatto nascere una forma moderna di religione: scrive quindi che «la crescita della grande industria ha reso le forze produttive la divinità di una sorta di religione, della quale Marx ha subito suo malgrado l'effetto quando ha elaborato la propria concezione della storia» (ivi, p.21). E dal momento che Marx ha subìto «suo malgrado» l'influsso di questa nuova religione - della quale dobbiamo purtroppo constatare che non è altro che la religione borghese del progresso - in tal misura egli ha fatto quanto meno parte, secondo Weil, di coloro che hanno attivamente partecipato alla sua diffusione, rafforzandone l'effetto: la fede di Marx nel progresso tecnico della grande industria lo avrebbe in effetti portato a prospettare una forma automatica di industria che potrebbe arrivare a rimpiazzare il lavoro umano. Ed è questo il senso che avrebbe il tema, che troviamo in Marx, di una «soppressione» o di una «abolizione del lavoro». Ma, nota Simone Weil, «è unicamente l'ebbrezza prodotta dalla rapidità del progresso tecnico che ha fatto nascere la folle idea che il lavoro umano potrebbe un giorno diventare superfluo» (ivi, p.37). Se seguiamo Weil, Marx avrebbe creduto, sostanzialmente, che sarebbe stato sufficiente lasciare libero corso allo sviluppo senza precedenti delle forze produttive sotto il capitalismo, per far sì che un bel giorno che un tale sviluppo abolisse da sé solo la necessità del lavoro umano e facesse transitare l'umanità dal regno della necessità all'impero della libertà. Insomma, secondo Weil, Marx avrebbe condiviso «la convinzione utopica secondo la quale, attraverso un semplice decreto, il sistema di produzione attuale avrebbe potuto essere messo al servizio di una società di uomini liberi e uguali» (ivi, p.38).
A mio avviso, questa critica di Marx svolta da Weil è interessante e andrebbe presa molto sul serio. Si tratta di una critica attinente, che tuttavia sbaglia indubbiamente bersaglio. È incontestabilmente attinente a quello che può essere chiamato «marxismo tradizionale», e che costituisce l'ambito in cui scrive Weil, e, da questo punto di vista, le critica svolta da Weil mi sembra molto efficace. Ma penso che la critica non riguardi Marx personalmente. E l'interesse maggiore della critica di Weil sta proprio nel fatto che ci permette di distinguere fra Marx in persona ed il marxismo tradizionale. Cercherò qui di chiarire meglio questa distinzione.
Weil attribuisce a Marx una critica del capitalismo che verrebbe svolta dal punto di vista del lavoro, nel senso che il capitalismo svilupperebbe le forze produttive del lavoro in maniera tale da non avere alcun precedente storico, ma allo stesso tempo anche in modo che tale sviluppo non andrebbe a beneficio di coloro che lavorano, bensì piuttosto a loro detrimento, imponendo ad essi delle forme di dominio senza precedenti. L'idea sarebbe dunque quella che il lavoro umano, che in quanto lavoro produttivo assicura il metabolismo uomo/natura, costituirebbe una costante storica, ed ogni società si baserebbe sul lavoro inteso in tal modo; il capitalismo non avrebbe fatto altro che accelerare lo sviluppo delle forze produttive, ma sottomettendo del tutto i lavoratori a quello che è un sistema di costrizione e di dominio; la soluzione consisterebbe in uno sviluppo ulteriormente accresciuto delle forze produttive, e quindi in una liberazione del lavoro tale che finirebbe per liberare gli uomini dal lavoro stesso, affidando alle macchine i compiti produttivi e lasciando agli uomini solo il controllo di tali macchine. Tutto ciò implica più cose: innanzitutto il fatto che l'approccio critico nei confronti di ciò che, nell'esistente sistema attuale, impedisce oppure ostacola la sua propria evoluzione verso un sistema superiore, e quindi, in secondo luogo, il fatto che il sistema post-capitalista (che lo si chiami socialista o comunista, è un altro problema) possa essere generato solo a partire dal sistema attuale così com'è, vale a dire, lasciando che la logica interna si sviluppi a partire dalle basi attuali. Quali siano le idee abbastanza comuni e diffuse nel marxismo tradizionale è certo ed assodato; ma quali siano le idee di Marx in persona è tutta un'altra cosa. Vorrei innanzitutto porre l'idea, eccellentemente formulata da Moishe Postone, secondo la quale la peculiarità della critica di Marx è di non essere una critica che viene svolta a partire e sulla base di ciò che esiste, ma piuttosto una critica di ciò che esiste svolta sulla base e a partire da ciò che "potrebbe" essere - questa è una formula di Postone che bisognerebbe ulteriormente approfondire, dicendo che si tratta, in Marx, di una critica di ciò che è svolta sulla base di ciò che - all'interno di ciò che esiste - "nega" ciò che è. [*1] Ciò implica che la società post-capitalista può nascere solamente da una rottura completa e radicale con la società attuale, e non dallo sviluppo di potenzialità delle quali essa sarebbe già positivamente portatrice. Se si torna alla questione del lavoro, ciò può voler dire quanto segue: Marx non ha detto che ogni società umana si basa sul lavoro, e che questo fondamento trans-storico diverrebbe evidente con il capitalismo e che alla fine si tratterebbe di liberare il lavoro. Piuttosto, Marx ha detto che la società capitalista è la "sola" che sia interamente fondata sul lavoro, e che superare il capitalismo significa passare ad una società liberata dal lavoro, vale a dire non ad una società nella quale non si lavori più, ma ad una società in cui il lavoro non sarebbe più l'unico e solo fondamento dei rapporti sociali. Nel primo caso, di cui Weil fa, a mio avviso a torto, di Marx un rappresentante, si pensa in sostanza che il lavoro raggiunge, o raggiungerà, nel capitalismo il suo punto di sviluppo supremo, e che il passaggio al post-capitalismo avverrà sopprimendo quelli che sono gli ostacoli, come il mercato e la proprietà privata, che il capitalismo oppone in maniera contraddittoria allo sviluppo completo di ciò stesso che è tuttavia il suo principio, ossia il lavoro. Questo equivale a dire che il post-capitalismo è il completamento ed il compimento, vale a dire nei fatti, la "realizzazione" del capitalismo. Ora, a me sembra che Marx abbia pensato che doveva esserne non la realizzazione, bensì, al contrario, la "negazione".

