Considerata una pietra miliare degli studi su Adolf Hitler e sul Terzo Reich, quest’opera monumentale, pubblicata per la prima volta in due volumi tra il 1998 e il 2000, è il racconto spaventoso e affascinante di come un misero provinciale venuto da un angolo remoto dell’Austria asburgica sia riuscito a conquistare un potere senza precedenti; di come le idee improbabili e spregevoli di un ex studente d’arte perdigiorno siano riuscite a saldarsi in un’ideologia che per dodici anni segnò il destino di milioni di persone; e di come la folle determinazione a imporre militarmente la sua volontà e a respingere i suoi molti nemici abbia scatenato una catastrofe genocida. In queste pagine Ian Kershaw ricostruisce la parabola dell’uomo che trascinò il mondo ben oltre l’orlo del baratro e lo fa con rigore appassionato e indiscussa autorità.
(dal risvolto di copertina di: "Hitler", di Ian Kershaw. Saggi Bompiani)
I dolori e i rancori del giovane Hitler uomo senza qualità
- di Pietro Citati -
Da giovane Hitler amò soprattutto la madre, Klara: una donna semplice e gentile, con gli occhi grigio-azzurri, che fu l’unica grande passione della sua vita. Quando morì, aveva diciotto anni: nessuno — dissero gli amici — aveva mai visto un dolore così terribile e straziante, che sembrò mettere in dubbio la sua esistenza. Sino alla fine, Hitler conservò e guardò la fotografia della madre. Sognava: fu la vera attività della sua vita, anche quando diventò uno degli uomini più potenti della terra. Leggeva molto: specie i romanzi di avventura di Karl May, e storie di mitologia germanica. Così racconta la bellissima biografia di Ian Kershaw (Bompiani, traduzione di Alessio Catania).
A Linz e poi a Vienna e a Monaco, frequentava le biblioteche. Anche i libri erano sogni. E così l’opera dove andava quasi tutte le sere, con un cappello e un cappotto neri, e un bastone d’avorio: adorava Mozart, l’opera italiana e soprattutto Wagner, il Tristano e il Lohengrin, che vide trenta o quaranta volte. Pensò di creare egli stesso un’opera: un Wagner ancora più sublime e inverosimile. Pensò di diventare architetto: si definì "pittore di architetture". Era solo, incerto, indolente. Non decideva mai: ciò che avrebbe fatto — sebbene sembri inverosimile — fino alla fine della vita. Detestava lavorare: non rispettava gli appuntamenti; quando conosceva qualcuno, dava una stretta di mano di ghiaccio. Qualsiasi cosa facesse, era un dilettante, senza nessun senso della realtà e delle occasioni.
Odiava: era la sua vera passione; anche le persone che non conosceva, o conosceva appena, o aveva soltanto immaginato. Non scriveva, forse per non lasciare nessuna traccia visibile di sé, — quest’uomo incomprensibile.
Si lavava di continuo: non si faceva mai — a nessun costo — vedere nudo; al contrario del suo idolatrato Mussolini, che mostrava sempre collo, petto virile e ogni parte del corpo.
Considerò sempre Linz, dove era nato, la sua patria e sino alla fine della vita pensò di farla diventare (con l’aiuto di Albert Speer) la capitale del mondo. Al teatro dell’opera incontrò il primo amico: August Kubizek. Aveva bisogno di qualcuno che lo ascoltasse: con lui parlava di tutto, persino di cose che non lo interessavano affatto, come le tasse (che non pagava) o i difetti degli insegnanti statali o degli impiegati (che non conosceva); parlava tanto che, alla fine, Kubizek disse: «Mi pare che Adolf dia segni di squilibrio».
Andò a Vienna, per venire ammesso all’Accademia di belle arti, dove fu rifiutato due volte, sebbene fosse certissimo di essere accolto. Rimase a Vienna dal febbraio 1908 al maggio 1913. Secondo il Mein Kampf, Vienna destò in lui soltanto "pensieri lugubri": fu il «più triste periodo della mia vita». Kubizek lo raggiunse, dividendo la sua stanza: una stanza fredda, che puzzava di paraffina, con il letto e i mobili pieni di cimici. Il 24 maggio 1913, portandosi dietro una valigetta con i vestiti, andò a Monaco: era, per lui, la metropoli dell’arte tedesca, e vi frequentò i bellissimi musei.
Dapprima prese in affitto una stanza nel quartiere di Schwabing. Nulla forse ci restituisce l’immagine del giovane Hitler più dei lunghi anni di Vienna. Spesso dormiva all’aperto: o in un modesto caffè della Kaiserstrasse; o in un dormitorio per i senzatetto. Spalò la neve: fece il facchino alla stazione, senza prendere mai in considerazione l’ipotesi di un lavoro stabile. Passava ore e ore al caffè, leggendo giornali di ogni genere, ma specialmente antisemiti.
Aveva un posto riservato: il posto di "Adi". Quando veniva cacciato dal caffè, vagava per la città con i piedi gonfi e lacerati. Sembrava Charlot, nei primi film comici di Chaplin.
