venerdì 31 gennaio 2020

Il 2019-nCoV e la frattura metabolica

Coronavirus: la natura reagisce
- di Michael Roberts -

Nel momento in cui scrivo, il nuovo mortale coronavirus 2019-nCoV, collegato alla SARS [sindrome respiratoria acuta grave] e alla MERS [sindrome respiratoria medio-orientale], che apparentemente ha avuto origine nei mercati di animali vivi di Wuhan, Cina, sta cominciando a diffondersi in tutto il mondo. Secondo gli ultimi dati, a oggi, globalmente ci sono poco meno di 10.000 casi, di cui solo 130, o poco meno, al di fuori dalla Cina. Finora, ci sono stati 230 decessi, nessuno di essi al di fuori della Cina, vale a dire circa un 2% di mortalità, a confronto con il 10% che si ebbe nel 2009 con la SARS. Il tasso di diffusione è circa l'1,5%, ed è una cifra che appare in rallentamento, sebbene possa essere troppo presto per poterlo dire.
Quest'infezione è caratterizzata dalla trasmissione da un essere umano all'altro e da un apparente periodo di incubazione di 2 settimane, prima che la malattia colpisca, e così probabilmente l'infezione continuerà a diffondersi per il pianeta.
Come ha affermato l'epidemiologo Rob Wallace, dell' Institute for Global Studies, dell'University of Minnesota, in Climate and Capitalismo, «I focolai sono dinamici. Certo, alcuni si esauriscono, incluso quello del 2019-nCoV. Occorre che si evolva nel modo giusto, e bisogna avere un po' di fortuna per poter avere possibilità di estirparlo. A volte avviene che non ci sono abbastanza casi perché possa continuare il contagio. Esplodono altri focolai. Quelli che arrivano sul palcoscenico globale possono cambiare il gioco, anche se alla fine eventualmente si estinguono. Stravolgono la routine quotidiana, perfino in un mondo che si trova già in tumulto ed in guerra.» Wallace aggiunge: «L'epidemia di SARS si è dimostrata meno virulenta di quanto inizialmente sembrasse. Ma ha continuato ad uccidere tranquillamente pazienti, ad una grandezza che è andata ben oltre quelle che sono state le prime previsioni. L'H1N1 (2009) nel primo anno ha ucciso 579.000 persone, producendo complicazioni 15 volte maggiori di quelle che erano state previste inizialmente dai soli test di laboratorio. In simili condizioni di diffusione, la bassa mortalità relativamente ad un grande numero di infezioni può ancora causare un grande numero di decessi. Se vengono infettate quattro miliardi di persone, ad un tasso di mortalità del 2%, che corrisponde a metà di quello che fu il tasso di mortalità della pandemia di influenza del 1918, rimarrebbero uccise 80 milioni di persone.»
Ma a differenza di quanto avviene con l'influenza stagionale, non esiste né "l'immunità di massa", né un vaccino in grado di rallentarla. Anche in una situazione di sviluppo accelerato, ci vorranno almeno tre mesi per produrre un vaccino per il 2019-nCoV, ammesso che funzioni. Gli scienziati sono riusciti a produrre un vaccino per l'influenza aviaria H5N2, solo dopo che si era estinto il focolaio negli Stati Uniti. Queste incognite - la fonte esatta, l'infettività, la penetranza e il possibile trattamento - tutte insieme spiegano per quale motivo epidemiologi e funzionari della sanità pubblica siano preoccupati per il 2019-nCoV.
Ma qualunque sia la fonte specifica del 2019-noV, sembra che ci sia una soggiacente causa strutturale: la pressione che viene esercitata dalla legge del valore per mezzo dell'agricoltura industriale e della mercificazione delle risorse naturali. La mercificazione della foresta potrebbe avere abbassato la soglia ecosistemica ad un punto tale che nessun intervento di emergenza può riuscire ad abbassare un focolaio fino a spegnerlo. Per esempio, relativamente all'epidemia di Ebola in Congo (cosa che sta accadendo nuovamente), «La deforestazione e l'agricoltura intensiva possono eliminare l'attrito stocastico dovuto all'agricoltura tradizionale, che in genere impedisce al virus di innescare abbastanza contagio.»
Si suppone che la causa dell'epidemia di 2019-nCoV siano i mercati di animali esotici di Wuhan, ma potrebbe essere dovuto anche all'allevamento industriale di maiali in tutta la Cina. E ad ogni modo, «perfino le specie più selvagge vengono introdotte nella catena del valore agricolo: tra cui struzzi, istrici, coccodrilli, pipistrelli, lo zibetto delle palme, le cui bacche parzialmente digerite oggi forniscono il chicco di caffè più costoso del mondo. Alcune specie selvagge stanno arrivando sulle forchette ancor prima di essere identificate scientificamente, incluso il nuovo pesce-palla dal naso corto trovato in un mercato di Taiwan.»
Vengono tutti trattati come se fossero prodotti alimentari. Nella misura in cui la natura viene spogliata luogo per luogo, specie per specie, ciò che rimane diventa molto più prezioso. Nel frattempo, la diffusione delle industrie agricole potrebbe costringere sempre più aziende specializzate in alimenti selvatici a "pescare a strascico" più a fondo nella foresta, aumentando così la possibilità di raccattare un nuovo patogeno, mentre al contempo viene ridotta quel genere di complessità ambientale attraverso cui la foresta interrompe le catene di contagio.
Recentemente, c'è stata un bel po' di discussione accademica tra marxisti ed "ecologisti verdi" a proposito della relazione tra uomo e natura. L'argomento è se il capitalismo abbia causato o meno una «frattura metabolica» tra l'homo sapiens ed il pianeta, distruggendo il prezioso equilibrio tra specie e pianeta, generando in tal modo virus pericolosi e, naturalmente, un riscaldamento globale potenzialmente incontrollabile ed un cambiamento climatico che potrebbe distruggere il pianeta.
Il dibattito verte sull'opportunità di usare il termine «frattura metabolica», dal momento che esso suggerisce che una volta, nel passato, prima del capitalismo, c'era un certo equilibrio metabolico, o un'armonia, tra gli umani, da un lato, e la "natura", dall'altro. Ma la natura non si è mai trovata in un qualche stato di equilibrio. C'è stato cambiamento ed evoluzione, con specie che si sono estinte e che sono emerse molto prima dell'homo sapiens (per dirla con Darwin). E gli esseri umani non si sono mai trovati nella posizione di poter dettare condizioni al pianeta, o alle altre specie, senza ripercussioni. La "natura" stabilisce l'ambiente per gli esseri umani e gli esseri umani agiscono sulla natura. Per citare Marx: «Gli uomini fanno la propria storia ma non la fanno come più piace loro; non la fanno in delle circostanze scelte da essi stessi, ma sotto delle circostanze che hanno incontrato e che ha ereditato direttamente dal passato.» Ciò che appare chiaro, è che la spinta infinita al profitto, da parte del capitale, e la legge del valore esercitano un potere distruttivo non solo attraverso lo sfruttamento del lavoro, ma anche attraverso il degrado della natura. Ma la natura reagisce periodicamente, e lo fa in maniera mortale. L'epidemia di coronavirus può svanire, come hanno fatto le altre epidemie prima, ma è assai più probabile che ci saranno altri, e più mortali, agenti patogeni possibili. E l'epidemia può avere solo un effetto limitato sul capitalismo, per mezzo del crollo del mercato azionario e forse con un rallentamento della crescita globale e negli investimenti.
D'altra parte, potrebbe essere anche un fattore scatenante una nuova crisi economica, dal momento che l'economia capitalista ha già rallentato fin quasi a raggiungere la «velocità di stallo». Gli Stati Uniti crescono solo del 2% l'anno, Europa e Giappone appena l'1% e le principali cosiddette economi emergenti del Brasile, Messico, Turchia, Argentina, Sudafrica, e Russia sono sostanzialmente statiche. Lo scorso anno, anche le enormi economie di India e Cina hanno rallentato in maniera significativa, e se la Cina subisce un colpo economico a partire dalla distruzione causata dal 2019-nCoV, questo potrebbe anche essere un punto di svolta.

- Michael RobertsPubblicato il 31/1/2019 su Michael Robert Blog -

mercoledì 29 gennaio 2020

Contraddizioni

Che tipo di democrazia è la democrazia populista? Da non confondersi con i regimi dittatoriali e autoritari, il populismo – nella prospettiva dell’autrice – va considerato una variante del governo rappresentativo, basata sul rapporto diretto tra un leader e il «suo popolo», rivendicato come «vero» contro l’establishment. Il rischio democratico non risiede allora nella domanda di espansione della democrazia, o nell’enfasi posta sul richiamo al popolo, ma nella selettività con cui il leader individua il suo popolo, facendone un’arma di parte da brandire contro l’altro. Il popolo dei populisti di fatto rifugge dall’inclusività e dalla generalità del popolo sovrano. Un contributo illuminante alla comprensione di un atteggiamento e di una prassi politica segnati da un crescente successo.

(dal risvolto di copertina di: Nadia Urbinati, "Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia", Il Mulino.)

Una democrazia fondata sul populismo
- di Roberto Esposito -

Quando, nel suo discorso di insediamento alla Casa Bianca, Trump affermava che non era lui a parlare, ma il popolo americano, esprimeva qualcosa che andava ben oltre una vittoria elettorale. Quello che nelle sue parole si compiva era il percorso aperto qualche decennio prima da Perón, allorché sosteneva di incarnare nella propria persona il popolo argentino. Non diversamente Chávez aveva dichiarato di non essere un individuo, ma l’intero popolo venezuelano. A unire tali dichiarazioni è più che un'aria di famiglia. È un cambio di paradigma riassunto efficacemente da Matteo Salvini all'indomani delle elezioni italiane: «Il punto non è più destra contro sinistra, ma popolo contro establishment». Confinato fino a poco fa nella periferia del mondo, il populismo si è progressivamente installato al cuore della democrazia occidentale. Ma cosa è davvero il populismo? Come si genera e soprattutto come cambia, una volta andato al governo? È solo un avversario politico del liberalismo o l'anticamera di un nuovo tipo di fascismo? Una risorsa o una minaccia per la democrazia?
Il nuovo libro di Nadia Urbinati, appena edito da il Mulino, "Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia", mette ordine nella disparità delle interpretazioni, fornendo una risposta equilibrata a tali domande. Il populismo non è un nemico venuto dall'esterno, ma un prodotto deformato della stessa democrazia, Non solo perché nasce dai suoi scompensi - l'allargarsi delle disuguaglianze sociali, il prevalere delle potenze finanziarie globali a scapito degli interessi nazionali -, ma perché resta formalmente dentro il perimetro democratico. Non intende rovesciare i suoi istituti, come fa il fascismo, ma li "stressa" al punto da minarne il funzionamento. Sostituendo al classico clivage destra/sinistra il discrimine popolo/casta, divarica i presupposti della democrazia rappresentativa. Da un lato assolutizza il principio maggioritario, attribuendo alla parte vincente il ruolo del tutto. Dall'altro declassa i principi liberali della separazione dei poteri e dei diritti costituzionali a ostacoli da superare.
Il presupposto dei suoi sostenitori - non solo di destra, ma anche raffinati intellettuali di sinistra come Ernesto Laclau, Chantal Mouffe e Nancy Fraser - è il contrasto di fondo tra democrazia e liberalismo, teorizzato a suo tempo da Carl Schmitt in funzione antiparlamentare. È proprio quanto Urbinati contesta, saldando liberalismo e democrazia fino a considerare l'espressione "democrazia illiberale" una contraddizione. Mentre una democrazia populista può esistere, almeno fin quando il populismo non entri in contrasto con i suoi stessi presupposti. Che sono da un lato il rapporto immediato tra popolo e movimento - attraverso l'uso ininterrotto del web - e dall'altro l'identificazione salvifica tra movimento e leader.
Ora, se entrambe le cose risultano realizzabili stando all'opposizione, diventano problematiche quando il movimento populista va al governo. Intanto perché deve, prima o poi, trasformarsi in partito. E poi perché viene meno la sua proclamata diversità dalle altre forze politiche. Entrambe queste difficoltà sono attualmente sperimentare dai 5stelle, cui Urbinati dedica un'analisi ravvicinata in confronto con Podemos.
a forza del suo libro sta nella capacità di cogliere analogie e differenze - non solo tra le diverse compagini populiste, ma anche tra esse e i movimenti di protesta, del tutto compatibili con le dinamiche democratiche. A dividerli è una diversa concezione del conflitto politico. Nel caso delle proteste di massa espressivo di partecipazione politica, nel caso del populismo tendente all'esclusione dell'avversario, bollato come nemico del popolo. Quest'analisi mi pare il larga misura condivisibile. Con due integrazioni. La prima, relativa al passato, è che molte delle contraddizioni espresse dal populismo risalgono, prima ancora che agli scompensi della democrazia, alla costituzione delle categorie politiche occidentali, fin dall'origine sdoppiate in due significati disomogenei. Per esempio, il termine "popolo" è stato inteso da sempre in due sensi diversi e contrastanti, riconducibili da un lato alla "parte popolare" e dall'altro all'intera cittadinanza, ora alla plebs ora al populus.
L'altra considerazione è che il modo più efficace per affrontare i populismo dilaganti sta nel ripensare radicalmente il rapporto tra movimenti e istituzione. Non solo istituzionalizzando i movimenti, ma anche "mobilitando le istituzioni".

