Come e quando la comunità ha smesso di essere il nostro orizzonte sociale e psicologico? Se la società urbano-industriale ha contribuito a indebolire relazioni e rituali depositari di una memoria condivisa, il colpo decisivo è arrivato dalla Rete, con le sue communities virtuali in cui velocità, tweet e like hanno sostituito qualità, conversazione, amicizia. In questa era dei non luoghi e dell’eterno presente, tuttavia, il bisogno di comunità resta. Perché allora non provare a ricostruire un «noi» fondato su autentici legami di prossimità?
(dal risvolto di copertina di: "Comunità", di Marco Aime. Il Mulino)
Il senso perduto di comunità
- di Marco Aime -
C’era un bambino, che amava sedersi sulla sponda del fiume, dopo un temporale e guardare, con occhi sognanti l’arcobaleno. Un gioco di acque riflesse nel sole, un nastro di pioggia e colori, una seta lunga e sottile dalla vita breve. Il bambino chiudeva gli occhi perché non svanisse nel cielo morbido con il primo sole. Lo guardava specchiarsi nell’acqua senza patria del fiume, un riflesso diviso tra due mondi a metà.
Quel bambino divenne uomo e studiò architettura. Si chiamava Mimar Hayruddin e fu lui a pensare che quell’arco doveva diventare realtà, non svanire a ogni sole. Così progettò un arcobaleno di pietra, che unisse le due parti della città: quella musulmana e quella cristiana. Era il 1566 e per ordine del sultano Solimano Mimar costruì quel ponte sulla Neretva, che ancora oggi dà il nome alla città di Mostar, nel sud della Bosnia-Erzegovina. Non so se sia andata davvero così, ma mi piace pensarlo e quel ponte divenne un simbolo: per secoli quel sottile ed elegante arco di pietra che univa due mondi, due modi di pregare dio, due storie diverse fu la testimonianza di come sia possibile convivere nella diversità.
Così nasce una comunità, dalla volontà di non pensarsi diversi, di volere condividere spazi e tempi, di pensare insieme a un domani comune. «Comunità» è una parola calda, che evoca intimità, la pronunciamo con una certa nostalgia. Infatti, mai questo termine è stato usato come da quando ne sentiamo la mancanza. Perché? La dilatazione delle aree urbane e la frammentazione del lavoro hanno inferto un primo colpo a quei rapporti «faccia a faccia» che ci facevano sentire parte di una comunità. Il cittadino è progressivamente diventato più solo e isolato. La città finisce così per frammentare il suo spazio e i legami tra le persone, dando vita ad aggregazioni ridotte, che non si trasformano mai in comunità vere e proprie.
A questo si aggiunga che la crescente rapidità di movimento. L’accelerazione impressa alle nostre esistenze e ai flussi di informazione che quotidianamente ci avvolgono, ci hanno portato a vivere in un eterno presente, privo di passato e di memoria. L’ora e il qui diventano preponderanti rispetto al tempo passato e a quello futuro. È la surmodernità, un’accelerazione della storia in cui la rapidità ha annullato le distanze, e pertanto il tempo prevale sullo spazio. Il progressivo venire meno di quei rituali collettivi, che contribuivano a mettere in scena una società, induce una progressiva perdita della memoria e del senso di appartenenza. I rapporti si fanno più fugaci e meno durevoli.
La sempre più massiccia presenza di tecnologia mobile di comunicazione interferisce non poco nella formazione delle relazioni umane. La sola presenza di telefoni mobili inibisce lo sviluppo della vicinanza e della fiducia e riduce l’estensione entro cui gli individui provano empatia e comprensione per i loro partner. Il medium digitale priva la comunicazione della tattilità e della corporeità e questo rischia di condurre a una sorta di progressiva scomparsa della controparte reale. La conversazione richiede tempi e spazi, che siamo sempre meno disposti a concedere. L’individualismo della società urbano-industriale ci ha spinti a rinchiuderci sempre di più nella nostra bolla, senza però rafforzare quella capacità di introspezione, utile a comprendere noi stessi e gli altri e il mondo fuori. Dal face to face si è passati allo screen to screen.
«Condivido dunque sono», questo sembra essere il nuovo slogan, ma condividere è convivere? Per convivere occorre avere un orizzonte comune, dialogare, costruire legami e amicizie durature. I legami tra le persone, che stanno alla base di ogni comunità, si fondano sullo scambio e sulla fiducia reciproca ed entrambi hanno bisogno di parole e sentimenti condivisi. Quando tali legami si sfilacciano, si erodono, allora si cerca la chiusura, ci si rifugia nell’identità, si comincia a escludere gli “altri”. Quando ai ponti si sostituiscono i muri e le porte, la comunità si chiude e muore.
«La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo» ha detto Nietzsche e non a caso nel 1993 quel piccolo ponte sulla Neretva, insignificante dal punto di vista strategico, è stato distrutto dalle artiglierie nemiche. Perché era un simbolo troppo forte per chi invece, e oggi sono molti, vuole dividere. Eppure di ponti abbiamo bisogno anche per guardare avanti. Il futuro, il nostro e quello degli altri, è su un’altra sponda: come raggiungerla? Con la coscienza. Con la coscienza e la responsabilità che dovremmo provare per chi viene dopo di noi. Sono questi i materiali che dobbiamo usare per costruire quel ponte.
Se non riusciamo a costruire ponti allora facciamoci contrabbandieri, come diceva il compianto Alexander Langer. Se al mondo c’è chi traccia confini disegnati su presunte identità, su false razze, sul colore della pelle allora dobbiamo cercare di attraversare quelle frontiere, di frodo magari, per portare al di là della linea ciò che manca. È questo che facevano i contrabbandieri. Il contrabbando è un’attività illegale, che si muove ai margini, ma che spesso risulta necessaria alla sopravvivenza di una comunità. La storia dell’umanità intera è fatta di contrabbando: come si è diffusa la scrittura, l’agricoltura, la scienza? Grazie al contrabbando di idee da una comunità all’altra.
Oggi è il tempo di contrabbandare la coscienza, la coscienza di essere tutti umani.
- Marco Aime - Pubblicato su Il Sole del 19/5/2019 -
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