Le donne come «bene comune»
- Un’idea di Platone ripresa da Marx -
di Luciano Canfora
«Abolizione della famiglia!». Era una delle accuse rivolte spesso agli obiettivi del comunismo. Marx ed Engels intendono reagire, nel secondo capitolo del Manifesto: «Persino i radicali più avanzati — commentano ironicamente — si scandalizzano per questo vergognoso proposito dei comunisti». Alla storia della famiglia borghese e al disvelamento della sua effettiva realtà è dedicata perciò una parte consistente di quel capitolo programmatico: non è un cenno marginale, è un aspetto rilevante della visione del comunismo che i due autori prospettano. L’addebito, strettamente connesso all’accusa di voler abolire la famiglia, è di propugnare la «comunanza delle donne»: «È ridicolo — scrivono i due — lo sdegno altamente morale dei nostri borghesi per la presunta comunanza ufficiale delle donne, dei comunisti (der Kommunisten: cioè propugnata e/o praticata, dai comunisti)».
Dicendo «presunta» implicano una presa di distanze da tale «comunanza», ma la loro risposta è soprattutto una ritorsione: è la famiglia borghese che pratica la «comunanza delle donne». «I nostri borghesi, non contenti di avere a disposizione le mogli e le figlie dei proletari, per non parlare della prostituzione ufficiale, trovano un grande diletto nel sedursi reciprocamente le loro stesse mogli».
La via d’uscita, scrivono, è «l’abolizione degli attuali rapporti di produzione»: «solo così — proseguono — scompare anche la comunanza delle donne, che deriva da tali rapporti, cioè la prostituzione ufficiale e quella non ufficiale» (inatteso scatto moralistico, che pone sullo stesso piano adulterio e prostituzione).
Però la «comunanza delle donne» viene poi recuperata, sia pure in sede di ritorsione polemica: «Il matrimonio borghese è in realtà la comunanza delle mogli. Tutt’al più si potrebbe rinfacciare ai comunisti che essi, al posto di una comunanza delle mogli ipocritamente occultata, vogliono instaurarne una ufficiale, palese». Da questa inattesa svolta dialettica si dovrebbe evincere che ha un fondamento «rinfacciare» ai comunisti che essi intendono instaurare tale «comunanza». Qui parrebbe perciò prodursi una singolare incrinatura del ragionamento, visto che, poco prima, s’è parlato di «presunta» aspirazione dei comunisti alla «comunanza delle donne». Ma la contraddizione i due autori la risolvono (quantunque il testo risulti comunque poco chiaro) ponendo in contrapposizione la cattiva «comunanza» praticata dai borghesi (il cui perbenismo familiare ha due facce: lo «scambio» delle mogli tra borghesi e l’utilizzo ricattatorio delle donne proletarie) alla buona «comunanza» proclamata apertamente, quella appunto che i borghesi «rinfacciano» ai comunisti.
Tale buona «comunanza» discende culturalmente dalla koinonía gynaikôn («comunanza delle donne») ipotizzata da Platone, nel quinto libro della Repubblica, per la sua città ideale: modello che fu trasportato di peso da Tommaso Campanella nella sua utopica Città del Sole. Si tratta di una visione arretrata e arcaica: un arretramento rispetto alla tradizione letteraria e filosofica sette-ottocentesca di «amore libero», recepita in forma simpatetica e quasi pedantesca da Charles Fourier (peraltro l’unico «utopista» per il quale Marx manifesta rispetto!).
Si può osservare che nel concetto stesso di «comunanza delle donne» è insito un punto di vista dispoticamente maschile, che «reifica» l’oggetto della comunanza. Ed è ciò che Aristofane mette in rilievo, con l’arma del grottesco, nella commedia Le donne all’assemblea popolare che ha di mira esattamente la proposta platonica «codificata» nel quinto libro della Repubblica. In quella commedia, è una donna, Prassagora, che legifera in senso comunistico. Essa mette subito in chiaro che, nell’attuazione della messa in comune dell’eros, le donne avranno l’iniziativa e la prevalenza. Affinché gli spettatori ridano della trovata platonica, Prassagora-Aristofane stabilisce anche una regola: che le «vecchie» avranno la prelazione rispetto alle «giovani» nel fruire liberamente degli uomini (norma che determina un parapiglia quando, nel seguito della commedia, si tenta di metterla in pratica). Prassagora-Aristofane crea, insomma, regole in forza delle quali sono gli uomini che vengono «messi in comune» da parte delle donne. Lo fa per far «saltare» la proposta platonica (che fece scandalo e che, secondo Aristotele nel secondo libro della Politica, fu peculiare proposta del solo Platone). Ma non è il solo risultato che ottiene: oltre a far risaltare la difficoltà insita in tali «comunanze», mira a smascherare, capovolgendola, l’impostazione «maschiocentrica» di Platone (rimasta viva in tutta una tradizione che giunge fino a quella pagina di Marx). E sembra quasi voler affidare a una protagonista «eroica» (Prassagora) il messaggio di una vera ed egualitaria comunanza.
Archiviato lo scoglio della comunanza, resta il fatto che la parte più viva e importante delle pagine del Manifesto sul tema della famiglia è la denuncia dell’ipocrisia classista con cui la borghesia pratica e difende questa istituzione. La denuncia racchiusa in quelle pagine trova riscontro non soltanto nella narrativa precedente, coeva e successiva all’anno simbolo 1848 (basti pensare alla sezione dei Miserabili di Victor Hugo intitolata «Fantine»), ma anche e soprattutto nelle più recenti ricerche di storia della famiglia: in particolare su «classe operaia e forme familiari» nella rivoluzione industriale.
Questo tema, rispetto al quale le Chiese mostrarono insensibilità, fu affrontato nel 1993 da Wally Seccombein in un saggio, Famiglie nella tempesta, apparso anche in italiano qualche anno più tardi; nonché in tutta la serie di studi sulla Histoire de la famille che è merito delle «Annales» aver rilanciato e imposto.
- Luciano Canfora - Pubblicato sul corriere del 22 maggio 2019 -
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