 Roberto Esposito - Pubblicato su Repubblica del 23/1/2020 -

martedì 28 gennaio 2020

Netflixazione !

Istruzioni per rallentare il tempo
- di Jorge Carrión -

Che cos'hanno in comune l'algoritmo di Google, l'aspiratore clitorideo e la vendita su Internet secondo Amazon? Il fatto che queste tre cose competono tra di loro per accorciare il tempo che intercorre tra la formulazione del desiderio ed il suo ottenimento. Dopo pochi millesimi di secondo, pochi minuti  o in poche ore sei già arrivato ad ottenere il risultato della tua ricerca, il tuo orgasmo o uno scatolone sull'uscio di casa. E la tempistica continua ad accorciarsi. L'accelerazione del tempo sembra essere un fenomeno irreversibile. Gli esseri umani sono particelle dell'atmosfera del capitalismo. Non esiste alcun fuori, ma potrebbe esserci un dopo. Una nuova scuola filosofica, l'accelerazionismo - la cui bibbia potrebbe essere l'omonimo volume edito dall'editrice Caja Negra - mette in discussione un tale incremento esponenziale della velocità del mondo. Le nuove tecnologie ed i nuovi processi non hanno fatto altro che moltiplicare solamente gli stimoli e i desideri, senza però valutarne né i bisogni né le conseguenze. Contro un simile orizzonte neoliberista, questa costellazione di pensatori che si mette sulla scia del "Manifesto per una Politica Accelerazionista", firmato nel 2013 da Alex Williams e Nick Srnicek, propone quelle che sono delle strategie di appropriazione e riformulazione , affinché si possa trarre vantaggio da questa vertigine e che possa arrivare prima una qualche sorta di post-capitalismo. Ma una posizione utopica del genere, ci posiziona nell'intervallo nel quale ci si aspetta una grande trasformazione globale. Cosa fare nel frattempo, e che possa riguardare la prassi quotidiana e personale?
Una soluzione era quella che veniva data dai classici. Nel greco antico, si faceva distinzione tra Cronos e Kairòs, [*] tra l'ora dell'orologio e del calendario e quella che era l'ora e il tempo della vita. Il ritmo del divenire contemporaneo viene segnato dagli aggiornamenti nei nostri dispositivi. Ma mentre tutta la tecnologia rimane ci lega al tempo cronologico, le esperienze artistiche e sportive, le emozioni e i sentimenti ci elevano alla vita umana. Che cosa hanno in comune fra di loro la libreria, la piscina, il letto, il cinema, il teatro e il mare? Il fatto che per mezzo loro, noi ci disconnettiamo. O meglio, ci riconnettiamo.
I meccanismi del capitalismo del 21° secolo continuano a perfezionare, sempre più rapidamente, i sistemi di produzione, di circolazione e di consumo. Non importa se tutto questo causa dei problemi etici e culturali, purché producano benefici economici. Tutti questi processi condividono la volontà di alterare radicalmente quella che è la nostra idea di tempo. La tecnologia ed il capitalismo hanno creato una nuova fede: la Chiesa dello sconvolgimento del tempo. Ma la vita umana continua ad essere piena di esperienze a lungo termine: istruzione, maternità, mutui bancari, pensione. In modo tale che ci troviamo ad affrontare una sfida: rendere compatibili tutte le maturazioni, la costanza, gli investimenti e le aspettative, che ci hanno definito per secoli, con quello che invece è un contesto di fretta ed urgenza. Forse questa nuova era temporale ha avuto inizio circa 25 anni fa, quando la posta elettronica fu in grado di ottenere quello che non erano riusciti a fare i fax: sostituire le lettere. I termini e le scadenza della corrispondenza epistolare erano assai simili a quelli del romanzo d'appendice, della narrativa a puntate, delle pubblicazioni settimanali o mensili, a quelli degli annuari. E così, in un tempo assai breve, ci siamo abituati a non essere noi a decidere per quel che riguarda la nostra vita in quanto lettori, nella nostra vita familiare, nella nostra vita in quanto amici. In modo che, quando Netflix ha cominciato ad emettere tutti insieme gli episodi di una serie - eliminando l'attesa settimanale che per decenni aveva definito quella che era il nostro rapporto con la televisione - ci siamo rapidamente adeguati alla nuova offerta. E anche a tutte quante le altre: abbiamo cominciato a vivere in quella che è una costante notifica ed un costante aggiornamento di notizie, messaggi, software, versioni, like. I cedolini delle buste paga, i resoconti delle nostre carte di credito, i pagamenti delle mensilità di affitto o della rata del mutuo, le bollette - tuttavia - continuano ad arrivarci mensilmente. E sebbene, sul mercato, siano diventati abituali  i contratti temporanei e le assunzioni con una data di scadenza, i cicli scolastici continuano ad essere gli stessi che c'erano nel 20° secolo. E nonostante il fatto che i divorzio sia oggi cosa assai comune, un figlio continua ad essere per sempre.
Dalla scuola materna fino alla specializzazione, i centri di formazione sono arrivati ad un accordo circa il fatto che l'istruzione debba funzionare per mezzo di progetti. Ormai, gli studenti non devono più avere come orizzonte finale l'esame o la conclusione di un corso, bensì la presentazione della scheda di un progetto. Questa è una delle parole chiavi della nostra epoca. La pedagogia della proiezione di prepara per un futuro lavorativo nel quale gran parte del tempo verrà dedicato a generare incessantemente nuovi progetti. Un archeologo del futuro, potrà capirci meglio leggendo tutti quei dossier di idee che non si sono mai convertiti in realtà, piuttosto che leggere la narrativa contemporanea. Dal momento che i progetti costituiscono già un sottogenere assai più eloquente di quello che è il nuovo realismo, un nuovo genere di fantascienza. Progettare significa lanciare: immagini, piani, possibili futuri. E la filosofia odierna più pertinente è proprio quella che sta immaginando delle alternative a tutta questa vertigine quotidiana che non smette di pestare sull'acceleratore. Come ci ricordano gli accelerazionisti, la situazione è diventata insostenibile in tutte le dimensioni della realtà: non solo i ritmi tecnologici impazziscono senza sosta, ma ciò avviene anche nei termini per cui la classe media si impoverisce, i milionari diventano multimilionari, oppure distruggiamo il pianeta. Contro la «logica della crescita basata sulla concorrenza e sull'accelerazione», che porte all'alienazione, il sociologo tedesco Hartmut Rosa ha scritto nell'ultimo suo libro, "Resonanz. Eine Soziologie der Weltbeziehung" ["Risonanza: una sociologia della relazione col mondo"], che bisogna considerare quale sia «la qualità del nostro rapporto con il mondo». Solo arrestando, per qualche minuto o per qualche ora, gli ingranaggi che non smettono mai di rendere sempre più pressanti quelle che sono le nostre scadenze, in modo da poter pensare e decidere, come individui, quale sia la nostra etica e la nostra poetica, ed aspirare ai nostri ritmi. Ogni cosa necessita del suo tempo, anche le ricerche, gli acquisti e gli orgasmi.

- Jorge Carrión - Pubblicato il 19/1/2020 sul New York Times -

[*] - Nota del traduttore: «Quanto più maggiormente si fa valere l'oggettività negativa della barriera della crisi, e quanto più brutali diventano le digestioni ideologiche su scala mondiale, tanto più sembra progredire la "Heideggerazione" della sinistra. Essa stessa diventa così un fattore di imbarbarimento ideologico, come prodotto della decomposizione della "controprassi" immanente e della critica "affermativa". Invece dell'analisi critica, emergono espressioni quasi teologiche (per esempio, nel discorso a proposito di "Kairos" e dell' "Evento").» (Robert Kurz, da "Grigio è l'albero d'oro della vita, e la teoria è verde: 14 - Dalla capitolazione dell'ideologia autoreferenziale del movimento al nuovo concetto della "prassi teorica " ).

lunedì 27 gennaio 2020

Mappe

Certe storie non possono svolgersi in un posto qualsiasi. L'«Atlante dei paesaggi letterari» approfondisce la geografia, i luoghi e il territorio di alcuni dei capolavori più noti e amati, raccontando come i vari scenari e le loro peculiarità ne influenzino la trama, la caratterizzazione dei personaggi e la capacità di catturare la nostra attenzione. Il libro raccoglie oltre 50 diversi romanzi da tutto il mondo, protagonisti dell'immaginario collettivo. Seguiamo i passi di Leopold Bloom nella Dublino dell'«Ulisse» di James Joyce; ascoltiamo la musica delle navi a vapore che solcano il Mississippi nelle «Avventure di Huckleberry Finn» di Mark Twain; contempliamo l'aspra desolazione di Terranova in «Avviso ai naviganti» di Annie Proulx, o godiamoci i contrasti di Napoli nell'«Amica geniale» di Elena Ferrante. Attraverso un'accurata selezione di mappe, immagini d'archivio, fotografie e illustrazioni a colori, i paesaggi riprendono vita, e rievocano i suoni e gli scorci delle opere che li raccontano. Questo volume vi trasporta nei territori meravigliosi della letteratura, perché possiate immergervi nelle storie come non avete mai fatto prima.

(dal risvolto di copertina di: " Atlante dei paesaggi letterari". Ediz. illustrata, a cura di John Sutherland. Mondadori Electa.)