Il lavoro nei Manoscritti del 1844 - Una critica sociale svolta dal punto di vista del lavoro
Il problema. evidentemente, è che un certo numero dei testi di Marx vanno nel senso di liberare il lavoro, e non in quella di liberarsi dal lavoro. Questo è soprattutto il caso dei Manoscritti del 1844. Se c'è un testo di Marx in cui viene svolta in qualche sorta una critica del capitalismo in nome del lavoro, ponendosi dal punto di vista del lavoro, questi sono senz'altro, di fatto, i Manoscritti del 1844. Il punto di partenza, è la comprensione, da parte di Marx, di quest'epoca di lavoro, vista come espressione essenziale della vita umana generica. «La vita produttiva è la vita generica» [*2], scrive Marx, e specifica che il carattere proprio di una specie, vale a dire il suo carattere generico, si basa interamente nella forma del«l'attività vitale» propria di questa specie; ora, nel caso degli uomini, la loro attività vitale propria risiede precisamente nel lavoro, vale a dire nell'attività consapevole e volontaria attraverso la quale essi stessi producono le condizioni per perpetuare la loro propria vita. La vita propriamente umana, scrive Marx, è «la vita che genera la vita» [*3], vale a dire che essa è l'attività produttiva attraverso la quale vengono generate le condizioni della loro propria vita. E questa attività produttiva, negli uomini è cosciente: gli uomini non "sono" solamente la loro attività generica, come le altre specie, gli uomini "sono" la loro attività vitale generica, vale a dire che essi l'assumono come oggetto e ne hanno coscienza: quindi producono consapevolmente e volontariamente le condizioni della loro propria vita, assumendo la loro propria attività come oggetto della coscienza, ed essi producono quindi oggettivamente un mondo che non è altro che l'oggettivazione della coscienza che hanno di sé stesso. «La creazione pratica di un mondo oggettivo, la trasformazione della natura inorganica sono», scrive Marx, «l'attestato che l'uomo è un essere generico cosciente» [*4]. Stabilendo, quindi, in questo modo, un legame essenziale che più che di appartenenza, è di identificazione tra il lavoro e l'essere generico dell'uomo, Marx formula allo stesso tempo il punto di vista che assumerà nel proseguimento del suo testo, e a partire dal quale potrà sottomettere il dispositivo sociale alla critica, a cominciare dalla proprietà privata, tutto ciò che ha avuto come effetto quello di impedire lo sviluppo, o di saccheggiare una parte degli uomini, di questa attività vitale umana che è l'attività della produzione, vale a dire il lavoro. Ora, l'alienazione del lavoro consiste proprio in un tale saccheggio: degli uomini vengono spossessati non solo del prodotto del loro lavoro ma anche del godimento stesso della loro propria attività umana generica. Si tratta perciò di abolire le condizioni che impediscono, limitano e restringono indebitamente il godimento sia di questa attività generica di produzione e dei prodotti che essa genera,  cosa che deve avvenire essenzialmente attraverso la soppressione della proprietà privata e l'abolizione dei rapporti di mercato. Questo permetterebbe di liberare l'attività umana generica, liberazione che punta anche alla probabile abolizione delle attuali divisioni fra lavoro da un lato, e tempo libero dall'altro, oppure anche fra lavoro manuale e lavoro intellettuale: un'attività umana liberata sarà un'attività completa, totale, multiforme o poliforme, e non più suddivisa, frammentata ed unilaterale. Quando si passa dai "Manoscritti del 44" a "L'Ideologia tedesca", non si può non constatare un profonda trasformazione che porta incontestabilmente acqua al mulino di coloro che hanno voluto vedere in questi due testi molto più che un cambiamento, vale a dire una vera e propria rottura o una «cesura». Se ci si attiene al solo tema del lavoro, la cesura appare essere un po' più evidente e difficilmente contestabile: si passa in maniera manifesta da una critica sociale che, nei Manoscritti, viene fatta dal punto di vista del lavoro e "in nome del lavoro", ad una critica del lavoro in sé nell'Ideologia tedesca,e, più precisamente , ad una critica del lavoro che viene formulata nei termini quanto meno radicali dell'«abolizione» o della «soppressione» del lavoro.


