Imprese da manuale
- Intervista a Maurizio Ferraris di Marco Bracconi -
Perché un ragazzo del liceo dovrebbe studiare filosofia? «Perché la mente non funziona come i sensi: un formaggio dal gusto forte anestetizza le papille e cancella quello più delicato. L’intelletto invece fa l’opposto: quando prova un pensiero forte, diventa più abile in tutto, anche nell’affrontare questioni accidentali, transitorie. Vuole un esempio? Leggere la Metafisica di Aristotele aiuta a fare un cruciverba, il contrario no». La filosofia serve. E serve ancora di più in tempi frenetici e cangianti. Per questo Maurizio Ferraris, il filosofo del nuovo realismo e della documedialità, è tornato al liceo. Non da studente, ma da autore di un pacchetto di manuali fortemente innovativi. Si chiamano "Pensiero in movimento" (Paravia, gruppo Pearson Italia): salti temporali e interdisciplinari, articoli di giornale, esercitazioni, simulazioni, app digitali e interviste allo stesso Ferraris. « La filosofia apre strade oltre sé stessa. Comprenderla vuol dire formare le competenze del futuro. Qualsiasi esse siano. Pensi a Sergio Marchionne o a Franco Tatò, manager globali, entrambi laureati in filosofia».
Immaginiamolo, questo ragazzo del liceo che studia la storia del pensiero.
«Un grande del ’900, Jacques Derrida, mi raccontò che dopo gli studi alla Normale Superiore di Parigi, luogo formalissimo, era andato a Harvard ed era rimasto scosso da uno studente che, stravaccato sull’ultimo banco, alzò la mano e disse al professore: “Signore, su questo punto sono in disaccordo con Platone”. È l’atteggiamento giusto nei confronti della filosofia. Purché si sappia che cosa ha detto Platone...».
Il “movimento” del titolo è la cifra del tempo o della storia filosofica?
«È la cifra dell’umanità. Non abbiamo idea se gli elefanti abbiano storicità, potrebbe essere, visto che hanno la memoria. Ma nulla ci lascia pensare che evolvano culturalmente: sono sempre vestiti allo stesso modo, non hanno libri, non modulano diversamente i barriti. Certo, sono diversi dai mammut, ma meno di quanto un umano di oggi sia diverso dal bisnonno. Per capire questo movimento bisogna saper vedere da lontano meglio che da vicino. Questa presbiopia è ciò che cerco nella filosofia. E su questa linea mi sono mosso con chi mi ha aiutato in questo lavoro: Enrico Terrone, Daniela Tagliafico, Alessandra Saccon».
Nei suoi manuali si rispetta la cronologia. Poteva essere altrimenti?
«Molti sostengono di sì, ma come metti insieme tanti autori se non raccontando una storia di famiglia? Kant che generò Hegel che generò Nietzsche… Con molti Edipi (i filosofi sono litigiosi) e poche Giocaste (la filosofia è stata a lungo monopolizzata da uomini). Poi certo la storia di famiglia non basta».
E infatti, spesso, quest’ordine viene integrato con incursioni nella contemporaneità. Per esempio mettendo a confronto quello che diceva Pitagora sulla matematica e quello che oggi dice Carlo Rovelli.
«Esatto. Non basta dire che Kant era stato impressionato da Newton e da Hume. Bisogna prendere sul serio la Critica della ragion pura, metterla alla prova con lo stato attuale delle conoscenze, e poi magari scoprire che molti conti non tornano».
Avete addirittura inserito articoli apparsi sui giornali. Come nel caso di Massimo Cacciari.
«Qui la risposta ci viene servita su un vassoio d’argento da Hegel che, dopo aver pubblicato la Fenomenologia dello spirito, diresse un piccolo quotidiano, la Gazzetta di Bamberga: la filosofia è il proprio tempo compreso con il concetto. Il che, se ci pensiamo, è un buon motto non solo per un filosofo, ma anche per un giornalista».
Il cuore dei manuali è il racconto classico delle “ filosofie”: nel suo è arricchito da rimandi ad altre discipline, connessioni tra autori e salti temporali. Il testo è ricco di link. Molto internettiano, no?