Va dove ti porta lo scrittore
- Atlante dei paesaggi letterari -
di Paolo Albani

Negli ultimi anni sono usciti, anche in traduzione italiana, una serie di atlanti di luoghi immaginari, o di luoghi strani e inconsueti. Ne cito alcuni: "L'Atlante dei luoghi che non esistono" di Nick Middleton (Rizzoli, 2015), "L'Atlante immaginario. Quando le mappe raccontavano sogni, miti e invenzioni" di Edward Brooke-Hitching (Mondadori, 2017), "Atlante dei luoghi letterari. Terre leggendarie, mitologiche, fantastiche in 99 capolavori dall'antichità a oggi" a cura di Larua Miller (Mondadori, 2018), "Atlante dei luoghi inaspettati. Scoperte inattese, città misteriose e leggendarie, mete improbabili" di Travis Elborough (Rizzoli, 2019). L'insieme di questi libri costituisce una sorta di scienza anomala, che si potrebbe definire «atlantologia fantastica», il cui illustre antesignano, sebbene la parola «atlante» non figuri nel titolo, è il "Manuale dei luoghi fantastici" di Gianni Guadalupi e Alberto Manguel (ed. Lester & Orpen Dennys, 1980 e Rizzoli, 1982) che Italo Calvino considerava un'opera di consultazione indispensabile, suggerendo dovesse trovare posto negli scaffali di una salutare Biblioteca del Superfluo. Ora, a fianco di questi testi che rappresentano lo «spaesamento geografico» (l'espressione è di Calvino), esce per Rizzoli, nella traduzione di Stefano Chiapello, un "Atlante dei paesaggi letterari", curato da John Sutherland, scrittore, giornalista e accademico inglese, che - come recita il sottotitolo: Alla scoperta dei luoghi in cui sono ambientati i grandi romanzi - si occupa, non di luoghi fantastici, ma di paesaggi realistici, veri, descritti da scrittori famosi. Il volume, ricco di illustrazioni molto belle (copertine di prime edizioni di libri, mappe, foto, locandine, quadri, ecc.), per lo più a colori, si avvale di una schiera di collaboratori qualificati che hanno redatto una o più voci (74 in tutto) di questo splendido atlante: fra gli altri ci sono Mariarosa Bricchi, linguista e editor freelance, l'unica italiana del gruppo, e Tim Parks, scrittore e traduttore.
Dal punto di vista cronologico, l'Atlante è diviso in quattro sezioni: 1. Panorami romantici (che analizza alcuni romanzi del XIX secolo, arrivando fino al 1914); 2. Vedute moderniste (1915-1945); 3. Panorami postbellici (1946-1974); 4. Geografie contemporanee (dal 1975 fino ad oggi). Le singole voci (circa tre pagine di testo ciascuna) contengono una breve nota biografica dello scrittore antologizzato, accompagnata da una sua foto e dalla riproduzione a colori della prima edizione del libro esaminato, un romanzo o un racconto in cui si mettono in luce gli aspetti architettonici, culturali, emotivi, ecc., di un certo paesaggio, città, o spazio naturale che sia.
Una caratteristica affascinante della letteratura è quella di farci vedere le cose attraverso le parole, di darci l'illusione di essere proprio lì, in quel luogo descritto nella narrazione, di vedere una scena - come dice Calvino nella lezione americana sulla «visibilità» - quasi si svolgesse davanti ai nostri occhi.
Nell'Atlante vediamo, attraverso gli occhi (compreso il terzo, quello cosiddetto «interiore») e le parole di grandi scrittori, i paesaggi che fanno da sfondo ai racconti scelti. Così ci immergiamo visivamente nelle descrizioni che coinvolgono la Milano manzoniana come appare al giovane Renzo ne I Promessi Sposi (1827), romanzo non a caso sottotitolato: Storia milanese del secolo XVII; la Parigi postrivoluzionaria de La commedia umana (1829-48) di Balzac e quella dei bassifondi e I miserabili (1862) di Hugo; la Londra vittoriana del racconto Casa desolata (1852-53) di Dickens o l'oblast' di Tula, regione posizionata quasi al centro della Russia europea, in cui è ambientato Anna Karenina (1857-77) di Tolstoj.
Un cenno particolare - per una mia affezione personale - meritano due città. Da un lato la Dublino dell'Ulisse (1922), considerata da Joyce «l'ultima delle città intime». Nella relativa scheda si dice che il vagabondare del protagonista, Leopold Bloom, tracciato su una mappa, descriverebbe un punto interrogativo, simbolo della perplessità di Bloom di fronte al tradimento della moglie, la cantante Marlon "Molly" Tweedy. Dall'altro la Mosca che fa da scenario alle diaboliche stramberie che accadono ne Il Maestro e Margherita (1966) di Bulgakov. Gli scrittori italiani presenti nell'Atlante, oltre a Manzoni, sono Alberto Moravia, Elsa Morante e Elena Ferrante. Da parte mia avrei aggiunto il più paesaggistico dei nostri scrittori contemporanei, narratore di storie recuperate viaggiando con un gruppo di fotografi, fra cui l'amico Luigi Ghirri, nella campagna inquinata e maleodorante della valle del Po. Mi riferisco a Gianni Celati che ha chiamato i suoi diari di viaggio «racconti d'osservazione». L'Atlante si chiude con una scheda dedicata allo scrittore Miguel Bonnefoy, autore di Zucchero nero (2017), romanzo che intende restituire lo spirito della foresta pluviale sudamericana.

- Paolo Albani - Pubblicato sul Sole del 12 gennaio 2019 -

domenica 26 gennaio 2020

«De omnibus dubitandum»

«Non sono marxista, io!»
- di Michael Heinrich -

Chiunque visiti la tomba di Marx nel cimitero di Highgate, a Londra, si trova davanti ad un enorme piedistallo sul quale è stato installato, troneggiante, un gigantesco busto di Marx. Bisogna piegare in su la testa, per poterlo guardare. Subito sotto il busto, in lettere d'oro sta scritto «Workers of all lands unite», e ancora, più in basso, «Karl Marx». Più sotto, all'interno del piedistallo, è stata piazzata una semplice piccola lapide che elenca, senza né sfarzo né oro, i nomi di chi giace sepolto in quella tomba: oltre a Karl Marx, c'è sua moglie Jenny, suo nipote Harry Longuet, sua figlia Eleonora e Helene Demuth, la quale per decenni è stata la governante della famiglia. È stato lo stesso Marx, dopo la morte della moglie, a scegliere la semplice lapide. Aveva chiesto esplicitamente che venisse fatto un funerale tranquillo e limitato ad una piccola cerchia di amici e familiari. Vi presero parte solo undici persone. Friedrich Engels riuscì ad impedire che venissero messi in atto i piani del Partito socialdemocratico tedesco di erigere, nel cimitero, un monumento a Marx. Egli scrisse ad August Bebel dicendo che la famiglia era contraria ad un monumento del genere, in quanto la semplice lapide «ai loro occhi, sarebbe stata profanata qualora fosse sostituita da un monumento» (MECW 47, p.17).
Circa 70 anni dopo, non c'era più nessuno rimasto a proteggere la tomba di Marx. L'attuale monumento venne commissionato dal Communist Party of Great Britain, ed inaugurato nel 1956. Solo i regolamenti del cimitero ne impedirono l'ulteriore ampliamento. I marxisti erano riusciti a prevalere e a farsi valere, contro Marx.
«Non sono marxista, io!», aveva affermato Marx, piuttosto seccato, parlando col genero Paul Lafargue, quando questi gli aveva riferito gli ultimi comunicati provenienti da "marxisti" francesi. Era stato Engels ad aver fatto circolare innumerevoli volte questa dichiarazione, perfino in delle lettere ai giornali - di certo affinché diventasse di pubblico dominio. La distanza di Marx dai marxisti era stata espressa anche per mezzo di altri commenti. Quando risiedeva in Francia, nel 1882, aveva scritto a Engels che «i "Marxisti" e gli "Anti-Marxisti" » [...] in quelli che erano stati i loro rispettivi congressi a Roanne e a Saint-Étienne avevano «fatto tutti del loro meglio per rovinare il mio soggiorno in Francia» (MECW 46, p.339).
In ogni caso, Marx non ambiva affatto al «Marxismo». Ma non solo; quando l'economista tedesco Adolph Wagner, che fu il primo ad occuparsi della teoria di Marx nel suo libro e scrisse del «sistema socialista» di Marx, questi, indignato, annotò a margine che egli «non aveva mai istituito un sistema socialista» (MECW 24, p.533). «Sistemi» e visioni del mondo fatte di «ismi» non sono mai stati la sua passione. È vano mettersi in cerca di citazioni in cui egli si sarebbe definito in qualche modo come il padre fondatore di un qualche «ismo». A parte vedere sé stesso come un uomo del «partito» (cosa con cui intendeva però non un'organizzazione specifica, ma piuttosto la totalità delle forze che combattevano contro il capitalismo , per l'emancipazione sociale), Marx si considerava un uomo di scienza. Egli annoverava la sua opera Il Capitale, da lui considerato come «il più terribile missile che era mai stato sparato contro i dirigenti della borghesia (inclusi i proprietari terrieri)» (MECW 42, p.358), tra quelli che erano i «tentativi scientifici di rivoluzionare la scienza» (MECW 41, p.436). La sottolineatura posta sotto «scientifico» appartiene a Marx. E quando Marx scriveva nella prefazione al primo volume del Capitale, «ogni opinione basata sulla critica scientifica è benvenuta» (MECW 35, p.11), non si trattava semplicemente di retorica. Marx era perfettamente consapevole della natura provvisoria e della fallibilità delle affermazioni scientifiche.«De omnibus dubitandum» - «Va messo tutto in discussione» - aveva scritto come risposta alla domanda che, in un questionario alla moda propostogli dalla figlia, chiedeva quale fosse la sua massima preferita. L'enorme massa di manoscritti rimasti inediti, insieme alle revisioni, a volte considerevoli, dei testi già pubblicati testimoniano come egli non esentasse neanche il proprio lavoro da tale dubbio. Nella storia del marxismo, quest'opera è stata spesso trattata in maniera diversa da questa.
Storicamente parlando, la divulgazione messa in atto da Engels negli ultimi libri, soprattutto nel suo Anti-Dühring, ha costituito il punto di partenza per la costruzione del "Marxismo". Tuttavia, rimane in una certa qual misura un po' unilaterale trasformare Engels nell'«inventore» del Marxismo. come ha fatto la casa editrice  Propyläen quando ha assegnato alla traduzione tedesca della biografia tedesca di Engels scritta da Tristam Hunt, il sottotitolo "L'uomo che ha inventato il Marxismo". L'edizione originale inglese ha un titolo più appropriato: “The Frock-Coated Communist” ["Il comunista ben vestito"]. Solo sotto pressione da parte di Bebel e Liebnecht, nel 1870, Engels era arrivato a misurarsi con le opinioni dell'accademico tedesco Eugen Dühring, che in Germania stava sempre più conquistando nuovi aderenti alla socialdemocrazia. Dal momento che Dühring sosteneva di avere assemblato un nuovo «sistema» globale che riuniva filosofia, storia, economia, e scienze naturali, Engels aveva dovuto inseguirlo in tutte queste aree, ma sottolineando però nella sua prefazione al testo che «non poteva in alcun modo mirare a presentare un altro sistema come alternativo a quello di Herr Dühring» (MECW 25, p.6). Ma questo suggerimento non servì a niente. Storicamente, l'Anti-Dühring rimarrà il punto di partenza proprio per quel "sistema" che sarebbe poi diventato famoso con il nome di "Marxismo". Il suo primo importante esponente fu Karl Kautsky. E fino alla prima guerra mondiale, si accodò anche Lenin, senza mai fare alcuna critica. Così, mentre Engels si faceva gioco di quello che era il proclama di  Dühring, circa la pretesa di una «verità definita ed assoluta» (MECW 25, P.28), ecco che ora una simile pretesa - insieme a quelle che erano tutte le fantasie di onnipotenza che su tale pretesa si basavano - veniva fatta propria da molti Marxisti: «La dottrina marxista è onnipotente in quanto è vera». L'appiattimento in cui aveva investito il marxismo socialdemocratico prima della prima guerra mondiale continuò poi nel marxismo-leninismo che divenne una dottrina canonica in Unione Sovietica dopo la morte di Lenin.