Il Lavoro ne L'Ideologia Tedesca: verso l'Abolizione del Lavoro
«I proletari, invece, per affermarsi in quanto individui, devono abolire la loro propria condizione di esistenza quale è stata fino ad oggi, che è allo stesso tempo la condizione di esistenza di ogni società fino ad oggi, voglio dire, abolire il lavoro.» [*5] Quello che Marx dice qui a proposito dei «proletari» viene detto in contrapposizione ai «servi»: per i servi, non si tratta di abolire le loro condizioni, bensì di sviluppare le loro potenzialità e soprattutto, come dice Marx,  di «far valere liberamente le loro condizioni di esistenza già in atto» [*6], vale a dire ottenere il riconoscimento della loro qualità di lavoratore, in modo che un tale sviluppo possa condurli al «lavoro libero», vale a dire precisamente a quella che è la condizione stessa degli attuali proletari. Per contro, questi ultimi non hanno più delle «condizioni di esistenza» che essi possano ancora «sviluppare»: il loro lavoro «libero» significa proprio che non si trovano più in rapporto con nessuna delle condizioni che siano ancora loro, ed al contrario sono separati da ogni condizione del loro proprio sviluppo. Questo perché questi proletari attuali non possono più avere secondo Marx altro obiettivo se non quello dell'abolizione del lavoro in sé. Resta ovviamente da determinare cosa Marx intenda qui esattamente per «abolizione del lavoro».
Ne L'Ideologia tedesca, il quadro della società capitalista assume la seguente forma: si tratta di una società che produce degli individui isolati gli uni dagli altri, e che li pone in concorrenza gli uni con gli altri, sebbene ogni spazio di mediazione fra questi individui isolati prenda la forma di una mediazione esterna rispetto ad essi, che viene loro imposta, che essi non scelgono, in breve, assume la forma di una mediazione che è allo stesso tempo oggettiva e necessaria, quasi naturale. Per esempio, l'appartenenza degli individui ad una classe, a differenza di quella che è la loro appartenenza ad un ordine di quello che era l'ancien régime, assume questa forma di un legame esterno che viene loro imposto dalla necessità: scrive Marx, «La classe diventa a sua volta indipendente rispetto agli individui, in modo che questi ultimi trovano le loro condizioni di vita già stabilite, ricevono dalla propria classe, già programmata, quella che è la loro posizione nella vita [...]; sono subordinati alla loro classe.» [*7]. L'appartenenza ad una classe è una necessità che si impone a degli individui la cui condizione primordiale è quella dell'isolamento e della reciproca concorrenza; è per necessità che questi individui si subordinano ad una classe che è per loro una struttura esterna, costrittiva, imposta e non scelta: «Gli individui isolati formano una classe solo in quanto devono condurre una lotta comune contro un'altra classe; per il resto, continuano ad essere nemici nella concorrenza.» [*8]. La stessa cosa avviene per quanto riguarda un'altra forma di mediazione sociale, quella della divisione del lavoro: lì, con la forza costrittiva e insieme all'esteriorità di una condizione naturale, viene imposta agli individui anche la mediazione sociale. Appena subito dopo aver parlato della subordinazione degli individui alla classe, Marx scrive che «si tratta del medesimo fenomeno della subordinazione degli individui isolati per mezzo della divisione del lavoro», ed aggiunge che «tale fenomeno non può essere soppresso se non sopprimendo la proprietà privata ed il lavoro stesso». Ora, è proprio questo legame tra la soppressione della proprietà privata e la soppressione del lavoro che costituisce la novità de L'Ideologia tedesca: d'ora in poi, la soppressione della proprietà privata diventa la condizione di una liberazione del lavoro, di una realizzazione del lavoro, e non della sua soppressione e della sua negazione.
Forse, possiamo riuscire a chiarire quest'idea di una soppressione del lavoro, se la esaminiamo in quello che è il suo legame con la divisione del lavoro. Il punto di partenza, nella situazione propriamente moderna, è, come abbiamo visto, l'esistenza di individui isolati e concorrenti gli uni con gli altri: questo isolamento e questo rapporto di concorrenza fa sì che gli individui non abbiano alcun controllo sui processi attraverso i quali essi esistono, non solo come individui isolati, ma anche ed allo stesso tempo in quanto individui socializzati. È questa la ragione per cui la loro socializzazione, vale a dire la mediazione sociale, è un processo che rimane esterno rispetto ad essi e che si impone su di loro per mezzo di una forza necessitante che lo rende una costrizione naturale oggettiva. Ora, la più importante forma che è stata assunta fino ad oggi dalla mediazione sociale in ogni società divisa in classi, e ancor di più in una società (moderna) in cui le classe stesse non sono altro che una somma ed un'aggregazione estranea di individui isolati, è stata quella della divisione del lavoro. La divisione del lavoro è la forma assunta dalla mediazione sociale in ogni società esistita fino ad oggi, nella misura in cui ogni società finora esistita è stata una società divisa in classi: questo perché, scrive Marx, tutte le rivoluzioni precedenti si sono accontentare di modificare la distribuzione del lavoro, e quindi di modificare la forma della divisione del lavoro tra le classi, ma non hanno mai cercato in alcun modo di abolire la divisione del lavoro in sé, vale a dire l'abolizione della "forma" stessa assunta fino a quel momento dall'attività sociale, vale a dire dal lavoro. Scrive Marx: «La rivoluzione comunista si orienta contro il tipo di attività che ha prevalso fino a quel momento, sopprime il lavoro [die Arbeit beseitgit] ed abolisce [aufhebt] il dominio di ogni classe nello stesso momento in cui abolisce le classi stesse in sé, dal momento che questo viene attuato dalla classe che nella società non vale più come se fosse una classe, che non viene più riconosciuta in quanto classe, e che in seno alla società attuale è già l’espressione del dissolvimento di tutte le classi, nazionalità, ecc.» [*9]. Quindi non si tratta più di una ristrutturazione della divisione del lavoro, di una semplice modifica della sua forma, ma della sua abolizione pura e semplice. Il che vuol dire che bisogna far sì che la divisione del lavoro non sia più la forma della divisione sociale, ovvero vuol dire che la mediazione sociale fra gli individui non deve più essere realizzata per mezzo della divisione del lavoro. Orbene questo, ci dice Marx, implica che il lavoro in sé dev'essere «soppresso», ossia che venga «abolito». Non si può quindi abolire la "forma" della mediazione sociale della divisione del lavoro senza che debba essere abolita anche il "contenuto" di tale mediazione, vale a dire il lavoro in sé. Ma che cosa può voler dire tutto questo?  
Insistiamo innanzitutto sul legame fra la forma della mediazione sociale ed il contenuto di questa mediazione: nei termini di Marx, si tratta della relazione tra, da una parte (dal lato del contenuto), il «modo di produzione», vale a dire la maniera concreta e materiale in cui gli uomini lavorano e producono, e dall'altra parte, «la forma delle relazioni umane che sono legate a questo modo di produzione» [*10]. E Marx pone che, fino a quel momento, questa forma assunta da quelle che sono le relazioni fra gli uomini è stata una forma necessaria, nel senso che si è trattato di una forma imposta e non scelta, e quindi nel senso di una forma che si presentava come una forma naturale. Scrive Marx: «La dipendenza universale, questa forma spontanea della cooperazione degli individui su piano storico universale, è trasformata da questa rivoluzione comunista nel controllo e nel dominio cosciente di queste forze le quali, prodotte dal reciproco agire degli uomini, finora si sono imposte ad essi e li hanno dominati come forze assolutamente estranee.» [*11]. In questo passaggio, Marx ci dice essenzialmente due cose. Innanzitutto, che la rivoluzione comunista è una trasformazione radicale della "forma" della mediazione sociale, ovvero della forma delle relazioni umane: questa rivoluzione deve far sì che si passi dalla forma della «dipendenza universale» alla forma del «controllo» e del «dominio cosciente». Ma, in seguito, Marx qui ci dice anche che la forma non voluta e non controllata dei rapporti sociali, che ha prevalso finora, ha allo stesso tempo generato delle potenze che hanno dominato gli uomini. Queste «potenze»sono ad esempio quelle del mercato, della divisione del lavoro, oppure, ancora, quella della proprietà. Ma ciò che dev'essere qui osservato, è che queste potenze dominatrici, che appaiono come se fossero estranee agli uomini, secondo Marx sono state create dalle forme dei rapporti sociali, attraverso quelle che sono le relazioni umane dal momento che questa forma finora è stata una forma non controllata ed incosciente. Ciò è interessante, in quanto implica che l'elemento fondatore del dominio sociale cada dal lato della "forma della mediazione sociale, e non dal lato delle forze produttive, contrariamente a quella che è la tesi che Simone Weil, e insieme a lei molti altri attribuiscono a Marx. Pertanto, vediamo chiaramente leggendo L'Ideologia tedesca come, secondo Marx, uno sviluppo superiore delle forze produttive possa sviluppare una ristrutturazione all'interno della forma dei rapporti sociali, e per esempio modificare gli equilibri tra le classi, ma che non potrebbe certamente far sì che tale forma venga essa stessa abolita, e cessi di generare delle potenze che dominano gli uomini. Del resto, Marx lo dice in maniera estremamente chiara quando postula quali siano gli elementi indispensabili per un «sovvertimento totale» della società: «Gli elementi materiali di un sovvertimento totale sono, da una parte, le forze produttive esistenti e, dall'altra parte, la formazione di una massa rivoluzionaria che faccia la rivoluzione, non solo contro delle condizioni particolari della società passata, ma contro la stessa produzione della vita così com'è stata fino a quel momento, contro l'attività totale su cui essa si fondava.» [*12]. Marx dice «le forze produttive "esistenti"»: inutile quindi che esse si sviluppino dell'altro, ulteriormente, il loro attuale sviluppo è pienamente sufficiente, e, soprattutto, non c'è da aspettarsi niente da uno sviluppo superiore di queste forze, e inoltre non c'è nient'altro, a parte che questo solo sviluppo supplementare delle forze produttive che è sufficiente, e da sé solo, a generare e  a portare ad un «sovvertimento totale» della società.
In questo stesso passaggio, Marx parla di una rivoluzione che verrebbe fatta contro - sto citando - «l'insieme dell'attività» che è stata «la base» della «produzione della vita» e della società finora. Che cosa egli intenda per «l'insieme dell'attività» non può avere alcun altro significato che non sia quello dell'attività umana considerata nel suo insieme, vale a dire, sia il suo contenuto che la sua forma. Nel suo contenuto, questa attività è il lavoro umano. Poiché la «produzione della vita precedente» riposa interamente sul lavoro, ed il lavoro è quest'attività che è stato «il fondamento» della «precedente produzione della vita». Che cosa vuol dire? Può voler dire che l'attività fondatrice sarà un'attività direttamente sociale, e che sarà l'attività stessa, cosciente e volontaria, dell'associazione, della cooperazione e dell'organizzazione: un'attività sociale diretta che esiste anticipatamente e immediatamente, secondo Marx, nelle pratiche politiche attraverso le quali il proletariato rivoluzionario si impegna ad organizzarsi. Questo ci riporta alla trasformazione dell'attività "nella sua forma": finora l'attività è stata un'attività imposta agli uomini nel suo contenuto di attività produttrice, ma anche e soprattutto nella sua forma di attività non ripartita e non suddivisa volontariamente e coscientemente da e tra gli uomini stessi. Il cambiamento nella forma dell'attività significa il passaggio ad un'attività che sia direttamente ed esplicitamente sociale, vale a dire ad un'attività il cui carattere sociale non sia più dissimulato né travestito nella forma di una necessità e di una potenza "naturale".

