sabato 11 maggio 2019

L'Ultima Età

Il fallimento del futuro
- di Donatella Di Cesare -

L’alba del terzo millennio è caratterizzata da una difficoltà di immaginare il futuro che non ha precedenti nel passato. L’ostacolo non è più tanto la cosiddetta «fine della storia», quella chiusura nella spietata economia del capitale, abbandonato senza freni a una danza macabra e ripetitiva, quanto la «fine del mondo», ormai assunta quasi come un’ovvietà. A parlarne sono anzitutto le scienze empiriche: climatologia, geofisica, oceanografia, biochimica, ecologia.
Almeno questo è chiaro: il mondo del tardocapitalismo è quello del collasso ecologico planetario. La fusione tra tecnoeconomia e biosfera è sotto gli occhi di tutti. Si chiama Antropocene l’età della Terra in cui gli umani osservano gli esiti devastanti e mortiferi di questa fusione asimmetrica, in cui la natura è stata erosa fino a scomparire. Ma la violenza dell’intromissione non sarebbe stata possibile senza l’implacabile e incandescente sovranità del capitale.
L’impotenza prevale. Così l’immaginario oscilla tra l’auspicio inconfessabile che nulla cambi, il tempo si fermi, o almeno si reiteri nell’eterno ritorno dell’uguale, e l’attesa angosciosa per «l’incidente del futuro», in cui anni fa Paul Virilio intravedeva l’esito catastrofico dell’«integralismo scientifico». Il gioioso clamore prometeico minaccia di soffocare in un rantolo apocalittico.
La fine del mondo, tremenda e imperscrutabile, ha agitato nei secoli il mondo ebraico-cristiano. Ma questa «fine» ha oggi un significato gravemente reale, tremendamente asfittico. Non c’è speranza nell’oltre, in un mondo altro, e solo con lo sguardo della fredda disperazione si possono contemplare le immagini di quei pianeti morti, come Marte, su cui bisognerebbe figurarsi un giorno qualche possibile forma di vita. È scoccata l’ora dell’utopia inversa, rovesciata. The last age, l’ultima età — così l’ha chiamata Günther Anders, il filosofo che forse più degli altri si è spinto a preconizzare lo sterminio dell’umanità lanciando un monito potente contro quel suicidio che già allora sembra stagliarsi ineluttabilmente all’orizzonte.
Ben poco è cambiato in tal senso dagli anni dell’immediato dopoguerra, in cui Anders scriveva. È mutata la metafora: si è passati dall’inverno nucleare al riscaldamento globale. Per il resto, malgrado ogni presa di coscienza, la corsa verso il disastro ecologico e l’autodistruzione dell’umanità non si è arrestata. Al contrario! D’altronde è il funzionamento stesso della civiltà tecnoscientifica, con i suoi standard di benessere e i suoi canoni di pacifica prosperità, che non lascia spazio a illusioni. Mentre il disastro annunciato appare sempre più vicino, l’impotenza aumenta. Che fare? È già troppo tardi? Tutti quegli allarmi non tradiscono forse un catastrofismo prematuro? Non sarà proprio la scienza a riservarci una sorpresa all’ultimo minuto?
Questo, però, c’è di nuovo: l’imminenza della fine dei tempi ha ormai per noi, che viviamo nel terzo millennio, un carattere storico. Non più solo cosmologico. La certezza storica della fine dà il timbro a un’epoca che si delinea in uno scenario apocalittico dove mancano risonanze teologiche e promesse politiche. L’apocalisse si profila in piena modernità laica e scientifica. Il male che viene si annuncia razionalmente, nell’irrazionale corsa di un’umanità che lotta contro la propria autodistruzione.
Per la prima volta si fa strada l’idea che la morte del singolo potrebbe coincidere con la fine del mondo. Nulla resterebbe dopo, né il ricordo degli altri, né la memoria condivisa, né lascito, né eredità. Tutto, dunque, sarebbe stato vano. Quel che l’umanità nei secoli e nei millenni ha edificato terminerebbe per sempre, in uno sterminio che è ben più di una semplice estinzione.
Se il lugubre incendio di Notre-Dame ha provocato un’angoscia così profonda, una pena così acuta, è perché quelle fiamme e quei fumi fanno presagire, anche solo inconsciamente, la catastrofe finale. Nei molteplici millenarismi del passato si poteva fantasticare intorno alla fine dei tempi, tra credenze, attese e deliri. Noi siamo oggi i primi a dover credere nella fine senza riuscirci. Noi siamo i primi a essere forse gli ultimi.
Ma che cosa vuol dire vivere, o sopravvivere, in un tempo senza domani? Il futuro è chiuso, destinato a riprodurre il passato, reiterandolo in un presente che ha le sembianze di un futuro anteriore. Questo tempo solipsisticamente circospetto, diffidente e guardingo, si trincera nell’immediatezza attuale. Non c’è attesa, apertura all’avvenire. Perché non si attende più l’evento salvifico, che potrebbe finalmente rendere reale l’impossibile, ma si paventa solo l’incidente del futuro. Come si odia a priori l’altro, così — con la stessa exofobia, lo stesso timore per ciò che è fuori e oltre — si detesta ciò che può avvenire, nella sua estraneità ed eterogeneità.
Sondaggi, previsioni, analisi, misurazioni si moltiplicano a ritmo esasperato. Va scorta qui la volontà di dominare il «futuro peggiore», di controllarlo con il calcolo. È questo il sigillo e il contrassegno della nostra epoca dove il tempo che viene è la minaccia che incombe nel cielo inquinato. Prevale allora un’attesa colma di angoscia, carica di apprensione. Calcoli, anticipazioni, pronostici possono distrarre, senza però reprimere il panico diffuso del terrore.