Giusto per essere chiari: non è mia intenzione screditare ogni risultato analitico e politico di Kautsky, di Lenin, e di molti altri Marxisti. Se si vogliono valutare quei risultati, in ogni caso ciascuno di essi va preso individualmente. Quello di cui io sto parlando, sono quelle semplificazioni filosofiche che vengono presentate come «Marxismo». Quelle miscele di semplice materialismo, di idee borghesi di progresso, e di volgare hegelismo che vengono presentate come «materialismo dialettico» e «materialismo storico» - termini che verrebbero cercati invano nell'opera di Marx.
A questo punto, quelli che sono i moderni, illuminati, non dogmatici marxisti moderni obietteranno immediatamente che il culto della personalità non è roba loro, e che non lo è neanche il vecchio, dogmatico marxismo. Solo il loro punto di vista illuminato dovrebbe essere considerato come "Marxismo", e tutto ciò che è spiacevole - a partire dalle concezioni deterministiche della storia, fino ad arrivare a ridurre le relazioni di genere ad essere solo una «contraddizione secondaria e al gulag stalinista - non avrebbe niente a che fare con vero, reale Marxismo. Tuttavia, se ci si chiede che cos'è che costituisce il Marxismo reale, ecco che improvvisamente comincia a mancare l'aria, e ciò non avviene per una coincidenza. Nel momento in cui si tenta di dare sostanza concreta al termine "Marxismo", ci si trova necessariamente di fronte ad un dilemma. Inserendoci troppi contenuti, ecco che la determinazione diventa troppo concreta, e finisce facilmente con il contraddire quella scienza che ne consegue. Di una cosa del genere, il "Lysenkoismo" è solo l'esempio più noto. Ma se si lascia la cosa nel vago, a livello generale, ecco che c'è il pericolo che ciò che viene presentato come Marxismo rimanga a livello di luoghi comuni: tipo, tutto ciò che è reale è materiale, la storia si sviluppa solo per mezzo di contraddizioni, ecc. Per alcuni Marxisti, Georg Lukàcs appare come colui che ha tagliato il nodo gordiano. Sebbene alcuni singoli risultati della teoria di Marx si sono rivelati falsi, secondo Lukàcs, il suo "metodo" sarebbe rimasto valido: mantenere la "dialettica materialista" in quanto metodo di ricerca era presumibilmente il nucleo del «Marxismo ortodosso». Ma anche trascurando il fatto che tra i Marxisti ci fosse ben poco accordo su cosa fosse ciò che costituiva questo metodo dialettico di cui tutti parlano così prontamente, non appare essere poi una così grande raccomandazione quella che spinge ad aggrapparsi ad un metodo quando esso porta anche a risultati errati. Non sto in alcun modo contestando che ci siano concezioni ragionevoli del materialismo e della dialettica. Dubito, tuttavia, che si possano mettere insieme quelle che sarebbero le basi di un'ontologia o di una metodo onnicomprensivo.
Ma se non si è in grado di offrire una determinazione sostanziale di Marxismo, rimane però sempre la possibilità di usare il termine in maniera puramente descrittiva. Perciò, una definizione della parola chiave "Marxismo" è quella secondo cui il «Marxismo abbraccia tutte quelle pratiche che negli ultimi 150 anni, positivamente o nel senso di una continuità, si sono riferite all'opera di Marx, nonché agli autori ed agli attivisti che di conseguenza si sono riferiti a Marx».  Andando più avanti si parla di «persecuzioni del Marxismo da parte dello Stalinismo e del Fascismo». Apparentemente, lo Stalinismo non viene considerato come parte del Marxismo, sebbene esso si riferisse decisamente e positivamente alle «opere di Karl Marx», nonostante i contemporanei non abbiano mai dubitato che lo Stalinismo facesse parte del Marxismo, e fra questi ci sono non pochi spiriti critici, come Ernst Bloch. Se si esclude retroattivamente, in maniera descrittiva, lo Stalinismo dal Marxismo, allora si finisce per procedere in maniera simile a quella di Stalin, il quale aveva tentato di cancellare dai documenti storici e dalle vecchie fotografie coloro che cadevano in disgrazia.
Il fatto che non sia facile per i Marxisti determinare che cosa sia realmente il "Marxismo", è colpa anche di Marx. Bisogna ammettere che lui di certo non ha reso facile loro la vita. La sua opera non consiste solamente in un certo numero di testi che ha pubblicato, ma anche in numerosi manoscritti che sono rimasti inediti per tutta la sua vita. Tutti i fondamentali progetti teorici che Marx ha portato avanti sono rimasti incompiuti. Manoscritti inediti, come I Manoscritti Economici e Filosofici, del 1844, oppure l'Omnibus del 1845/46 che divenne noto come L'Ideologia Tedesca sono rimasti incompiuti e frammentari. Molti dei testi pubblicati sono solo dei riassunti sommari, come il Manifesto Comunista del 1848, o sono parte di progetti incompiuti, come il Contributo alla Critica dell'Economia Politica [Urtext] (1859) o come il primo volume de Il Capitale (1867/1872). Analisi politiche come Il 18 Brumaio (1852) o come La Guerra Civile in Francia (1871) trattano in maniera esauriente quelli che erano i rispettivi argomenti, ma la teoria dello Stato e delle Politica, cui Marx ambiva, vengono affrontati solo in maniera implicita ed incompleta. Marx, non solo si è lasciato dietro un progetto incompiuto, ma ha disseminato anche tutta una serie di progetti che non sono mai stati portati a termine. Non c'è da stupirsi come la discussione intorno a tali progetti, riguardo la portata di ciascuno di essi, le loro rispettive lacune e la relazione che ognuno di essi aveva con tutti gli altri abbia fornito un ricco materiale per il dibattito, e continua tuttora a farlo.
Inoltre, le opere postume di Marx sono state pubblicate solo a poco a poco (e si trovano ancora in fase di pubblicazione). In modo che ogni generazione di lettori ha dovuto confrontarsi con un'opera diversa di Marx, ed in più occasioni nel 20° secolo è stato proclamato che ora - finalmente - sarebbe stato possibile conoscere il vero Marx. Ad ogni modo, le opere postume, prima di essere pubblicate, erano state fortemente riviste dai loro rispettivi editori. E questo era già successo nel caso della pubblicazione, da parte di Engels, del secondo e del terzo volume de Il Capitale, e lo era stato ancora di più in occasione dei Manoscritti Economici e Filosofici e de L'Ideologia Tedesca, che erano stati pubblicati negli anni '20 e '30. I testi di Marx ed Engels sono stati pubblicati, per la prima volta completamente e senza alcun intervento editoriale, solo nella seconda "Marx Engels Gesamtausgabe" (MEGA), a partire dal 1975, ma che per ora si trova solamente a metà strada. Tuttavia, nello sviluppo storico di quelli che sono stati i vari Marxismi, i testi di Marx ed Engels giocano comunque un ruolo limitato. All'inizio, i lettori erano soddisfatti di alcune dichiarazioni sorprendenti, come quella che riguardava che la storia era sempre una «storia delle lotte di classe», o del «comunismo» visto come «il movimento reale che abolisce lo stato presente delle cose». Il contesto nel quale Marx aveva fatto quelle affermazioni, e il modo in cui esse stesse erano state modificate nel corso di successivi sviluppi - era di minore interesse. Per il Marxismo, Marx non era interessante in quanto pensatore che si trovava costantemente nella condizione di imparare e di sviluppare le sue concezioni teoriche, ma lo era piuttosto come se fosse qualcuno che produceva verità finali - come quello che produceva «Marxismo».

Ci sono stati molti moderni, illuminati Marxisti che hanno mantenuto anche una certa distanza rispetto ad un preciso coinvolgimento con l'opera di Marx. Frequentemente, viene sottolineato il fatto che non si desideri «fare filologia», ma  piuttosto occuparsi politicamente di Marx. Non di rado, tuttavia, prendere le distanze dalla filologia serve innanzitutto allo scopo di lasciare che rimanga indisturbata quella che è la loro concezione della teoria di Marx e del Marxismo. Se, ad esempio, ci si riferisce al concetto di prassi nelle Tesi su Feuerbach, che molti considerano un concetto centrale della teoria di Marx, mentre invece si tratta solo di un concetto specifico relativo a quello che era il dibattito con Feuerbach e con i Giovani Hegeliani,  privando così le Tesi su Feuerbach del loro status di documento fondamentale; o se si sottolinea come, nel caso del Manifesto Comunista, che l'effettivo impegno di Marx nei confronti del capitalismo è cominciato solo dopo e che egli è arrivato perfino a rigettare alcune delle tesi che si trovano nel Manifesto; ecco che a questo punto tutto ciò non fa sì che ci si facciano molti amici. La stessa cosa avviene se si nota che non è che ogni affermazione che viene fatta nel Capitale si trovi ad essere scolpita nella pietra, e che per esempio c'è motivo di credere che negli anni '70 Marx avrebbe potuto considerare un pochino più criticamente la «Legge della caduta tendenziale del saggio di profitto» che aveva formulato nel manoscritto del 1864/65 del terzo volume del Capitale. Ecco che allora tutto questo diventa decisamente troppa «filologia». Ancora una volta, per essere chiaro: il fatto che la critica del capitalismo non si esaurisce nella filologia è banale. Tuttavia, il fatto che se uno desidera misurarsi con i concetti di Marx, se ne debba prima appropriare criticamente, e non solo in maniera superficiale come se fosse un manuale, beh, anche questo è altrettanto banale. Eppure, il più delle volte, è proprio questa appropriazione critica a mancare. Un'ultima cosa: tra gli scienziati critici sociali, e in particolare l'Assoziation für kritische Gesellschaftsforschung [Associazione per la ricerca sociale critica], Michael Foucault gode di una certa popolarità. Le sue analisi del rapporto tra potere e conoscenza vengono citate con entusiasmo. Tuttavia, i Marxisti - anche quelli moderni e non dogmatici - fanno fatica a concepire il Marxismo come se si trattasse di un intrico tra potere e conoscenza. Alla conferenza organizzata dall'AkG, il Marxismo come strumento di dominio non era un argomento in discussione. È stato discusso in riferimento al Marxismo nella RDT. Ma non è solo lo Stalinismo, e la storia dei partiti comunisti autoritari, ad essere parte di quest'argomento, in cui la storia del Marxismo è sempre una storia di esclusione e di dominio. Nei gruppi della sinistra e nei seminari universitari in Occidente, le presunte certezze del "Marxismo" hanno prodotto anche numerose distinzioni tra ciò che viene incluso e quello che viene escluso dai discorsi e dalle pratiche sociali. Anche se alcuni amerebbero pensarlo, la microfisica del potere non si ferma dove (ad Occidente) comincia il Marxismo. La «breve estate del Marxismo accademico» (Elmar Altvater)  esistita in Germania occidentale negli anni '70, e di cui alcuni sentono la mancanza, è stata in gran parte una pseudo prosperità che si basava sugli effetti discorsivi del potere. Per poter dimostrare di essere all'avanguardia c'era chi sapeva - indipendentemente da quale fosse l'argomento - quantomeno fare un breve riferimento alla «contraddizione tra valore d'uso e valore di scambio». Molte analisi della teoria di Marx e dei successivi contributi composti in questo periodo valevano la pena di essere lette, ma contenevano anche un'enorme quantità di sciocchezze. Lo stesso Marx, in ogni caso, non era alla ricerca di certezze finali. Egli era molto più interessato a quella che era attività critica di minare le certezze, al fine di aprire nuovi spazi per il pensiero e per l'azione - cosa in cui non può essere immediatamente chiaro quale sarà il risultato giusto. Contrariamente al "Marxismo" che Marx rifiutava, insieme alle sue certezze che ne definiscono l'identità, questo Marx, critico ed incompiuto, aveva un effetto estremamente stimolante e sovversivo. Quali delle sue analisi e quali dei suoi concetti siano utili, che cosa di questi possa aiutarci a cambiare il mondo, e cosa non possa, non è stato fissato per sempre. Bisogna sempre discutere continuamente e formulare nuove valutazioni: «De omnibus dubitandum».