Si comincia a vedere un po' più chiaramente quale sia l'impostazione di Marx ne L'Ideologia tedesca, e che porta all'idea di una «soppressione del lavoro», avendo capito che è questa l'idea che stiamo cercando di comprendere. Il punto di partenza, è la situazione della società civile moderna che Marx comprende ed analizza in maniera assai vicina a quella di Hegel, soprattutto allorché quest'ultimo, ne I Principi della filosofia del diritto, aveva fatto della società civile il momento della più estrema scissione tra la particolarità e l'universalità: da un lato viene concesso alla particolarità, cioè a dire agli individui, come diceva Hegel, «il diritto di svilupparsi e di diffondersi dappertutto», vale a dire il diritto cercare la soddisfazione del loro proprio interesse egoistico, e dall'altro lato viene concesso «all'universalità il diritto di stabilire che essa è il fondamento e la forma necessaria della particolarità» [*13], cosa che ha fatto "imponendo" agli individui un «sistema di dipendenza multilaterale» [*14] sotto la forma di una necessità che viene loro imposta esternamente, e che allo stesso tempo li costringe. Ed è esattamente questo il punto di partenza di Marx ne L'Ideologia tedesca quando pone, da un lato, «la separazione degli individui in quanto individui» e, dall'altro lato, «la loro necessaria unione, implicata dalla divisione del lavoro», e quando aggiunge che, proprio a causa di questa stessa scissione, l'unione, la quale non può che essere necessaria, inoltre non può avere altra forma se non quella di un «legame divenuto alieno agli individui» [*15]. In una situazione di separazione tra gli individui, la cui libertà e diritto consistono nel consacrarsi a quello che è unicamente il loro interesse particolare, l'unione fra questi stessi individui può prendere solo la forma di un legame esterno e costrittivo. Perfino l'interesse «comune» di questi individui. quando per esempio si trovano riuniti in una classe, rimane un interesse particolare, poiché esso è il loro interesse comune unicamente « nei confronti di una terza parte »; e quindi nel momento in cui ne fanno l'oggetto di un'aggregazione esteriore, questi individui non appaiono in tale aggregazione in quanto individui, ma solamente come i rappresentanti, identici fra loro, di un interesse che li riunisce solo esteriormente.
Riteniamo che, nella situazione della società civile moderna, ogni forma di mediazione sociale tra gli individui assume la forma di una necessità esteriore e costrittiva. In altre parole, non esiste mediazione sociale diretta fra gli individui: la loro mediazione sociale passa sempre attraverso un intermediario esterno rispetto ad essi. in modo che la mediazione stessa assuma la forma di una costrizione esterna esercitata da delle istanze che appaiono come oggettive e quasi naturali. Riguarda soprattutto il caso di ciò che dovrebbe essere il prodotto più immediatamente sociale degli individui, ossia la potenza sociale che essi sviluppano attraverso il loro lavoro, vale a dire le loro proprie forze produttive: tali forze produttive che sono quelle della società nel suo insieme, e quindi quelle di tutti gli individui, appaiono agli individui stessi come se fossero separate e «sparpagliate», come l'inverso di ciò che sono, vale a dire come delle forze che non sono loro, come delle forze esterne, e quindi come delle forze che non sono sociali, e come se fossero delle potenze naturali. «In alcuni periodi precedenti» - scrive Marx - «le forze produttive non avevano assunto questa forma indifferente alle relazioni degli individui in quanto individui» [*16]: la contraddizione è quindi estrema, dal momento che queste forze produttive esistono di fatto solo nelle, e per mezzo delle, relazioni fra gli individui; il prodotto sociale degli individui non appare come sociale, esso appare come il contrario di ciò che è, come non sociale, vale a dire come se fosse oggettivo e naturale.
La conseguenza che qui ci interessa, è la forma che assume il lavoro nel momento in cui le forze produttive non appaiono agli individui come le loro proprie forze, vale a dire come delle forze immediatamente sociali. Scrive Marx: «Il lavoro, il solo legame che unisce ancora gli individui alle forze produttive alla loro propria esistenza, ha perso in loro ogni apparenza di attivazione di loro stessi (Selbstbetätigung)» [*17]. Il loro lavoro è il ruolo che gli individui assumono nelle produzione sociale, e quindi in quelle che sono le forze produttive della società, ma, nelle condizioni attuali, non può essere altro che un lavoro isolato, diviso e frammentato, allo stesso modo in cui lo sono gli individui stessi, e perciò un lavoro che non appare agli individui come se fosse un'attività "sociale", ma al contrario come una costrizione naturale loro imposta, come un "mezzo" di cui non si può fare a meno se si vuole vivere [*18]. Proprio in virtù della stessa separazione tra gli individui e le forze produttive che, in sé, non sono altro che le loro stesse forze, ma che necessariamente non vengono considerate come tali - in virtù di tale separazione, quindi, il legame fra un individuo ed il proprio lavoro è anch'esso un legame esteriore: il lavoro di un individuo non è una sua attivazione fatta da lui stesso, non è un'auto-attivazione, ma è al contrario un'allo-attivazione, un'attività che gli viene imposta e che è comandata dall'esterno da altro rispetto a sé stesso. In una situazione nella quale, come dice Marx, «il lavoro può sussistere solo in condizioni di frammentazione» (p.102), sopprimere il lavoro significa perciò sopprimere la frammentazione. E se la «frammentazione» vuol dire che un'attività immediatamente sociale appare come non sociale, sopprimere la frammentazione significa "fare del lavoro" (vale a dire, della produzione della vita materiale) "un'attività immediatamente sociale". Il lavoro potrà diventare auto-attivazione degli individui solo a condizione di partire dal momento in cui diventerà l'elemento in cui avverrà la mediazione sociale [*19]. vale a dire, a partire dal momento in cui il lavoro sarà sotto il controllo cosciente e volontario dei produttori associati.
La «soppressione del lavoro» di cui parla Marx ne L'Ideologia tedesca, è la soppressione del lavoro visto sotto una forma precisa, vale a dire sia sotto la forma di un'attività che è esterna all'individuo, che viene imposta all'individuo come una costrizione, e sotto forma di un'attività che è frammentata e suddivisa che non riunisce gli individui se non sotto la forma non sociale della costrizione esteriore e naturale, o quasi naturale. L'abolizione del lavoro, ne L'Ideologia tedesca, è l'instaurazione di quella che Marx chiama «la comunità dei proletari rivoluzionari che mettono sotto il loro controllo tutte le loro proprie condizioni di esistenza e quelle di tutti i membri della società.» [*20]. L'unione o l'associazione qui è "volontaria", e non più esteriore, necessaria e obbligatoria, e ciò perché , come dice Marx, «gli individui vi partecipano in quanto individui» [*21]: questo vuol dire che partecipano "a titolo individuale", perciò singolarmente, e non più in quanto individui che si riuniscono in un'unità esteriore, rispetto alla quale, nella loro particolarità solamente formale, sono tutti astrattamente identici. Ed è questa forma di partecipazione all'unione volontaria dei proletari a far sì che, per ciascuno di loro, il proprio lavoro divenga sia un'attivazione di sé stesso che un'attivazione immediatamente sociale: di conseguenza, dal quel momento il lavoro si inscrive pienamente nelle relazioni fra gli individui, in modo che non si possa più distinguere, in seno al lavoro, quello che rientra nella produzione, da quello che rientra nell'organizzazione e nel controllo collettivo: viene abolito il lavoro, nel senso che non c'è più distinzione tra il fatto di produrre e l'attività stessi di associarsi e di controllare collettivamente le condizioni della realizzazione di ciascuno.
Riassumendo in poche parole, si può dire che il problema, così come viene pensato da Marx nel momento de L'Ideologia tedesca, consiste nel dare al lavoro la forma di una mediazione propriamente e, soprattutto, "esplicitamente" sociale, vale a dire, nel sopprimere le condizioni che hanno avuto come effetto quello di dissimulare e rendere invisibile agli agenti il fatto che il loro lavoro svolga una funzione sociale, e pertanto consiste nel sopprimere tutte le condizioni che fanno sì che la mediazione sociale appaia agli agenti come se fosse la loro essenza esteriore, ovvero che venga data ad essa la forma di una costrizione esterna, di una necessità naturale che li domina.