«Sì, ma solo nella misura in cui il web non è una mutazione genetica che determina una nuova specie. Il web, come ogni trasformazione tecnico- sociale, il capitalismo industriale, la falange macedone o l’invenzione del fuoco, non è alienazione che ci porta lontani da ciò che noi siamo veramente: è piuttosto rivelazione della nostra essenza. La tecnica, come in una processione, porta alla ribalta cose antiche: Aristotele diceva che l’uomo è un animale dotato di linguaggio e il telefonino lo ha dimostrato a oltranza. Specie nei vagoni silenzio di Trenitalia».
Il punto di vista dell’arte è una delle strutture “fisse” di rimando interdisciplinare. Si può capire Nietzsche anche attraverso un quadro di Matisse. Perché l’arte e non il cinema o la letteratura, per esempio?
«Cinema e letteratura sono rappresentati, ma l’arte visiva lo è un po’ di più perché permette di cogliere un concetto con un solo colpo d’occhio. La trasformazione del gusto in età alessadrina, che è anche il trapasso da Platone e Aristotele agli Stoici e agli Epicurei, si può spiegare con una immagine del Laocoonte o con la lettura delle Argonautiche di Apollonio Rodio. Solo che nel secondo caso serve molto più tempo, e mentre gli studenti leggono le Argonautiche il professore di filosofia è già arrivato a Tommaso d’Aquino».
La scrittura filosofica. Al tempo dell’emoticon si possono gustare i testi di un Erasmo o di un Hegel (che lei propone, ovviamente tradotti)?
«Mi verrebbe da rispondere come Mario Praz quando gli chiesero se avesse letto Guerra e pace in russo: “Certo, mica è scritto in turco!”. Nell’età del telefonino e del tablet non siamo regrediti ( e se lo siamo è colpa nostra e non sua). I nuovi metodi espressivi si aggiungono, non sostituiscono. Apparirebbe futile andare a insegnare agli studenti l’uso delle faccine ( è un concetto balordo di modernità), ma come professori possiamo insegnargli ad apprezzare testi che vengono dal passato ma che illuminano il presente. E poi tutti quanti, studenti e allievi, possiamo continuare serenamente con le nostre faccine».
Il “ pubblico” a cui si rivolge è abituato alla vulgata delle frasi filosofiche che viaggiano via meme sui social.
«Quei meme stanno alla filosofia come le reliquie stanno alla santità. E, come le reliquie, sono tutt’altro che inutili. Da giovani le immagini contano. Io ho deciso di fare filosofia guardando la scena del Conformista di Bertolucci in cui il professore antifascista racconta il mito della caverna di Platone».
Auto-interviste. Mappe. Test. Esercizi di logica: uno sforzo titanico per rendere ciò che sembra astratto più concreto agli occhi di un ragazzo?
«Sembrano auto-interviste ma non lo sono: non mi sono fatto una domanda e dato una risposta, sono stati i collaboratori della casa editrice a pormi i quesiti. Lo scopo è spezzare un testo e mostrarne la complessità in modo non anacronistico. Quanto alle mappe, io ricorro spesso a schemi per organizzare libri, articoli, lezioni, e il primo beneficiario di questo sono io. Infine, i test e gli esercizi di logica: sarebbe ben strano che un insegnante di matematica, dopo aver spiegato cos'è una moltiplicazione, non chiedesse agli studenti di fare delle moltiplicazioni. Perché in filosofia non deve succedere?».
Per questo propone alle classi di simulare dibattiti o petizioni sui social, tecniche concrete di intervento filosofico nel reale?
«È necessario. C'è chi dice che istruendo filosoficamente i cittadini avremmo una piena democrazia: non ne sono sicuro, perché i conflitti politici nascono di solito da interessi contrapposti e non da errori di ragionamento. Ma addestrarsi a fare buoni ragionamenti, in contatto con esperienze di pensiero di menti illuminate, è importante. La filosofia non ci ha salvato dal fascismo, ma quando gli ufficiali che avevano giurato fedeltà allo Stato decisero di uccidere Hitler, come riuscirono a superare la contraddizione tra parola data e interesse dell'umanità? Con la giustificazione del tirannicidio in San Tommaso».