- Michael Heinrich - Pubblicato il 24/1/2015 su ND -

fonte: libcom.org

venerdì 24 gennaio 2020

Cotta al dente!

C’erano una volta i maccheroni, trascurati e negletti dai cuochi e dalla gente comune. A un certo punto, accadde qualcosa: una serie di convergenze inaspettate creò le magiche condizioni che permisero, a questo cibo poco valorizzato, di mostrare appieno le sue enormi e squisite potenzialità. Fu così che i poveri maccheroni assursero agli altari della gloria, per essere celebrati sulle tavole italiane e del mondo intero. Ma come è potuto accadere tutto ciò? Quali sono stati gli incastri della storia e del destino, quali gli orchi e quali invece le fate che hanno sancito il trionfo della pasta? Il volume – arricchito da un inserto a colori con immagini d’epoca – ci accompagna lungo questa storia affascinante. Tutto ebbe inizio quando quel semplice impasto di acqua e farina – uno dei composti più comuni dell’alimentazione fin dall’antichità – cominciò a svelare, nelle mani dei mastri pastai di Genova e Napoli, la ricchezza che racchiudeva, la straordinaria malleabilità, l’incredibile capacità di accompagnare i sughi e i condimenti più disparati, di zittire la fame e accendere il piacere; e tutto cambiò quando, fuori dall’ambito domestico e artigianale, i maccheroni si reinventarono come prodotto industriale urbano, imponendosi come «primo piatto» e come unico, autentico cibo nazionale, in grado di esportare l’italianità fuori dalla penisola. L’accurata ricerca di Alberto De Bernardi rivela curiosità e aneddoti di questa vicenda e mette in luce le profonde dinamiche storiche, economiche e culturali di una trasformazione del gusto che è stata anche e soprattutto una trasformazione sociale. La storia della pasta è la storia di un cibo identitario, però aperto al mondo, che invita a «mangiare italiano», ma al contempo attrae e accetta i condimenti e i sughi dei popoli e delle terre con cui entra in contatto; un cibo dunque che parla al mondo, ma che anche porta il mondo in Italia.

(dal risvolto di copertina di: Alberto De Bernardi, "Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta", Donzelli, Roma, pagg. 248, € 32.)

Mangiamaccheroni d’Italia
- di Angelo Varni -

Storia di un’identità collettiva, di uno stereotipo accettato con condiscendente naturalezza da un’intera comunità nazionale, quella della pasta quale alimento insostituibile dell’intera popolazione italiana. Quasi ben più di una vivanda, ma un vero e proprio segno distintivo della nostra difficile uniformità nazionale da far valere a mitigare le frammentazioni interne e a dissipare le diffidenti valutazioni esterne sulla raggiunta compattezza di Stato unitario.
A percorrerne, però, la vicenda della sua presenza nella dieta alimentare delle generazioni succedutesi nella penisola si rischia di perdersi nella molteplicità di indizi che la equiparano alle tante modalità di impastare acqua e farina, magari insieme ai più svariati ingredienti, dolci come salati, fin dall’antichità proprie di tutte le regioni del Mediterraneo, per esiti dalle diversificate denominazioni e dagli svariati formati, per lo più accomunati, i vermicelli come gli gnocchi, i fidei come le lasagne e i tortelli e tanto d’altro, sotto la indistinta definizione di maccheroni.
È altrettanto evidente l’esigenza di comprendere il consolidarsi nel tempo di questo ruolo «nazionale» della pasta attraverso non solo, certo, le sue attitudini gastronomiche-nutrizionali, bensì rapportandolo ai mutamenti economici, agli sviluppi tecnologici, alle dimensioni mercantili, alle contingenze delle scelte politiche, alle trasformazioni del gusto, fino al radicarsi di un diffuso immaginario che lo collocava al centro delle narrazioni riguardanti la nostra socialità ed il reticolo della nostra quotidianità.
A questa complessa ricerca si rivolge Alberto De Bernardi, cercando di dipanarne un filo interpretativo che, intanto, distinguesse la pasta di grano tenero da quella di grano duro, con la prima tipica di una dimensione casalinga, mentre la seconda, per la sua ridotta deperibilità e l’apporto proteico del glutine che la caratterizzava, poteva essere chiamata a svolgere una funzione decisiva nell’assicurare la sopravvivenza alimentare delle masse di popolazione, impoverite dalla rivoluzione agricola tra Sei e Settecento.
Alla moltitudine di ceti popolari europei non restava, infatti, che il ricorso a cibi in grado di sostituire il calo di proteine dovuto alla scomparsa della carne dalle loro misere mense con prodotti di minor qualità nutrizionale ma di elevato potenziale calorico come mais e patate. Mentre fu a Napoli – assicura l’autore – che questa attitudine della pasta a divenire, dalla seconda metà del Seicento, «alimento di scorta per fare fronte alle carestie, all’inflazione e all’insicurezza alimentare», ed insieme cibo di “riempimento”, assunse una dimensione tale da farne definire gli abitanti dei mangiamaccheroni per antonomasia, favorendo, per altro, un monofagismo estraneo alle drammatiche conseguenze delle altre citate diete povere, come, ad esempio, quella basata sulla polenta dell’Italia padana.
Da qui il diffondersi di un’aneddotica, di proverbi, di un’iconografia fino alla maschera di Pulcinella sempre alla ricerca di soddisfare la sua fame atavica rimpinzandosi, appunto, di maccheroni, tanto da definire la stessa antropologia collettiva della città. Una città esposta ad una travolgente crescita demografica, ben poco compensata da un soddisfacente sviluppo abitativo, con moltitudini di abitanti raccolte in case fatiscenti o, addirittura, costrette a vivere per strada: da qui l’esigenza di nutrirsi fuori dall’inesistente dimensione domestica, rivolgendosi a quanti offrivano nelle strade porzioni di pasta.
Ecco, dunque, la necessità di utilizzare il grano duro per realizzare l’impasto, ad un tempo, resistente e nutriente, inserendosi in una dimensione di mercato, dove la domanda della popolazione era soddisfatta dall’impiego di frumento derivante dall’intensificarsi dei traffici commerciali internazionali, mentre la sua complessa elaborazione veniva svolta prima in botteghe artigiane, poi in stabilimenti dalle dimensioni di vere e proprie fabbriche.
Queste nell’area napoletana si svilupparono tra Torre Annunziata e Gragnano; ma via via si allargarono in tante altre località della penisola – a partire da quella di Genova, subito ricca di produzioni e di innovazioni – mano mano che l’affinamento tecnologico delle lavorazioni, attentamente spiegato dall’autore lungo un cammino dal ’700 al secolo scorso, si svincolava dalle dipendenze dagli elementi naturali( l’acqua per l’energia e i venti utili all’essiccazione).
Le durissime condizioni di vita degli abitanti della penisola, del resto, riproducevano esigenze non difformi da quelle del sottoproletariato napoletano, favorendo un’utilizzo della pasta secca, che comunque continuò a lungo a combinarsi con le tante tradizionali manipolazioni degli impasti di farina propri dei mille campanili italiani.
Fino all’imporsi della nuova ritualità domestica borghese, codificata dal ricettario di Pellegrino Artusi, con la sua proposta di un «risorgimento gastronomico», proteso ad un amalgama geografico e di ceti, che favorì una sorta di omogeneità nel gusto collettivo basato sull’imporsi di primi piatti di pasta.
Intanto il fenomeno migratorio nelle Americhe andava creando tante Italie fuori dalla penisola, che affidarono alla pasta il loro legame identitario, consentendo, ad un tempo, alla nostra imprenditoria di fruire di massicci flussi di esportazione e di imporsi progressivamente nelle diete di popolazioni dapprima ostili allo stereotipo degli italiani mangiamaccheroni.

- Angelo Varni - Pubblicato sul Sole del 19/1/2020 -

giovedì 23 gennaio 2020

Movimento movimento

« I primi vent’anni del Novecento sono stati a ragione definiti "l’età dei movimenti". Non soltanto, tanto a destra che a sinistra dello schieramento politico, i partiti cedono il posto ai movimenti (sia il movimento operaio che il fascismo e il nazismo si definiscono come "movimenti"), ma anche nelle arti, nelle scienze e in ogni ambito della vita sociale i movimenti si sostituiscono a tal punto alle scuole e alle istituzioni, che è praticamente impossibile fornirne un elenco esaustivo (è significativo che quando, nel 1914, Freud cercò un nome per la sua scuola, si decise alla fine per "movimento psicoanalitico").
Carattere comune dei movimenti è una decisa presa di distanza rispetto al contesto storico in cui si producono e alla visione del mondo dell’epoca e della cultura cui si contrappongono. In questo senso, anche il movimento liturgico partecipa della stessa reazione contro l’individualismo umanista e la razionalizzazione del mondo che definisce molti movimenti che seguono la prima guerra mondiale.
»

( Giorgio Agamben, da "Opus Dei. Archeologia dell'ufficio", Bollati Boringhieri. )

martedì 21 gennaio 2020

Stranieri

La condizione di straniero è destinata a diffondersi. Ma la mobilità che ci piace celebrare si scontra con le frontiere che gli Stati-nazione erigono contro i “migranti”, trattati più come nemici che come ospiti. Spinti a compensare l’ostilità dei loro governi, molti cittadini si sono trovati costretti a fare qualcosa: accogliere, sfamare o trasportare viaggiatori in difficoltà. Hanno così ridestato un’antica tradizione antropologica che sembrava sopita: l’ospitalità. Questo modo di entrare in politica aprendo la porta di casa rivela però i suoi limiti. Ogni sistemazione è una goccia d’acqua nell’oceano del peregrinare globale e la benevolenza alla base di questi gesti non può fungere da salvacondotto permanente. Michel Agier ci invita a ripensare l’ospitalità attraverso la lente dell’antropologia, della filosofia e della storia. Se ne sottolinea le ambiguità, ne rivela anche la capacità di scompaginare l’immaginario nazionale, perché lo straniero che arriva ci obbliga a vedere in modo diverso il posto che occupa ciascuno di noi nel mondo.

(dal risvolto di copertina di: Michel Agier, "Lo straniero che viene. Ripensare l’ospitalità". Raffaele Cortina editore.)