Abolire la centralità sociale del lavoro
L'ulteriore passo che viene compiuto da Marx nei Grundrisse e nel I libro de Il Capitale, consiste a mio avviso essenzialmente nel fatto che Marx approfondisca quest'idea per cui il lavoro svolga già, nelle condizioni attuali, una forma di mediazione sociale: la comprensione della forma di tale mediazione attuale dev'essere considerevolmente arricchita, e questo grazie ad una distinzione diventata ormai netta tra, da un lato, il lavoro materiale e concreto per mezzo del quale ogni società assicura il metabolismo uomo/natura, e dall'altro lato il "lavoro astratto" compreso in quanto forma del tutto specifica del lavoro sotto il capitalismo. Di conseguenza, anche l'idea di un'abolizione del lavoro ne viene fuori considerevolmente specificata. Direi che, da L'Ideologia tedesca al I libro de Il Capitale, Marx passa da un'abolizione del lavoro intesa come il fatto di dover dare al lavoro la forma di una mediazione esplicitamente sociale, che ha come effetto quello di dissolvere il lavoro nell'attività dell'associazione e del coordinamento sociale, ad un'abolizione del lavoro intesa come la soppressione della forma specifica di quella mediazione sociale realizzata dal lavoro sotto il capitalismo, cosa che ha come effetto quello di sopprimere ogni mediazione sociale garantita dal lavoro.
In realtà, non si tratta più solamente, come ne L'Ideologia tedesca, di passare dal lavoro in quanto forma di mediazione sociale travestita da necessità sociale e da costrizione esterna, al lavoro visto come mediazione "esplicitamente" sociale, vale a dire come attività socialmente controllata, organizzata in maniera collettiva e cosciente. Più radicalmente ancora, per il Marx del I libro de Il Capitale si tratta di abolire il lavoro in quanto mediazione sociale, sia che questa mediazione venga mascherata e travestita da necessità naturale come avviene nel capitalismo, sia che essa sia organizzata e venga pianificata come è avvenuto sotto quei regimi, alcuni dei quali si sono richiamati a Marx, ma che hanno mantenuto quella centralità del lavoro che Marx al contrario voleva abolire. In effetti, mi sembra che per il Marx de Il Capitale ad essere in gioco sia l'abolizione di ogni società che si basi sul lavoro in quanto unica forma della mediazione sociale: il fatto che questa mediazione si presenti come naturale e oggettiva e che sia incontrollata, oppure che essa pretenda di essere volontaria e consapevole e che venga pianificata, non è questo il problema per Marx. Dopo l'Ideologia tedesca, nei Grundrisse e ne Il Capitale, il problema centrale per Marx non è più quello di passare dal lavoro, visto come forma incontrollata ed incosciente della mediazione sociale, al lavoro come forma controllata e volontaria della mediazione sociale. Il problema , è quello di abolire il lavoro in quanto forma stessa della mediazione sociale.
Il punto di partenza rimane il medesimo che era ne L'Ideologia tedesca: Marx sostiene il carattere inseparabile del contenuto e della forma della mediazione sociale, nella fattispecie l'impossibilità di separare il lavoro in quanto insieme delle forze produttive e dei rapporti sociali di produzione. Questo esclude fin da subito una concezione del lavoro del tipo di quello che Simone Weil attribuisce a Marx. Questa concezione è grosso modo la seguente: ogni società, e quindi anche il capitalismo, si basa sul lavoro inteso come un'attività sociale per mezzo della quale gli uomini trasformano una data materia in vista di un fine, un'attività che è indispensabile alla riproduzione di ogni società, si che essa sia capitalista o meno. Questa attività, intesa come se fosse una costante storica, si inscriverebbe in un quadro sociale, vale a dire in dei rapporti sociali che, essi sì, sarebbero differenti a seconda delle società. Questi rapporti sociali sarebbero come i mezzi attraverso cui il lavoro verrebbe organizzato ed i prodotti del lavoro vengono distribuiti e ripartiti; sotto il capitalismo, questi rapporti sociali avrebbero come specificità quella di essere dei rapporti di mercato e dei rapporti fra proprietario privati e proprietario privato: è la soppressione di questi rapporti di produzione che potrebbe permettere il passaggio ad una società post-capitalista.
Vediamo come il presupposto di una tale concezione risieda in un'esteriorità che vede il lavoro, o le forze produttive, da una parte, ed i rapporti di produzione dall'altra: come se il lavoro ed i processi di produzione s'inscrivessero nel quadro dei rapporti di produzione che varierebbero secondo il tipo di società, ma che vengono supposti come esteriori al lavoro stesso. Questa concezione è quella che Simone Weil critica e che attribuisce a Marx. Ma il problema più grande posto da questa interpretazione, è che lei la attribuisca senza accorgersi che Marx dice che questa è proprio di una caratteristica del capitalismo, vale a dire, l'esteriorità che vede, da una parte, il lavoro e, dall'altra parte, i rapporti sociali che gli individui colgono come se fosse un quadro esterno e costrittivo che si impone su di loro, sulla loro attività, e che li domina. Ora, il risultato che Marx si propone è proprio quello di spiegare tale specificità della società capitalistica, ossia che i rapporti sociali vengono visti e vissuti come dei rapporti oggettivi che obbediscono ad una necessità quasi naturale e che esercitano sugli individui una forma di dominio astratto ed implacabile. Ed è la realizzazione di questo risultato che porta Marx all'idea seguente: la spiegazione di tale fatto risiede nel lavoro, e più esattamente nelle forma del tutto specifica che assume il lavoro nel capitalismo.
La scoperta della specificità del lavoro sotto il capitalismo, è a mio parere una delle grandi scoperte del Marx della maturità, diciamo a partire dai Grundrisse. Se Marx si fosse accontentato della teoria del lavoro astratto in quanto  fonte del valore, non avrebbe fatto granché più di Ricardo, invece Marx fa molto di più in quanto si domanda come avvenga che la teoria ricardiana del valore-lavoro sia esatta; e risponde dicendo che essa è vera "soltanto" sotto il capitalismo, e ciò perché il capitalismo è l'unico modo di produzione in cui il lavoro è produttore sia di valore d'uso che di valore di scambio e lo è solo nelle misura in cui esso è allo stesso tempo vettore dell'insieme delle mediazioni sociali, In tutte le altre formazioni sociali che ci sono state finora, il lavoro era certamente un'attività indispensabile per la riproduzione sociale, ma era un'attività che si inscriveva e si inseriva nelle mediazioni sociali avendo come caratteristiche sia quella di essere esplicitamente e apertamente sociale, che quella di essere stabilito e quindi di potere eventualmente continuare ad esistere indipendentemente dal lavoro. Nel capitalismo non è più così: in questa società caratterizzata dal fatto che la forma merce viene generalizzata, il lavoro in quanto lavoro che produce cose di valore, vale a dire merci, e quindi in quanto lavoro astratto, acquisisce una funzione che non aveva mai avuto precedentemente, vale a dire la funzione sociale di mediazione. Gli individui non hanno più rapporti sociali, se non quelli mediati dal lavoro, esso stesso considerato come se fosse lavoro astratto determinato dalla forma merce: il lavoro, sotto il capitalismo, tende a rimpiazzare tutte le altre forme di mediazione sociale, e a garantire da sé solo, ed esso solo, la funzione di mediazione sociale, che avviene direttamente attraverso la vendita di forza lavoro, o indirettamente attraverso ciò che rende possibile lo scambio di merci. In questo senso, ciò che Marx chiama il «lavoro astratto» non è, né unicamente e nemmeno innanzitutto, il lavoro inteso come fonte del valore, ma è soprattutto la forma stessa che il lavoro assume quando gli spetta la funzione di garantire, esso solo, la mediazione sociale. In breve, si può dire che, per Marx, avviene solo nel capitalismo che il lavoro sia «centrale», per così dire, cioè che esso sia, in quanto lavoro astratto, il portatore ed il vettore dell'insieme delle mediazioni sociali. Pertanto, abolire il lavoro, non può più assolutamente voler dire compiere e realizzare il lavoro, e quindi rimuove gli ostacoli che il capitalismo opporrebbe alla realizzazione del lavoro, dal momento che il lavoro non è mai stato così compiuto e realizzato così come è avvenuto sotto il capitalismo. Abolire il lavoro non può neppure voler dire dare al lavoro la forma di una mediazione sociale esplicita e aperta, dal momento che al lavoro non è mai stata assicurata fino a tal punto la mediazione sociale che ha avuto proprio sotto il capitalismo, e rendere tale mediazione ancora più esplicita di quanto già non sia, non avrebbe mai l'effetto di abolire questa forma astratta di mediazione che garantisce il lavoro anch'esso astratto. Abolire il lavoro, a partire dal Marx della maturità, vuol dire abolire la funzione di mediazione sociale o di socializzazione assicurata dal lavoro astratto produttore di valore. Ciò vuole pertanto dire liberare il lavoro dal ruolo sociale storicamente assolutamente particolare che esso ha giocato nel capitalismo, e fare perciò sì che il lavoro non sia più socialmente costitutivo, abolendo così quella che si chiama «centralità del lavoro» dal momento che il lavoro ha funzione socialmente centrale solo nel capitalismo. Questo evidentemente non vuol dire non lavorare più: il lavoro rimarrà attività produttrice di ricchezza materiale, ma questa attività non sarà più portatrice della funzione di socializzazione, ed anche la ricchezza stessa verrà liberata dalla forma valore che ha sotto il capitale. Affinché il lavoro divenga un'attività suscettibile di permettere la soddisfazione e forse perfino la realizzazione degli uomini che ad esso si dedicano, occorre che il lavoro cessi di essere socialmente costitutivo, e che quindi la società non si basi più su di esso. Credo che era questo ciò che Marx volesse dire quando parlava di abolizione del lavoro.