Fare per capire, insomma?
«Sì. Platone proponeva l'immagine patetica del filosofo che dopo aver contemplato il sole delle idee ritorna nella caverna e non si raccapezza nell'ombra: tanto valeva allora starsene nella caverna, senza ricorrere a questo argomento da politico trombato. Su questo punto, come lo studente di Derrida, "non sono d'accordo con Platone". Ha molto più ragione Aristotele, che - come dicevo all'inizio - osserva che mentre i sensi, quando hanno assaporato il più forte, non percepiscono il più debole (l'esempio del formaggio), l'intelletto, se ha pensato al livello più alto, diventa anche più bravo nel comprendere il livello più basso».
Che differenza c'è tra divulgare concetti filosofici, come lei fa spesso al pubblico degli appassionati ai festival, e insegnarli?
«La differenza non sta in quello che dico, ma in come mi sento io nel dirlo. Quando parlo ai festival, lo faccio per un'ora: il danno, se c'è, non è grave. Ma a lezione sento su di me la responsabilità di giovani che mi sono affidati per almeno trentasei ore. E poi ricordo ancora il sarcasmo con cui io e i miei compagni giudicavamo i nostri professori... Per anni sono entrato in aula dicendomi: "Mi smaschereranno"».
Non vi siete risparmiati sulle biografie dei filosofi. Perché?
«Perché era la prima cosa che leggevo dei filosofi da studente».
Faccia finta che io abbia quindici anni. E mi convinca in quattro righe che mi può essere utile sapere cos'è l'essere parmenideo.
«Quando un burlone viene a dirci che ha abolito la povertà dimostra di avere poca dimestichezza con la legge secondo cui l'essere è e il non essere non è, e che non basta una parola per far scomparire una cosa».
Fuori i nomi: il filosofo antico e quello della modernità più utili per dare a un ragazzo strumenti di comprensione del reale.
«Aristotele e Leibniz. Aristotele, perché ha dimostrato che la filosofia può occuparsi davvero di tutto. Rispondendo a problemi tipo: Perché sudano i piedi? Perché il freddo fa venire la pelle d'oca? Perché la ginnastica fa dimagrire? Questi e infiniti altri quesiti sono affrontati nei Problemata, un testo attribuito probabilmente a torto ad Aristotele, ma che sicuramente tratta problemi dibattuti nella sua scuola. Come dire che la ricerca non ha mai fine. E Leibniz, perché ha capito tutto del web con tre secoli di anticipo. Sino a pochi anni fa capire di cosa parla quando parla di monadi era un'impresa disperata. Il professore descriveva la monade come una forza senza porte né finestre che rappresenta l'universo dal proprio punto di vista. A cosa si riferiva? La costernazione si diffondeva per la classe, i più audaci avevano voglia di chiedere chiarimenti, ma non è detto che lo statuto della monade fosse chiaro al professore. Però oggi (e sono i miracoli della filosofia, se vogliamo, e della tecnica) si è capito cosa siano le monadi. Siamo noi: forze spesso animate dal risentimento che si rappresentano il mondo intero dalla loro prospettiva; che non hanno porte ma solo una finestra: lo schermo del loro telefonino; e che litigano perché, diversamente che nella visione che aveva Leibniz, il web non è governato dall'armonia, anzi, si direbbe il contrario. Ovviamente Leibniz non pensava a internet ma all'assetto metafisico del mondo, non a un contesto tecnologico-sociale. Ma, visto che è anche uno dei numi tutelari della riflessione che ha portato alle AI, non sorprende che tra la sua metafisica e la nostra società ci sia una impressionante analogia».
Consigli al professore che adotterà questa manualistica?
«Non sia rispettoso. È solo un palinsesto e un promemoria. Con questo sono consapevole di aver dato una ingiunzione impossibile, l'ingiunzione di non rispettare l'ingiunzione. Ma so anche che studenti e professori se ne infischieranno delle mie ingiunzioni, ed è per questo che chiudo questa intervista a cuor leggero».
- Marco Bracconi - Pubblicata su Repubblica del 24/2/2019 -
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