Essere ospitali
- Un legame debole rafforza la società -
di Adriano Favole

Ricordo bene la scena. Io e il mio ospite polinesiano eravamo seduti su una stuoia di foglie di pandano, le gambe incrociate e inclinate verso il terreno. La sera prima gli uomini del villaggio mi avevano invitato per la prima volta a bere il kava, una bevanda dal gusto terrigno ricavata da una pianta della famiglia del pepe. Il giorno dopo a pranzo, la moglie del mio ospite mi aveva sporto una vecchia sedia dal colore blu consunto, che avevo rifiutato sedendomi come gli altri sulla stuoia. Stefano aveva guardato la moglie e, con il suo particolare accento francese, aveva detto: «È come noi!», apprezzando la mia disponibilità a condividere pratiche e tecniche del corpo locali, a cui non era estraneo il fatto di mangiare con le mani senza servirsi delle posate, peraltro disponibili nella casa. Fu, quello, uno dei momenti della ricerca sul campo in cui mi ero sentito «accolto» da quella piccola comunità polinesiana dell’isola di Futuna che ho cominciato a frequentare alla fine degli anni Novanta. L’antropologo, quando svolge ricerche «lontano» da casa, fa esperienza dell’essere straniero. Sperimenta con il corpo, sulla pelle, la condizione di (iniziale) estraneità a un gruppo e la disponibilità di quest’ultimo a ospitare. Come vengono accolti e, eventualmente, incorporati gli antropologi nelle società che studiano? Stranieri per vocazione, essi danno vita, scrive Leonardo Piasere, a «esperimenti di esperienze» e mettono in gioco le relazioni sociali, tra cui spicca l’ospitalità. Su questo tema ruota un bel volume curato da Jos Platenkamp e Almut Schneider, Integrating Strangers in Society (Palgrave). Dodici antropologi e antropologhe (tra cui l’italiana Elisabeth Tauber) raccontano le loro esperienze di «integrazione» in società dell’Europa (come i Sinti nell’Italia del Nord Est), dell’Artico canadese (Inuit), dell’Oceania (Kanak, Maori, Gawigl e Siassi di Papua Nuova Guinea), dell’Africa (Banyoro), dell’India (la città di Rourkela) e del Sud Est asiatico (i Lanten del Laos), componendo un mosaico di pratiche dell’ospitalità che sfida il modo, altamente etnocentrico, con cui la «questione» dello straniero è trattata di questi tempi. Spesso infatti ragioniamo come se i Paesi occidentali fossero gli unici a doversi confrontare con il tema dello straniero e gli unici ad avere elaborato riflessioni in proposito.

Come è noto, la parola xenos in greco indica lo «straniero», il «forestiero», con un accento su ciò che è in lui (o lei) «strano», «insolito», «sorprendente», e significa, al tempo stesso, l’«ospite», colui che è «legato con altri per vincoli di reciproca ospitalità». Colpisce, nella raccolta di Platenkamp e Schneider, il fatto che in nessuna delle società prese in esame la parola per «straniero» ha una connotazione negativa. In tutte le lingue citate esiste una coppia di espressioni per definire l’opposizione «noi» e gli «stranieri»: Sinti e Gagè, Inuit e Qallunaat, Lanten e Farang (Laos), Maori e Pakeha e così via.
Quello degli Inuit è l’unico caso in cui, per nessun motivo, uno straniero può divenire a pieno titolo «Inuit». Attraverso il linguaggio dello scherzo e dell’ironia reciproca, attraverso pratiche di lavoro in comune e soprattutto attraverso le attività rituali, i «bianchi» e altri stranieri possono vivere con e come gli Inuit, senza tuttavia la possibilità di un accesso definitivo all’umanità inuit — salvo ovviamente a partire dalla generazione successiva a un matrimonio misto. «Gli Inuit non si aspettano che i bianchi diventino Inuit e non intendono assimilare gli stranieri». Nonostante ciò, qallunaat, «stranieri», non ha in sé alcuna connotazione negativa, ma mette insieme categorie eterogenee di persone con cui, spesso, è auspicabile avere intensi rapporti sociali.
Altre società prevedono la possibilità di accedere al pieno statuto di appartenenti all’umanità locale, sempre tuttavia attraverso lunghi e complessi percorsi che passano attraverso l’adozione (nel caso Maori per esempio), l’attribuzione di un nome vezzeggiativo (l’empaako dei Banyoro dell’Uganda), la partecipazione a rituali (tra i Lanten del Laos l’antropologo diviene un «figlio-apprendista»). Nel caso dei Sinti, la piena partecipazione al «noi» viene garantita all’antropologa non tanto dal matrimonio con un Sinti, ma dalla successiva perdita di un bambino nato morto. È il fatto di avere antenati comuni e di prendersi cura della loro memoria a fare di una Gagè, di una «straniera», una Sinti in senso pieno.
Gli stranieri, nelle società indagate, non sono alieni, «alterità». Nella cosmologia dei Maori, ogni essere umano, risalendo le generazioni, può trovare antenati comuni. «Nella società tradizionale maori l’intero cosmo era considerato una gigantesca genealogia, con il cielo e la terra progenitori di tutti gli esseri e le cose, come il mare, le foreste, gli uccelli e gli esseri umani». Lo «straniero» non è l’altro assoluto: portatore di una ambivalenza mai dissolta, può assumere le sembianze del commerciante che apporta merci preziose, può divenire il «re straniero» e fondare una dinastia di capi, può rivelarsi un nemico oppure, come nel caso di molti antropologi, può divenire un trait-d’union con il mondo globale. La presenza dell’antropologo sul campo, il suo andare e venire verso centri di potere e sapere, viene interpretato e utilizzato da molte società indagate come una potenzialità di world-enlargement (di «estensione» del proprio mondo), uno dei modi di trasformare l’isola in arcipelago, per così dire.

Divenire parte del «noi» è un processo lungo, pieno non tanto di «ostacoli» da superare, quanto di pratiche da condividere, come vivere insieme, mangiare gli stessi cibi, lavorare, praticare riti, conversare a lungo, chiedere l’elemosina con altre donne, fare progetti di sviluppo o chiedere fondi ad agenzie internazionali... In nessuna società frequentata dagli antropologi si richiede allo straniero, in via preliminare, di rinunciare alla sua appartenenza forestiera e in nessuna si concede subito loro piena cittadinanza. Perché è proprio il differenziale culturale e sociale a rendere interessanti, «meravigliosi» e pericolosi al tempo stesso, gli stranieri. È la provenienza e appartenenza estranea a consentire loro di farsi mediatori tra la società locale e un mondo più ampio, testimoniando a quest’ultimo i valori, le acquisizioni, le virtù del gruppo in questione. Insomma, gli stranieri divengono per la società locale un mezzo per chiedere «riconoscimento» sociale e culturale: solo quando una società si considera pomposamente bastante a sé stessa non ha bisogno di stranieri e di leggi dell’ospitalità e per questo finisce di circondarsi solo di «alterità» del tutto incompatibili con il «noi», magari relegandole in luoghi dai confini invalicabili. Viene in mente una bella citazione di Claude Lévi-Strauss: «L’unica fatalità, l’unica tara che possa affliggere un gruppo umano e impedirgli di realizzare pienamente la propria natura, è quella di essere solo».
È tempo, scrive Michel Agier in Lo straniero che viene (in uscita da Cortina), di rifondare a livello sociale e strutturale l’ospitalità. Nella nostra società si oscilla tra un diffuso fastidio e l’aperta ostilità verso gli stranieri confinati in una dimensione di perenne «alterità» da una parte, e dall’altra il richiamo a un’accoglienza eticamente fondata ovvero a una insostenibile «ospitalità incondizionata», come la definivano Jacques Derrida e Anne Dufourmantelle. Come ospitare allora? Ancora una volta è solo uno sguardo all’ampio spettro delle società umane, contemporanee o antiche, a fornirci modelli e forme della convivenza umana. Agier guarda, per esempio, all’Africa occidentale: da tempo immemorabile, gli Hausa hanno praticato commerci a lunga distanza, connettendo e legando tra loro gruppi sociali disparati, e persino fondando quartieri multietnici ( zongo) in numerose città. I mercati, in gran parte dell’Africa, erano luoghi «neutri», buoni all’incontro con gli stranieri, luoghi in cui giocare all’aperto le dinamiche dell’ospitalità. Ma Agier guarda ugualmente alle tante esperienze di accoglienza ai confini realizzate in Europa nonostante e contro la pressione di molti settori dell’opinione pubblica.
Perché ospitare? Perché è attraverso la forza dei «legami deboli», come li chiamò Mark Granovetter, che possiamo estenderci «fuori» di noi, percorrere vie di fuga verso gli altri, intrecciare idee, valori, concezioni dell’umanità verso e con l’altrove. L’ospitalità è una questione di soglia, come ha scritto Francesco Spagna. Impaurita dal rischio di perdere i legami «forti» (famiglia, comunità, nazione), l’era globale si sta rivelando carente di «legami deboli» come l’ospitalità. La capacità di «fare società» risulta così indebolita e i «noi» (a livello famigliare e sociale) si chiudono e diventano sterili.

- Adriano Favole - Pubblicato su La Lettura del 12/1/2020 -

lunedì 20 gennaio 2020

Da dove cominciamo? Da una catastrofe “comoda”!


Se dovessi scrivere un pezzo speculativo a proposito di una futura società comunista, da dove cominciare?
Cominciamo, ovviamente, con Žižek: «A partire da una semplice riflessione su come sia soggetto a cambiamento l'orizzonte dell'immaginazione storica, ecco che ci veniamo a trovare in medias res,  costretti ad accettare la pertinenza inesorabile del concetto di ideologia. Fino a dieci anni fa, il sistema produzione-natura (la relazione produttiva-sfruttatrice che ha l'uomo con la natura e le sue risorse) veniva percepito come se fosse una costante, laddove tutti erano impegnati ad immaginare differenti forme di quella che sarebbe stata l'organizzazione sociale della produzione e del commercio (il Fascismo o il Comunismo visti come alternative al capitalismo liberale); oggi, come ha sottolineato con perspicacia Fredric Jameson, nessuno considera più seriamente possibile che ci siano delle alternative al capitalismo, laddove l'immaginazione popolare si trova ad essere perseguitata dalla visione dell'imminente "collasso della natura", dell'interruzione di tutta la vita sulla Terra - sembra che sia più facile immaginare la "fine del mondo" piuttosto che un molto più modesto cambiamento nel modo di produzione, come se il capitalismo liberale fosse il "reale" che in qualche modo sopravvivrà perfino in condizioni di catastrofe globale... Si può quindi far valere in maniera categorica l'esistenza dell'ideologia in quanto matrice generativa che regola la relazione esistente tra il visibile e il non visibile, tra l'immaginabile e il non immaginabile, così come regola i cambiamenti che in tale relazione avvengono.» (da l'introduzione di Žižek a "Mapping Ideology", London, Verso, 1994, p.1) Se quello che scrive Žižek è vero, allora la chiave per le idee speculative che attengono al nostro futuro comunista si trova nella letteratura post-apocalittica. Ragion per cui, voglio prendere a prestito da Žižek questa sua idea. Voglio assumere non solo che per le persone sia più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo, ma che la letteratura post-apocalittica è essenzialmente una letteratura speculativa che descrive il mondo dopo il collasso capitalista.