- Franck Fischbach - in Cahiers Simone Weil, tome XXXII, n°4, décembre 2009.


NOTE:

[*1] - Moishe Postone - "Time, Labor, and Social Domination" - https://libcom.org/files/Moishe%20Postone%20-%20Time,%20Labor,%20and%20Social%20Domination.pdf
[*2] - Marx, "Manoscritti economico-filosofici del 1844"  - https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/Manoscritti/indexman.html
[*3] - ivi.
[*4] - ivi, p.123.
[*5] - Marx, Engels, "L'Ideologia tedesca", p.96 - https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1846/ideologia/index.htm
[*6] - ivi.
[*7] - ivi, p.93.
[*8] - ivi.
[*9] - ivi, p.68; traduzione modificata a pag. 70 della MEW 3.
[*10] - ivi, p.69.
[*11] - ivi, p.67.
[*12] - ivi, p.70.
[*13] - Hegel - "Lineamenti di Filosofia del Diritto". Laterza. p.280.
[*14] - ivi.
[*15] - Marx, Engels, "L'Ideologia tedesca", p.96.
[*16] - ivi. p.102.
[*17] - ivi.
[*18] - «Al giorno d'oggi, attivazione di sé e produzione della vita materiale sono separati al punto che la vita materiale appare come se fosse il fine, e la produzione della vita materiale, vale a dire il lavoro, come se fosse il mezzo.» (iv, p.103).
[*19] - Come vedremo in seguito, il Marx della maturità arriverà, ne Il Capitale, ad una conclusione esattamente opposta: il lavoro sarà soddisfacente per gli individui solo quando non sarà più al centro di ogni mediazione sociale.
[*20] - Marx, Engels, "L'Ideologia tedesca", p.96.
[*21] - ivi.


 

lunedì 27 maggio 2019

Tempeste

Le donne come «bene comune»
- Un’idea di Platone ripresa da Marx -
di Luciano Canfora

«Abolizione della famiglia!». Era una delle accuse rivolte spesso agli obiettivi del comunismo. Marx ed Engels intendono reagire, nel secondo capitolo del Manifesto: «Persino i radicali più avanzati — commentano ironicamente — si scandalizzano per questo vergognoso proposito dei comunisti». Alla storia della famiglia borghese e al disvelamento della sua effettiva realtà è dedicata perciò una parte consistente di quel capitolo programmatico: non è un cenno marginale, è un aspetto rilevante della visione del comunismo che i due autori prospettano. L’addebito, strettamente connesso all’accusa di voler abolire la famiglia, è di propugnare la «comunanza delle donne»: «È ridicolo — scrivono i due — lo sdegno altamente morale dei nostri borghesi per la presunta comunanza ufficiale delle donne, dei comunisti (der Kommunisten: cioè propugnata e/o praticata, dai comunisti)».
Dicendo «presunta» implicano una presa di distanze da tale «comunanza», ma la loro risposta è soprattutto una ritorsione: è la famiglia borghese che pratica la «comunanza delle donne». «I nostri borghesi, non contenti di avere a disposizione le mogli e le figlie dei proletari, per non parlare della prostituzione ufficiale, trovano un grande diletto nel sedursi reciprocamente le loro stesse mogli».
La via d’uscita, scrivono, è «l’abolizione degli attuali rapporti di produzione»: «solo così — proseguono — scompare anche la comunanza delle donne, che deriva da tali rapporti, cioè la prostituzione ufficiale e quella non ufficiale» (inatteso scatto moralistico, che pone sullo stesso piano adulterio e prostituzione).
Però la «comunanza delle donne» viene poi recuperata, sia pure in sede di ritorsione polemica: «Il matrimonio borghese è in realtà la comunanza delle mogli. Tutt’al più si potrebbe rinfacciare ai comunisti che essi, al posto di una comunanza delle mogli ipocritamente occultata, vogliono instaurarne una ufficiale, palese». Da questa inattesa svolta dialettica si dovrebbe evincere che ha un fondamento «rinfacciare» ai comunisti che essi intendono instaurare tale «comunanza». Qui parrebbe perciò prodursi una singolare incrinatura del ragionamento, visto che, poco prima, s’è parlato di «presunta» aspirazione dei comunisti alla «comunanza delle donne». Ma la contraddizione i due autori la risolvono (quantunque il testo risulti comunque poco chiaro) ponendo in contrapposizione la cattiva «comunanza» praticata dai borghesi (il cui perbenismo familiare ha due facce: lo «scambio» delle mogli tra borghesi e l’utilizzo ricattatorio delle donne proletarie) alla buona «comunanza» proclamata apertamente, quella appunto che i borghesi «rinfacciano» ai comunisti.
Tale buona «comunanza» discende culturalmente dalla koinonía gynaikôncomunanza delle donne») ipotizzata da Platone, nel quinto libro della Repubblica, per la sua città ideale: modello che fu trasportato di peso da Tommaso Campanella nella sua utopica Città del Sole. Si tratta di una visione arretrata e arcaica: un arretramento rispetto alla tradizione letteraria e filosofica sette-ottocentesca di «amore libero», recepita in forma simpatetica e quasi pedantesca da Charles Fourier (peraltro l’unico «utopista» per il quale Marx manifesta rispetto!).
Si può osservare che nel concetto stesso di «comunanza delle donne» è insito un punto di vista dispoticamente maschile, che «reifica» l’oggetto della comunanza. Ed è ciò che Aristofane mette in rilievo, con l’arma del grottesco, nella commedia Le donne all’assemblea popolare che ha di mira esattamente la proposta platonica «codificata» nel quinto libro della Repubblica. In quella commedia, è una donna, Prassagora, che legifera in senso comunistico. Essa mette subito in chiaro che, nell’attuazione della messa in comune dell’eros, le donne avranno l’iniziativa e la prevalenza. Affinché gli spettatori ridano della trovata platonica, Prassagora-Aristofane stabilisce anche una regola: che le «vecchie» avranno la prelazione rispetto alle «giovani» nel fruire liberamente degli uomini (norma che determina un parapiglia quando, nel seguito della commedia, si tenta di metterla in pratica). Prassagora-Aristofane crea, insomma, regole in forza delle quali sono gli uomini che vengono «messi in comune» da parte delle donne. Lo fa per far «saltare» la proposta platonica (che fece scandalo e che, secondo Aristotele nel secondo libro della Politica, fu peculiare proposta del solo Platone). Ma non è il solo risultato che ottiene: oltre a far risaltare la difficoltà insita in tali «comunanze», mira a smascherare, capovolgendola, l’impostazione «maschiocentrica» di Platone (rimasta viva in tutta una tradizione che giunge fino a quella pagina di Marx). E sembra quasi voler affidare a una protagonista «eroica» (Prassagora) il messaggio di una vera ed egualitaria comunanza.
Archiviato lo scoglio della comunanza, resta il fatto che la parte più viva e importante delle pagine del Manifesto sul tema della famiglia è la denuncia dell’ipocrisia classista con cui la borghesia pratica e difende questa istituzione. La denuncia racchiusa in quelle pagine trova riscontro non soltanto nella narrativa precedente, coeva e successiva all’anno simbolo 1848 (basti pensare alla sezione dei Miserabili di Victor Hugo intitolata «Fantine»), ma anche e soprattutto nelle più recenti ricerche di storia della famiglia: in particolare su «classe operaia e forme familiari» nella rivoluzione industriale.
Questo tema, rispetto al quale le Chiese mostrarono insensibilità, fu affrontato nel 1993 da Wally Seccombein in un saggio, Famiglie nella tempesta, apparso anche in italiano qualche anno più tardi; nonché in tutta la serie di studi sulla Histoire de la famille che è merito delle «Annales» aver rilanciato e imposto.