Aveva un vecchio cappello stazzonato, pantaloni bucati e scarpe imbottite di carta. Portava i capelli lunghi e la barba incolta. Indossava i calzoni di cuoio bavaresi, con grossi calzini di lana e camicia a quadri rossi e azzurri, e un’inopportuna giacca corta blu. Frequentava una combriccola eterogenea, monologando per ore, come avrebbe fatto per tutta la vita. Qualcuno disse che sembrava un gangster.
Già nei primi anni di scuola aveva rivelato un’inclinazione per il disegno. Ora suonava il pianoforte a coda, che gli aveva regalato la madre: ora disegnava, dipingeva, scriveva poesie, restando alzato fino a tarda notte. Pensava e ripensava: era certissimo che sarebbe diventato un grande artista; anche quando fu cancelliere del Reich, credeva di essere, in primo luogo, un artista. Cominciò a dipingere. Non inventava nulla: copiava; mi duole di non avere mai visto nemmeno una riproduzione dei suoi acquarelli; essi erano molto richiesti, tanto che Hitler e il suo agente non riuscivano a tenere il passo con le ordinazioni. Raffigurava la Karlskirche e scene della "vecchia Vienna", di solito copiate da cartoline: un acquarello ogni due o tre giorni. Forse, più tardi, disprezzò il proprio "dilettantismo". Ma la pittura gli dava di che vivere decorosamente, se non bene. Forse prese dell’oppio.
Quando si sottrasse al servizio militare, rischiò di finire in una prigione austriaca. Un pomeriggio del 18 gennaio 1914, un agente della polizia criminale di Monaco gli ingiunse di andare due giorni dopo a Linz, per iscriversi nelle liste militari. Intanto lo dichiarò in arresto. Ma fu dichiarato di costituzione troppo debole per entrare nell’esercito. Con lo scoppio della guerra, diventò soldato: caporale. Ne fu felicissimo: poi parlò di quegli anni «come del periodo più grandioso e indimenticabile della mia esistenza». Per quattro anni l’esercito fu la sua patria. Il 4 agosto 1918 venne insignito della Croce di ferro di prima classe, segnalato da un tenente ebreo. Il 13 ottobre 1918 fu colpito dai gas: fu portato in un ospedale di Pomerania, dove ebbe una specie di visione, sognando di liberare il popolo tedesco e di rendere di nuovo grande la Germania. Cercò i colpevoli della sconfitta: naturalmente erano gli ebrei, sebbene fino ad allora non fosse stato antisemita. Poi il suo odio per gli ebrei crebbe fino all’ossessione, senza mescolarsi ancora all’anticomunismo.
Quando finì la guerra, Hitler decise di restare nell’esercito. Il 9 novembre 1918 il Kaiser abdicò. Qualche mese dopo il presidente del consiglio, Kurt Eisner, un ebreo radicale, venne assassinato. Ma Hitler non fece nulla per favorire il crollo della repubblica socialista. Dichiarò di essere socialdemocratico: nell’aprile 1919 portò al braccio, durante una sfilata, la fascia rossa della rivoluzione. Tranquillo, moderato, in nulla simile al futuro cancelliere del Terzo Reich, fu incaricato di indottrinare le truppe. Quando il capitano Karl Mayr, che comandava i servizi informativi, lo conobbe, Hitler aveva l’aria «di un povero cane randagio in cerca di un padrone, pronto a condividere la sorte di chiunque gli mostrasse un volto gentile. Al popolo tedesco e ai suoi destini era del tutto indifferente».
Accadde qualcosa di insospettabile, che avrebbe mutato i destini del mondo. Nel marzo 1919 a Hitler venne offerto un corso di insegnamento antibolscevico. Si accorse di saper parlare. Non aveva idee, né ideologie, né concezioni del mondo, non pensava nemmeno da lontano a ciò che avrebbe detto al popolo tedesco nel 1933 o nel 1939. Era soltanto un opportunista: avrebbe potuto, se richiesto, aderire a qualsiasi idea o programma o partito politico; voleva soltanto conquistare potere. Sia ora sia poi era disposto a sacrificare molte delle sue idee principali.
Solo molto più tardi scoprì l’astuzia politica, la capacità di dividere e manipolare le masse, la coscienza di essere infallibile: il Redentore, il Salvatore della Germania e del mondo.
Con il suo lungo completo blu, sembrava una via di mezzo tra un impiegato statale e un sottoufficiale. Era incerto, pieno di complessi di inferiorità verso chiunque avesse un nome e una carica. A molti sembrava una non-persona o un impostore: egli stesso diceva di essere soltanto il tamburino di qualcosa di ignoto e insospettabile. Ma parlava. Iniziava in sordina: poi diffondeva sarcasmi e attacchi personali: infine procedeva verso l’apice, si autoesaltava, esaltava, fino ad affascinare completamente gli ascoltatori. Tutto ciò avvenne rapidissimamente: con una velocità che non riesco a comprendere, in pochissimi anni annientò (parola che adorava) l’Europa, e fu sul punto di annientare il mondo.
- Pietro Citati - Pubblicato su Repubblica dell'8/10/2018 -
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