venerdì 3 maggio 2019

Oltremare

L’ordine globale dei pezzi di patria di là dal mare
- di Franco Farinelli -
  

Una delle ragioni per cui Kant non volle mai trasferirsi a Berlino, forse la principale, fu che a differenza di Königsberg a Berlino non c’era il mare. Proprio al tempo di Kant, almeno in Occidente, terra e mare divennero idealmente la stessa cosa, ambiti non più opposti ma coerenti tra loro, per la prima volta un continuo. Ma allo stesso tempo iniziò a svanire ogni ricordo di come il nuovo modello del mondo fosse frutto delle secolari fatiche dei marinai. Con la sua Histoire Physique de la Mer, Luigi Ferdinando Marsigli (1658-1730) aveva cancellato, all’inizio del Settecento, ogni idea della distesa marina come abisso insondabile, come infinito sprofondo, iniziando a dargli misura. Alla fine del secolo Alexander von Humboldt salperà dalla costa spagnola per dimostrare il parallelismo degli strati geologici europei con quelli di là dall’Atlantico: la terra emersa riprendeva il sopravvento, come oggetto d’indagine, sull’intera vastità dell’orbe terracqueo, come allora il nostro pianeta (la cui estensione è per due terzi liquida) iniziava a essere chiamato.
Kant però mantiene precisa coscienza di quanto, dal punto di vista cognitivo, si deve all’arte marinaresca. A proposito di tale debito egli si esprime, come al solito, in maniera inequivocabile e insieme sottilmente cifrata, con un linguaggio chiarissimo ma simultaneamente allusivo. E lo fa, tra Marsigli e Humboldt, nella celebre prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, a proposito di quella che lui chiama «la più sicura via della scienza». Che consiste, per lui, nel rivolgere alla natura soltanto quelle domande di cui si è preliminarmente costruita, per mezzo di uno schema geometrico, la possibilità della risposta stessa, perché «la ragione vede soltanto ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno». E ciò va inteso alla lettera: colui che per primo trovò la strada dell’autentico percorso scientifico fece, secondo Kant, una scoperta ancora più importante di quella fatta da chi per primo doppiò il capo di Buona Speranza, il portoghese Vasco da Gama (di cui però egli tace il nome). E l’omissione ha funzione introduttiva, appunto, rispetto all’allusione con cui l’intero periodo culmina, rispetto al nome soltanto indirettamente evocato, che però regge, per assenza, l’intero ragionamento: il nome di Cristoforo Colombo, l’unico cui di fatto da Gama risulta secondo nella ricerca della via delle Indie. Quel che qui importa del discorso di Kant è l’assoluta, letterale coincidenza tra la via della scienza e quella del percorso marittimo, anzi della sua pratica. In base a tale coincidenza il «disegno» che la ragione produce, pur essendo effetto dell’astrazione, non è affatto in sé qualcosa di astratto ma coincide con la rappresentazione cartografica, con la mappa, l’agente e il veicolo della rivoluzione marinara. Rivoluzione che tra Quattrocento e Cinquecento diede nuova figura alla Terra, imponendo su di essa il modello spaziale, retto sull’idea che la relazione decisiva per il funzionamento delle cose sia la loro distanza, da calcolarsi perciò in modo geometrico e matematico, dunque il più preciso possibile.
Nasce così la modernità, per cui (proprio al contrario di come a scuola ci hanno lasciato intendere) la faccia della Terra diventa la copia della mappa, del kantiano «disegno» scientifico e razionale. Vasco da Gama navigava ancora a vista, in base alla tradizionale esperienza, il più possibile accosto alla costa africana. Colombo invece è il primo ad affidarsi anzitutto allo schema cartografico (la Carta dell’Oceano del Toscanelli) e a pretendere che la realtà, a partire da quella ancora sconosciuta, si conformi ad esso. Ecco perché egli non comprende nulla di quel che fa e inventa senza volerlo né saperlo un mondo nuovo, e con esso mette al mondo una nuova epoca. I moderni chiameranno «proiezione» la tecnica in grado di trasformare per via matematica e geometrica la sfera terrestre in una serie di carte geografiche, messa a punto da Tolomeo nel II secolo dopo Cristo e riscoperta in Occidente all’inizio del Quattrocento. Il suo primo e più vistoso risultato sarà la costituzione dello Stato moderno, il cui territorio si configura ancora oggi come una mappa, un dispositivo euclideo retto dalle proprietà che nella geometria classica specificano la natura appunto geometrica di un’estensione: la continuità, l’omogeneità e l’isotropismo, per il quale tutte le parti di cui essa si compone sono orientate nella stessa direzione. Ma, una volta riconosciuta e affermata la propria identità, proiettiva sarà anche la logica degli Stati europei stessi, intesa come materiale appropriazione di lontani territori secondo il codice (esattamente contrario a quella della propria costituzione) della discontinuità e dell’eterogeneità: il capitolo della storia che in termini moderni abbiamo conosciuto sotto il nome di colonizzazione, in parte sopravvissuta anche alla successiva decolonizzazione della seconda metà del Novecento. Spiegava Carl Schmitt che la suddivisione politica del nostro pianeta discende da due originari concetti, dietro i quali agiscono potentissimi e violenti processi: la localizzazione e l’ordine . Quella che ora chiamiamo globalizzazione ricombina la loro relazione secondo la logica della polarizzazione, perché — a differenza della mappa — il globo si articola sulla duplicità dei poli. Così proprio la natura della relazione tra Stati continentali e territori di là dal mare, con la contraddizione di cui essa è espressione, rivela la prima forma, quella arcaica, dell’ordine territoriale globale che oggi avanza. E che vale non soltanto per l’Europa, ma per tutti i continenti.

- Franco Farinelli - Pubblicato sul Corriere del 30/12/2018 -

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