- Luciano Canfora  - Pubblicato sul corriere del 22 maggio 2019 -

sabato 25 maggio 2019

Malati di mente

Per Aby Warburg, le immagini celavano al loro interno fantasmi spesso terrifici, che tentavano di tenere a bada: senza mai riuscire fino in fondo a nasconderne le tracce. È un'idea cruciale per il nostro modo di leggerle, che nel tempo ha trovato innumerevoli riscontri. Pochi, però, nitidi quanto quelli che ha lasciato dietro di sé Opicino de Canistris. Nato a Pavia alla fine del Duecento, scriba alla corte papale di Avignone, nel corso di una vita irrequieta e tormentosa Opicino ha lavorato a una serie di tavole straordinarie. Formalmente ispirate alle mappe dei cartografi genovesi che aveva a lungo maneggiato in Francia, le carte di Opicino sono qualcosa fra una cosmologia blasfema e un diario - quanto mai minuzioso - di quella catastrofe dell'anima che abbiamo imparato a chiamare psicosi. Ma rimangono in definitiva un affascinante enigma, tutto da decifrare. E questa, narrata da Sylvain Piron, è la loro storia.

(dal risvolto di copertina di: Sylvain Piron, "Dialettica del mostro". Adelphi)

Atlante universale della follia
- di Michele Mari -

Jorge Luis Borges ha immaginato un uomo di chiesa che ogni sera, al termine delle proprie mansioni, si chiude in uno studiolo per disegnare ossessivamente carte geografiche non destinate a nessuno; in queste mappe, dove la geografia vera si mescola alla geografia fantastica e dove comunque i nomi sono dislocati, egli sparge indizi della propria vita, nasconde disegni di figure umane e mostruose, crea trompe l’oeil ed effetti ottici per cui altre immagini esistono in negativo oppure appaiono ruotando il foglio, sovrappone o pone a cornice complessi diagrammi labirintici, e soprattutto inserisce anche all’interno delle immagini bizzarri testi latini che sembrano descrivere tutt’altro.
Transitivamente e metamorficamente, come nell’attività onirica, un neo su una guancia può essere una città, mentre una città o un golfo sono anche un sesso femminile; in particolare ricorre, con esiti deliziosamente feticistici, lo ” stivale” dell’Italia. Assillato dall’onere di cartografare il mondo e di interpretarne la morfologia in chiave metafisica, quest’uomo è però un malato di mente, sicché il vero oggetto delle mappe è la sua stessa psicosi, tradotta in meravigliosi cristalli grafici da una tecnica e da un virtuosismo che fanno pensare all’arte di Escher. In realtà, pur potendolo immaginare, Borges non ha mai scritto di quest’uomo, che è esistito veramente. Si chiamava Opicino de Canistris, nacque in provincia di Pavia alla fine del ’ 200, e lavorò come scrivano presso la corte pontificia di Avignone.
Della sua vita sappiamo solo quanto al suo capriccio è piaciuto insinuare nelle mappe, spesso sciogliendo il dato biografico nel simbolismo e nel delirio esoterico: non è un caso che le medesime modalità autobiografiche si trovino anche nell’opera di un altro famoso malato mentale, Adolf Wölfli, che in trentacinque anni di reclusione manicomiale consegnò la propria vita a 25mila pagine di testo integrato da migliaia di disegni di rara bellezza.
E come l’opera di Wölfli è stata “scoperta” e divulgata dal suo stesso psichiatra, Walter Morgenthaler, così le mappe di Opicino, contenute in due manoscritti vaticani, sono state riscoperte dal gruppo di Aby Warburg: Saxl, Panofski, e Salomon, cui apparve chiara la matrice patologica di un simile miracolo.
I warburghiani si rivolgevano agli specialisti; a raggiungere un pubblico più vasto ha provveduto Sylvain Piron, con un’appassionata monografia comprensiva di riproduzione fotografica, purtroppo molto selettiva.
Incrociando Freud con Jung ( che dopo aver visto qualcuna di queste mappe commentò shakespearianamente: «C’è del metodo nella follia»), Piron ha buon gioco nel suggerire una ricca messe di possibili interpretazioni, spesso legate al senso di colpa per una nascita traumatica e “mostruosa”, alla sindrome edipica e alla sublimazione della figura materna nell’immagine dell’Ecclesia Triumphans.
Tuttavia la bellezza di questi disegni e di questi maniacali diagrammi alfanumerici rifulge anche (se non soprattutto) in assenza di spiegazione, come per una sovrana autosufficienza.
Guidato da uno straordinario senso compositivo, Opicino deduce una forma dall’altra, un sistema arterioso dal delta di un fiume, un occhio da una mandorla bizantina che iscrive un Cristo che come attraverso un prisma si riflette in un altro Cristo capovolto, le cui braccia definiscono in negativo le fauci di un mostro: e ovunque, nascosti come in un gioco della Settimana Enigmistica, falli, vulve, bocche.
Ci parla della creazione di Dio, Opicino, o di quella del Diavolo? Sicuramente ci parla dei mostri, intesi come tali e, alla latina, come prodigi; e la commovente raffigurazione di se stesso bambino, sulla circonferenza di un sistema di cerchi concentrici corrispondenti agli eventi della sua vita e alle sfere celesti, ci appare come una rivelazione e una firma: io, Opicino, signore dei mostri e ordinatore del caos.