Seguendo l'enunciato di Žižek, suggerisco "Il Giorno dei Trifidi", il classico scritto nel 1951, come uno degli esempi migliori del genere speculativo sul post-capitalismo che sia mai stato scritto, per motivi che spero di riuscire a chiarire in dettaglio. Secondo Wikipedia: «Il Giorno dei Trifidi è un romanzo post-apocalittico scritto nel 1951 dall'autore inglese di fantascienza John Wyndham. Dopo che nel mondo la maggioranza delle persone è rimasta cieca a causa di un'apparente pioggia di meteoriti, un'aggressiva specie di piante comincia a uccidere la gente.» La storia, scritta dopo le due guerre mondiali e dopo la Grande Depressione, e nel bel mezzo della Guerra Fredda, ha ricevuto elogi critici per la sua realistica rappresentazione di quella che è una catastrofe globale. Allo stesso tempo, è stato criticato da alcuni per aver descritto una catastrofe "comoda" e, a parere di un critico, per essere «del tutto priva di idee». L'aspetto saliente della storia, ad ogni modo, la cosa che molti sembra non abbiano colto, è che essa pone una semplice domanda, che va presa in considerazione: Cosa accadrebbe alla società capitalista se il 95% della popolazione adulta che lavora, domani si svegliasse scoprendo di essere cieca?
Nelle prime pagine del romanzo, quasi ogni adulto in grado di lavorare è stato improvvisamente reso inabile e non è più in grado di svolgere nemmeno quelli che sono i compiti più semplici. Forse una persona su venti è riuscita a sfuggire a questa infermità. Ricordando quei primi momenti, il narratore parla di cosa abbia implicato una simile nuova realtà, in cui quasi tutta la forza lavoro è diventata disabile, mentre rievoca l'orrore crescente quando si rende conto che quella divisione del lavoro così incredibilmente sofisticata, dalla quale la società dipende per la sopravvivenza, in realtà non esisteva più. Per quanto abbia un'educazione di alto livello, il narratore si rende conto di non sapere quasi niente di come funzionino i processi di base che avevano reso possibile fino a quel momento il funzionamento della sua vita:

«Non è facile riportarsi col pensiero al modo di vedere di quei giorni. Ora dobbiamo appoggiarci di più su noi stessi. Ma allora dominava il senso della "routine", e le cose erano strettamente connesse le une alle altre. Ognuno di noi recitava così regolarmente la sua piccola parte al posto giusto, che era facile scambiare l'abitudine e il costume per la legge naturale, tanto più quando la "routine" veniva in qualche modo sconvolta.
Quando si è andati avanti per quasi metà della vita secondo una certa concezione dell'ordine, orientarsi in un mondo nuovo non è affare di cinque minuti. Ripensando a come era organizzato il mondo allora, la quantità di cose che non conoscevamo e non ci curavamo di conoscere era non solo sorprendente, ma in certo modo scandalosa. Io non sapevo praticamente nulla, ad esempio di cose tanto comuni: come il cibo giungeva fino a me, da dove veniva l'acqua potabile, in che modo si tessevano e si confezionavano gli abiti che indossavo, come le fognature contribuivano alla salute di una città. La nostra vita si reggeva su un complesso di specialisti, ognuno dei quali attendeva al proprio lavoro con maggior o minore risultato, e si aspettava che gli altri facessero lo stesso. Quando andai di nuovo alla porta e lanciai un'occhiata per il corridoio, fui costretto a riconoscere che, qualunque cosa fosse accaduta, doveva coinvolgere assai più persone che il singolo paziente della camera 48.
»

Anch'io mi schiero con quelli che hanno etichettato questa intuizione come «straordinariamente ben eseguita», nel senso che riesce a spiegare, nel modo più conciso possibile, sia quanto dipendiamo dalla moderna divisione del lavoro, sia come questo ci abbia reso incredibilmente ignoranti circa quali sono i requisiti materiali della nostra stessa vita. Nel momento in cui ci veniamo a trovare con la grande massa della società fisicamente disabile, questa moderna divisione del lavoro viene improvvisamente e irrimediabilmente perduta. Con la perdita della forza lavoro e della divisione del lavoro, non rimarrebbe più niente in grado di continuare a mantenere quel grande strumento globale di produzione creato dal capitale:

«Mi avvicinai alla finestra e guardai fuori. In maniera abbastanza consapevole, avevo cominciato a dire addio a tutto quanto. Il sole era basso. Le torri, le guglie e le alte facciate di Portland, erano bianche e rosa contro il cielo. Degli incendi divampavano qua e là. Il fumo saliva in grandi nubi nere, lambite da guizzi di fiamma. Molto probabilmente, mi dissi, non avrei mai più rivisto nessuno di questi edifici familiari.
Una volta mio padre mi aveva raccontato che, all'epoca dei bombardamenti di Londra, tra un allarme e l'altro, lui soleva girare per la città con gli occhi più aperti che mai, a scoprire negli edifici bellezze che non aveva mai notato prima, e a dir loro addio. E ora anch'io provavo lo stesso sentimento, sebbene la situazione fosse assai peggiore. Molto più di quanto non si fosse sperato era sopravvissuto a quella guerra, ma al nemico attuale nulla sarebbe sopravvissuto.
Doveva essere, pensai, una delle più tenaci e consolanti illusioni della razza credere che certe cose "non possano accadere" in un determinato tempo e in un determinato luogo. E ora, a meno che si compisse qualche miracolo, stavo assistendo all'inizio della fine di Londra; e, molto probabilmente, c'erano altri uomini, non diversi da me, che assistevano all'inizio della fine di New York, di Parigi, di San Francisco, di Buenos Aires, di Bombay, e di tante altre città.
»

Verso la fine di questo passaggio, il narratore fa un'affermazione inquietante: «Doveva essere, pensai, una delle più tenaci e consolanti illusioni della razza credere che certe cose "non possano accadere" in un determinato tempo e in un determinato luogo.» - come se il nostro piccolo angolo di mondo fosse al riparo dai cataclismi. Di certo, queste sono le parole usate dall'autore, messe in bocca al narratore. E probabilmente, l'autore, John Wyndham, non era uno di quelli che pensava che «non può succedere qui». Aveva combattuto nella Grande Guerra, aveva vissuto la Grande Depressione, aveva assistito anche a quello che era stato il conflitto ancora più terrificante della Seconda Guerra Mondiale, aveva visto l'ascesa del fascismo, la Rivoluzione russa e all'alba dell'era atomica risplendere su Hiroshima. In sostanza, aveva vissuto l'inizio della fine del capitalismo, e probabilmente sospettava anche, che fosse l'inizio della fine del capitalismo.

La narrativa speculativa ci consente di sospendere il giudizio. Dico che «ci consente di sospendere il giudizio», non che «richiede che si sospenda il giudizio». Se vogliamo fantasticare a proposito del fatto che da qualche parte, in una galassia lontana, tanto tempo fa, c'era una principessa che aspettava di essere salvata, allora devi sospendere il giudizio. Molte persone sostengono che questa non sia narrativa speculativa. Questa è fantasy. A differenza della fantasy, la narrativa speculativa crea dei mondi che sono quanto meno possibili. Se vuoi credere che nel 1951 una qualche calamità abbia messo improvvisamente fuori gioco la grande massa dei lavoratori , devi solo estrapolare la Grande Depressione, o una delle due guerre mondiali dei trent'anni precedenti, e provare ad immaginare un possibile effetto scatenante di quell'evento. Qual è la differenza tra il 25% ed il 95% di disoccupazione? Solo una questione di percentuale.
Al tempo della sua pubblicazione, la maggior parte dei lettori de Il Giorno dei Trifidi aveva già vissuto una calamità nella quale un quarto della popolazione in età lavorativa era rimasta improvvisamente disoccupata, e questo senza che ci fosse stata alcuna causa apparente. Come ne I Trifidi, durante la Grande Depressione le fabbriche e le fattorie non vennero distrutte da nessuna bomba, non ci fu alcuna pestilenza o epidemia, e la gente aveva disperatamente bisogno dei prodotti che le aziende producevano. Eppure, nonostante tutto ciò, le fabbriche e le fattorie rimasero inattive e i lavoratori vagavano senza meta alla ricerca di lavoro, come se fossero ciechi. (Ok, va bene, non c'erano dei girasoli carnivori e velenosi che se ne andavano in giro a mangiare la gente, lo so, per cui la faccenda poteva essere un po' differente). John Wyndham ha scritto una storia in cui il 95% della popolazione atta al lavoro è inabile perché le persone sono disabili, ma avrebbe potuto aver scritto altrettanto facilmente una storia nella quale il 95% della popolazione lavorativa si trovava senza lavoro a causa di una depressione economica. In entrambi i casi, abbiamo un pezzo di narrativa speculativa di cui la più parte delle persone direbbe probabilmente che «qui non può succedere». Certo, ha ragione, qui non può succedere!
C'è solo una branca della scienza - la teoria del valore-lavoro, per essere precisi - a dire che può succedere qui. Infatti, la teoria del valore-lavoro afferma che sarebbe accaduto negli anni '30 - vale a dire, che alla fine il 25% sarebbe diventato il 95% - se non fosse stato per la distruzione totale delle forze produttive avvenuta con la Seconda Guerra Mondiale. Alla fine, l'intera forza lavoro sarebbe rimasta disoccupata, senza che ci fosse stata una sola fabbrica o una fattoria ad essere distrutta da una singola bomba.
Ho fatto l'esempio di ricollocare l'incubo post-apocalittico di John Wyndham in un contesto leggermente più coerente con la storia attuale del 20° secolo e, forse un po' più plausibile. Certo, è ancora un po' tirato per i capelli, visto che ho dovuto tralasciare la Seconda Guerra Mondiale, e non assumere nessun altro meccanismo per lo stimolo in stile keynesiano che agisca su una scala simile. (Potremmo fare un po' di confusione, assumendo che ci sia stato in precedenza un intervento aggressivo anglo-francese per contrastare l'aggressione tedesca alla Cecoslovacchia, ma se ne riparlerà). A dire il vero, non intendo creare un'Europa con il 95% di disoccupazione come quella de Il Giorno dei Trifidi. Voglio solo dimostrare come, almeno in teoria, sia possibile che una catastrofe simile a quella dei Trifidi possa derivare esclusivamente da cause economiche, e senza l'intervento di un meccanismo straordinario come quello dell'improvvisa ed inspiegabile cecità del 95% della popolazione umana del pianeta. Nel contempo, se il 95% di disoccupazione si verificasse esclusivamente per cause economiche, la fine del mondo, per la quale, secondo Žižek, noi non abbiamo problemi ad immaginare, sarebbe allora del tutto identica alla fine del capitalismo. Infine, il mio punto di vista è quello di mostrare che dietro entrambe le cause - cecità/trifidi, e la più plausibile depressione economica - si trova lo stesso meccanismo che abbiamo proposto: l'innovazione tecnologica.
John Wyndham era abbastanza consapevole del fatto di come l'innovazione tecnologica avesse degli effetti imprevedibili sull'economia. Ne dice qualcosa in proposito proprio ne Il Giorno dei Trifidi:
«Lo scopritore e l'inventore sono la rovina degli affari. A paragone, un po' di sabbia negli ingranaggi non è niente - basta solo sostituire le parti danneggiate, e andare avanti. Ma l'apparire di un nuovo processo, di una nuova sostanza, quando tutte le cose sono ben organizzate, e ticchettano bene tutte insieme, ecco, quello è il diavolo. A volte può andare ancora peggio - e non si può consentire che ciò avvenga. Ci sono troppe cose in ballo. Non si possono usare i metodi legali, devi provarne altri. [...] Umberto aveva dato di tutta la faccenda un quadro fin troppo roseo. La produzione di quel nuovo olio a prezzo assai basso non avrebbe rovinato soltanto la "Arctic and European" e i suoi associati. Le conseguenze sarebbero state di più vasta portata. Poteva darsi che la cosa non riuscisse fatale all'industria dell'olio di pistacchio, dell'olio d'oliva, dell'olio di arachidi e ad altre simili, ma sarebbe stata pur sempre un rude colpo. Per di più, ci sarebbero state violente ripercussioni nelle industrie derivate quale quella della margarina, del sapone e di cento altri prodotti, dalle creme di bellezza alle vernici, e così via. In effetti, una volta che alcune delle personalità più autorevoli in materia ebbero afferrato l'entità della minaccia, i termini proposti da Umberto finirono col sembrare quasi modesti. »