Quali sono le conseguenze di questo mutato rapporto con il futuro? Per rispondere occorre inoltrarsi in una terra ancora incognita. Non c’è dubbio che i primi effetti investono la storia che, se ha una fine, non sembra invece avere più un fine. Tramonta l’idea del progresso, quel sogno che per secoli aveva spinto gli esseri umani a marciare insieme verso obiettivi comuni; ma scompare anche la fiducia che sia possibile incidere sul corso degli avvenimenti, abbreviando l’attesa, evitando l’inevitabile, migliorando le sorti umane.
Non c’è più riscatto, né riparazione, né salvezza. Che sia la Rivoluzione o il Regno di Dio, la speranza sembra condannata a essere lettera morta. Le sofferenze subite nel presente non trovano promessa di risarcimento nella giustizia a venire. Tutto si rivela perciò terribilmente irredimibile. Proprio perché la storia perde senso, ciascuna esistenza fa storia a sé, dispersa e separata in un destino singolare e indecifrabile. Sono recisi i legami con le altre esistenze e le altre singole storie. Diventa allora impossibile leggere la propria sconfitta in una storia il cui esito deve essere ancora deciso, vedere la propria vita come contributo all’edificazione di un mondo altro, quello della beatitudine celeste o della terrena ricomposizione dei conflitti nella società senza classi. Si lascia in eredità un mondo peggiore alle generazioni che verranno e che perciò non serberanno ricordo. Si rompe il patto atavico tra le generazioni: i padri rimproverano i figli che, a loro volta, rimproverano i padri. Viene meno l’ottica dell’eternità e la visione del futuro remoto. L’esistenza è consegnata all’arco della sua sola vita fisica, rinviata alla propria biografia, entro cui si concentrano tutte le aspettative. Ecco perché assume un valore così decisivo il corpo, dove si gioca fino all’ultimo la lotta contro il limite della morte. Come diventano assolutamente intollerabili il dolore, la malattia, la vecchiaia, così piacere, amicizia, amore rappresentano doni irripetibili strappati al lutto della catastrofe, istanti puntuali e discontinui di un presente messo a frutto per sé in una lotta incessante contro gli altri. La privatizzazione del futuro è fonte non solo di angoscia, ma anche di violenza diffusa. Ciascuno coltiva un’individuale utopia, una chimera fatta di successo, ricchezza, prestigio. I più sono destinati al naufragio. Come esaudire quelle promesse avventate? Come far collimare con la realtà quelle fantasticherie narcisistiche, quei vuoti vagheggiamenti? Le privazioni e i sacrifici, mal sopportati, perché non letti in una comune prospettiva storica, lasciano spazio ad avvilimento, frustrazione, rabbia.
Qui viene alla luce la disfatta della politica che ha perduto ogni dimensione salvifica. Slegata dalla storia, priva di slancio verso il futuro, incapace di una visione complessiva, la politica, ridotta solo a governare, procedendo da emergenza a emergenza, si concentra sul presente senza domani, tentando di assecondare gli eventi, di cavalcare l’onda. L’irresponsabilità, cioè la mancanza di risposte alle generazioni future, sembra perciò il tratto peculiare della politica attuale. Ed è difficile prevedere quali potranno essere le ripercussioni sulla sopravvivenza della democrazia. Soprattutto la politica è incapace di proiettarsi nel futuro immaginando un’alternativa. Si può sognare solo all’interno del realismo capitalista, dove i sogni il più delle volte si trasformano in incubi. Per l’immaginario contemporaneo sembra più facile figurarsi la fine del mondo, piuttosto che rappresentarsi la fine del capitalismo. Sta qui l’enorme divario tra la conoscenza scientifica e l’impotenza politica. A tal punto il capitalismo, occupando tutto l’orizzonte del pensabile, ha assorbito ogni focolaio di resistenza immaginativa, cancellando passato e avvenire: prima ci sarebbe solo una buia arcaicità, dopo solo le tenebre dell’apocalisse.
Per l’umanità chiusa dentro quel globo senza finestre del capitalismo in stato avanzato, dove di umano resta ben poco, è tuttavia concepibile il transumanismo, l’invenzione finale, l’ultimo sogno tecno-gnostico d’immortalità — che si attui con l’ibernazione criogenica o con un trasferimento dell’identità in un software —, sogno vagheggiato da una specie che d’un tratto potrebbe scomparire. Si potrebbe accedere all’immortalità sull’orlo dell’abisso, quando già i mortali non abiterebbero più il pianeta. Che almeno sopravviva il postumano!
Occorrerebbe allora chiedersi che cosa vuol dire possibile e che cosa impossibile, se nel contesto tecnoscientifico, anche più avveniristico, non c’è limite che tenga, mentre in quello politico ogni prospettiva di mutamento è preclusa a priori. Si può diventare immortali, ma non si può uscire dal capitalismo. Il male che viene è certo imputabile anche a questa chiusura politica.

- Donatella di Cesare - Pubblicato sul Corriere del 5 maggio 2019 -

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