- Michele Mari - Pubblicato su Robinson del 20/5/2019 -

venerdì 24 maggio 2019

Fantasie maschili

La femminilità tossica in «Game of Thrones»
- di Slavoj Žižek -

L'ultima stagione di Game of Thrones ha scatenato un grande clamore, che è culminato in una petizione (firmata da quasi un milione di spettatori indignati) che chiedeva l'annullamento della stagione e che se ne registrasse una del tutto nuova. La rabbia che ha segnato la discussione è, di per sé, un'indicazione del fatto che in gioco ci siano molte cose, in termini di ideologia.
L'insoddisfazione ruotava intorno a due punti principali: una brutta sceneggiatura (scritta sotto la pressione di voler chiudere rapidamente la serie, pregiudicando così la complessità della narrazione) e una cattiva psicologia  (la trasformazione di Danereys in una Mad Queen [una regina folle] non può essere giustificata nei termini della traiettoria del personaggio). Nel dibattito, una delle poche voci intelligenti è stata quella dello scrittore Stephen King, il quale ha sottolineato come l'insoddisfazione non sarebbe stata causata dal brutto finale, ma dall'esistenza stessa di un finale: in questa nostra epoca delle serie, che sembrano cominciare in modo che continuino indefinitamente, ad essere intollerabile è l'idea stessa di una chiusura narrativa. È vero che, nella rapida conclusione della serie, prevale una strana logica - ma si tratta di una logica che viola non tanto la verosimiglianza della psicologia, quanto piuttosto quelli che sono i presupposti stessi di una serie televisiva. Dopo tutto, l'ultima stagione si riduceva ai preparativi per una battaglia, al dolore e alla distruzione che seguono dopo la battaglia, e al combattente posto di fronte a tutta questa insensatezza - che per me, è qualcosa di molto più realistico di quanto lo siano i soliti grovigli melodrammatici gotici.
L'universo di Game of Thrones (così come quello de Il Signore degli Anelli) è un universo spiritualizzato ma sprovvisto di Dio: ci sono forze soprannaturali, ma esse fanno parte della natura, e non ci sono né Dei superiori né tanto meno sacerdoti al loro servizio. All'interno di un tale contesto, il quadro dell'ottava stagione è profondamente coerente: in essa vengono inscenate tre battaglie consecutive. La prima viene combattuta fra l'umanità ed i suoi inumani Altri (rappresentati dall'Esercito della Notte del Nord, guidato dal Re della Notte). Quindi, in seguito, la disputa si svolge fra i due principali gruppi di umani (i malvagi Lannister e la coalizione contro di loro guidata da Daenerys e dagli Stark). Infine, poi, c'è il conflitto interno fra Daenerys e gli Stark. Ed è per questo che le battaglie dell'ottava stagione seguono un percorso logico che parte da un'opposizione esterna per arrivare alla scissione interna: la sconfitta della disumana Armata della Notte, la sconfitta dei Lannister e la distruzione di Approdo del Re, fino ad arrivare all'ultimo scontro fra gli Stark e Daenerys - in ultima analisi, allo scontro tra la «buona» e tradizionale nobiltà, rappresentata dagli Stark, che protegge lealmente i propri soggetti dagli artigli dei malvagi tiranni, e la figura di Daenerys, vista come un leader forte di nuovo tipo, come una sorta di bonapartista progressista che agisce per conto di quelli che sono meno privilegiati. Per riassumere in modo semplice la cosa, nel conflitto finale, quel che è in gioco è quanto segue: la rivolta contro la tirannia dovrebbe svolgersi nel quadro di una mera lotta per il ritorni alla precedente versione antica, un po' più gentile, del medesimo ordine gerarchico? Oppure, dovrebbe evolvere nel senso della ricerca di un nuovo ordine necessario?
Gli spettatori insoddisfatti hanno un problema con quest'ultimo scontro - la cosa non sorprende, dal momento che esso mescola il rifiuto di una trasformazione radicale insieme ad un vecchio tema anti-femminista che troviamo nelle opere di Hegel, Schelling e Wagner. Nella sua Fenomenologia dello Spirito, Hegel introduce il suo famoso concetto di femminilità vista come «l'eterna ironia della comunità»: la donna «trasforma con i suoi intrighi il fine universale del Governo in un fine privato, converte la sua attività universale nel prodotto di un qualche individuo particolare, e perverte la proprietà universale dello Stato in patrimonio ed in ornamento della famiglia» [*1] Questa linea narrativa si incastra perfettamente con la figura di Ortrud, dell'opera Lohengrin, di Richard Wagner: per lui, non esiste niente di più orribile e disgustoso di una donna che interviene nella vita politica, motivata da un desiderio di potere. A differenza di quanto accadrebbe con l'ambizione maschile, la donna, incapace di cogliere quella che è la dimensione universale della politica statale, bramerebbe il potere solo al fine di promuovere i suoi propri stretti interessi familiari - o peggio, i suoi capricci personali. Come non riportare alla mente il passaggio di Schelling, secondo il quale «il principio che funziona e che ci sostiene con la sua inefficacia è quello stesso che ci consumerebbe e ci distruggerebbe con la sua efficacia»? [*2] - è il potere che, se viene tenuto al suo posto adeguato può essere benigno e pacificatore, si converte nel suo opposto radicale, nella furia più distruttrice, non appena esso raggiunge un livello più alto, un livello che non è il suo. Quella stessa femminilità che, all'interno del circolo chiuso della vita familiare, configura quello che è il suo proprio potere di amore protettore, ecco che essa si trasforma in frenesia oscena, quando si manifesta al livello di quello che sono gli affari pubblici, al livello dello Stato. Il punto più basso della sceneggiatura, è il momento in cui, nel dialogo, Daenerys dice a Jon Snow che se lui non può amarla come regina, regnerà la paura - l'archetipo volgare in maniera imbarazzante della moglie sessualmente insoddisfatta che esplode in una furia distruttiva.
Ma ora passiamo alle cose spiacevoli: che dire delle esplosioni omicide di Daenerys? Il massacro spietato di migliaia di persone comuni di Approdo del Re può davvero essere giustificato come un passo necessario verso la libertà universale? Si tratta di qualcosa di fatto davvero imperdonabile: ma parlando di questo, dobbiamo ricordare che la sceneggiatura è stata scritta da due uomini. L'immagine di Daenerys come una regina folle è una fantasia rigorosamente maschile (i critici hanno avuto ragione a sottolineare che la sua discesa nella follia non possa essere giustificata psicologicamente). La scena in cui lei, volgendo intorno uno sguardo di rabbia e di follia, sorvola la città mentre cavalca il suo drago incendiando case e persone è semplicemente espressione dell'ideologia patriarcale, e della paura che tale ideologia ha di una donna politicamente forte.
Il destino finale delle protagoniste femminili in Games of Thrones si inserisce in queste coordinate. Ad essere centrale è l'opposizione fra Cersei e Daenerys, le due donne legate al potere, il messaggio che deriva dal loro conflitto è chiaro: anche se vince il bene, il potere corrompe le donne. Arya (che ha salvato tutti quando ha ucciso, da sé sola, il Re della Notte) scompare anche lei, imbarcandosi in un viaggio ad ovest dell'Occidente (come se andasse a colonizzare l'America). Quella che rimane (come regina del regno autonomo del Nord) è Sansa, un tipo di donna amata dal capitalismo contemporaneo: riunisce in sé delicatezza comprensione femminile insieme ad una buona dose di intrigo, e quindi si adatta pienamente in quelle che sono le nuove relazioni di potere. Questa marginalizzazione delle donne è un momento chiave della lezione liberal-conservatrice generale dell'ultimo episodio: le rivoluzioni devono finire male, e generano nuove tirannie. [...] La lezione liberal-conservatrice traspare assai più chiaramente dalle parole detta da Jon Snow a Daenerys: «Non avrei mai immaginato che i draghi sarebbero nuovamente esistiti; nessuno lo avrebbe immaginato. Le persone che ti seguono sanno che tu hai fatto qualcosa di impossibile. Forse questo li aiuta a credere che tu possa far sì che avvengano altre cose impossibili: costruire un mondo differente dalla merda che hanno sempre conosciuto. Ma se tu li usi [i draghi] per radere al suolo castelli e per bruciare città, non sei per niente diversa. Si tratta più o meno della stessa cosa.» Così, Jon uccide per amore (salvando da sé stessa la donna maledetta, secondo quella che è la vecchia formula sciovinista) l'unico agente sociale della serie che aveva realmente combattuto per qualcosa di nuovo, per un mondo nuovo che avrebbe messo fine alle vecchie ingiustizie. Perciò non sorprende che l'ultimo episodio della stagione sia stato ben accolto: ha prevalso la giustizia - ma che tipo di giustizia? Ciascuno viene collocato in quello che è il posto che gli spetta: Daenerys, che ha perturbato l'ordine stabilito, è morta ed è stata portata via dal suo ultimo drago. Il nuovo re è Bran: storpio, onnisciente, che non vuole niente - evocando così quella saggezza insipida secondo la quale i migliori governanti sarebbero quelli che non vogliono il potere. In quello che è un finale supremamente politicamente corretto, governa uno storpio, ora aiutato da un nano, ed eletto dalla nuova élite saggia. (Un nel dettaglio: le risate che ne conseguono quando uno di loro propone una scelta più democratica del re). Ed è impossibile non notare che quelli che rimangono fedeli a Daenerys hanno tutti la pelle scura - il suo grande comandante è nero - e sono per lo più orientali, mentre i nuovi governanti sono chiaramente tutti nordici bianchi. La regina radicale che vorrebbe più libertà per tutti indipendentemente dalla loro posizione sociale e dalla razza è state eliminata, le cose tornano alla normalità, e la miseria viene mitigata per mezzo della saggezza.

- Slavoj Žižek - Testo inviato direttamente dall'autore al Blog da BoiTempo il 19/5/2019 -

NOTE:

[*1] - «Questa femminilità - l'eterna gloria della comunità - muta per mezzo dei suoi intrighi il fine universale del Governo in un fine privato, trasforma la propria attività universale in un'opera di questo determinato individuo, e perverte la proprietà universale dello Stato in patrimonio ed ornamento della famiglia.» (G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito).

[*2] - F. W. J. Schelling, Die Weltalter. Fragmente. In den Urfassungen von 1811 und 1813.

fonte: Blog da BoiTempo