Ne Il Giorno dei Trifidi, è l'innovazione tecnologica, in due campi che collidono brevemente, a creare la catastrofe: il primo campo è quello dell'orticoltura, probabilmente proveniente dall'Unione Sovietica, che produce i letali trifidi. Il secondo campo è quello delle armi spaziali, presumibilmente dagli Stati Uniti, che producono i satelliti malfunzionanti che accecano il 95% della popolazione mondiale. Per poter stabilire quale sia il ruolo dell'innovazione tecnologica nel generare la depressione economica, basta citare come fonte John Maynard Keynes, il quale sosteneva che la Grande Depressione era stata causata dai rapidi progressi tecnologici, i quali avevano eliminato la necessità del lavoro umano nella produzione. Scrive Keynes:
«Siamo afflitti da un nuovo male, del quale alcuni lettori potrebbero anche non aver ancora sentito il nome, ma di cui sentiranno molto parlare negli anni a venire, vale a dire, la disoccupazione tecnologica. Ciò significa disoccupazione dovuta alle nostre scoperte di quei mezzi volti ad economizzare l'utilizzo del lavoro, più rapidamente di quanto riusciamo a trovare dei nuovi utilizzi per il lavoro.»
Voglio solo ricordare a chi legge, che arrivati a questo punto, non sto affatto cercando di trovare un modo per creare una depressione globale con il 95% di disoccupazione. Sto semplicemente cercando di far vedere come il meccanismo impiegato da John Wyndham nella sua storia - l'innovazione tecnologica - sia lo stesso che viene impiegato da Keynes per spiegare la Grande Depressione, la quale ha in realtà prodotto una molto meno grave disoccupazione globale del 25%. Il mio argomento è quello secondo cui, armeggiando con l'attuale cronologia storica - vale a dire, rimuovendo l'impatto distruttivo della Seconda Guerra Mondiale sulle forze produttive - avremmo potuto realisticamente aspettarci una Grande Depressione molto più grave di quanto non sia stata. Ciò dovrebbe preparare il terreno per il mio tentativo di costruire una narrazione speculativa di una futura società comunista alternativa.
Ed ecco che così abbiamo il nostro colpevole, che si trova dietro il dramma post-apocalittico che si svolge ne Il Giorno dei Trifidi. E viene fuori che il colpevole è lo stesso criminale che viene accusato da Keynes di essere implicato nella Grande Depressione: l'innovazione tecnologica. La domanda alla quale bisogna ora rispondere, riguarda come si possa trasformare queste potenziale altamente distruttivo, latente nell'innovazione tecnologica, in un'utile forza produttiva per poter costruire la base materiale della mia narrazione speculativa di una società comunista?
Nel capitolo 15 del I Volume de Il Capitale, Karl Marx offre un suggerimento tratto da un esempio storico dell'Inghilterra del 19° secolo: a quanto pare, la relazione tra innovazione tecnologica e ridondanza del lavoro può essere ampiamente reciproca. È vero che l'innovazione teorica può creare disoccupazione tecnologica, portando così a gravi contrazioni economiche, come la Grande Depressione, ma sembra che sia vero anche il contrario: drastiche riduzioni dell'orario di lavoro  accelerano enormemente le innovazioni tecnologiche e incrementano la produttività.
Nel capitolo 15, Marx esamina quelli che sono i dati di queste riduzioni. Nel 1844, la giornata lavorativa in Gran Bretagna venne limitata a 12 ore. Nel 1847, tale limite venne nuovamente abbassato a sole 10 ore. I miglioramenti nella produttività conseguenti alle due riduzioni, sembrano provenire da 3 diverse fonti:
Per prima cosa, entro certi limiti, quello che si perde in giornata lavorativa, accorciandone la durata, si recupera grazie all'aumentata tensione del dispendio di forza lavoro. I lavoratori meglio riposati, sono in grado di lavorare con più energia, con più costanza ed attenzione. Come seconda cosa, con l'accorciamento della giornata lavorativa e l'aumentata capacità del lavoratore, l'impresa capitalista impiega macchinari migliorati, in modo da poter spremere più lavoro nello spazio dei limiti della nuova giornata lavorativa. Ciò viene attuato sia accelerando che concentrando un maggior numero di macchinari sotto il controllo di un singolo lavoratore. Più di 150 anni dopo, queste due osservazioni fatte da Marx, continuano ad essere supportate dalla ricerca. Queste risposte del capitale a quelli che sono i limiti della giornata lavorativa, volevano dire che i primi sforzi per limitare le ore di lavoro hanno effettivamente sortito il paradossale effetto combinato di incrementare di 5 volte i profitti, piuttosto che ridurli! Secondo i dati citati da Marx, tra il 1838 ed il 1850, i profitti relativi al cotone inglese e alle altre fabbriche erano in media del 2,7% l'anno. Sono saliti al 14,3%, tra il 1850 ed il 1856, dopo che le ore di lavoro vennero limitate a 10 ore. Riducendo la giornata lavorativa, a 12 ore nel 1844, e poi di nuovo a 10 ore nel 1847, il parlamento costrinse l'industria britannica, per ripristinare la sua redditività, ad innovare e a diventare più produttiva. Scrive Marx:
«Non può esserci alcun dubbio sulla tendenza che spinge il capitale, non appena il prolungamento delle ore di lavoro viene proibito una volta per tutte, a compensare sé stesso, attraverso un innalzamento sistematico dell'intensità del lavoro, e convertendo ogni miglioramento nei macchinari in un modo più perfetto di sfiancare il lavoratore, e questo deve ben presto portare ad uno stato di cose in cui la riduzione dell'orario di lavoro sarà di nuovo inevitabile. Dall'altra parte, il rapido progresso dell'industria inglese tra il 1848 e i nostri giorni, sotto l'influenza della giornata di 10 ore, supera quello che era stato l'avanzamento che era stato fatto tra il 1843 ed il 1847, quando la giornata di 12 ore, aveva sorpassato di gran lunga il progresso che era stato fatto nel corso del mezzo secolo successivo alla prima introduzione del sistema di fabbrica, quando la giornata lavorativa non aveva alcun limite.»
Potrebbe sembrare, perciò, che per poter creare le basi materiali della mia società speculativa comunista immaginaria io stia facendo appello ad una drastica riduzione dell’orario di lavoro, in modo da liberare quel tipo di innovazione tecnologica che porterebbe ad una società con caratteristiche assai simili a quelle della Londra immaginaria de Il Giorno dei Trifidi. Tuttavia, la differenza sarebbe che nessuno verrebbe reso disabile, nessuno rimarrebbe disoccupato (come accade anche un una versione apocalitticamente più grave della Grande Depressione), e non ci sarebbero girasoli che mangiano le persone.
«Va bene, ma dove sta il divertimento? Dov'è il dramma? Dov'è il conflitto? Dove sono gli zombi carnivori? » Se nella rivoluzione borghese per antonomasia, la Rivoluzione francese, c'è stato posto per Robespierre e per il Regno del Terrore, allora, nel nostro comunismo speculativo immaginario, noi di certo possiamo avere Stalin!

«Stalin? Che schifo!» E lo so, giusto? Andavamo così d'accordo... Ed ora probabilmente vorrai fare almeno una doccia. Ma non si può fare una frittata senza collettivizzare i contadini ed espropriare le loro uova, vero?
Oltretutto, in cambio stiamo dando loro il comunismo, trascinandolo via a calci ed urla dall'idiozia della vita rurale. I loro figli ci ringrazieranno. Seriamente, intendo quello che dirà un adolescente, «Non vedo l'ora di allevare maiali, non appena mi laureo!» Quindi, sì. Stalin.
Il tipo ha una cattiva reputazione anche tra la maggior parte dei comunisti, ma io non sono qui per difenderlo. Come ho detto, serve ad aggiungere sapore alla storia. Da qualche parte, in questa futura società comunista speculativa, bisogna metterci Stalin. Senza di lui, tutto sarebbe troppo pulito e ordinato. Senza Stalin, gli stupidi comunisti avrebbero cominciato a credere nelle loro fantasie masturbatorie in technicolor a proposito della rivoluzione proletaria.
Pensala così: la borghesia americana deve fare i conti con i difetti dei suoi eroi. Tutti sanno che Thomas Jefferson si scopava la sorellastra di sua moglie, che era anche la loro schiava. Vivevano in una normale orgia romana, mentre lui stilava dichiarazioni secondo cui tutti gli uomini erano stati creati uguali, «tranne quella schiava puttana e la sua progenie bastarda!» Nonostante tutta questa schifezza, gli hanno eretto un monumento a Washington. Jefferson non è stato cancellato dalla storia americana e Stalin rimane in questa storia, poiché le persone che creano il comunismo sono dei prodotti del capitalismo. Dobbiamo sapere che i proletari che sono passati attraverso i meandri di un tale abominio per creare il comunismo, non sono state necessariamente delle persone molto gentili. E non c'è alcun motivo di aspettarsi che comincino ad essere gentili il giorno dopo che viene abolita la schiavitù salariale.
Come diceva Marx ne La Critica del Programma di Gotha: «Quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla sua propria base, ma viceversa, come sorge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le impronte materne della vecchia società dal cui seno essa è uscita
All'inizio, la mia speculativa società comunista immaginaria sarà moralmente spaventosa, in quanto è stata creata da persone che recano ancora impresso il marchio della vecchia società; per generazioni, le persone hanno affittato sé stesse in cambio di cibo e riparo. Pensi che questo danno scompaia dall'oggi al domani? Il coperchio della vecchia società verrà aperto, e ne uscirà fuori ogni genere di mostri. Ne verrà fuori merda tale che ci farà perdere qualsiasi fiducia nell'umanità - e forse ci toccherà anche mangiarla.
Ma per far rimanere Stalin nella storia, c'è anche una seconda ragione, meno negativa. Anche se la cosa non è mai stata riconosciuta dai comunisti, fra tutti i comunisti del 20° secolo, Stalin aveva da dire alcune cose piuttosto intelligenti circa i passi pratici necessari per realizzare effettivamente il comunismo. Nel 1950, Stalin si rende conto che nel momento in cui cominci a distribuire i generi di prima necessità in base ai bisogni, tutto il mondo verrà a bussare alla tua porta. Hai mai visto le tende dei senzatetto che fiancheggiano le strade a San Francisco? Perché si trovano lì? Ci sono perché la gente sa che il governo non impedirà loro di vivere per strada, però non ha in programma di costruire alloggi per impedire loro di vivere per strada. Ecco perché.
Se l'Unione Sovietica avesse annunciato che da quel momento in poi i beni di prima necessità sarebbero stati distribuiti in base ai bisogni, allora era meglio che si preparassero a far fronte all'afflusso di decine di milioni di proletari in fuga dalla zona capitalista che venivano a godersi la loro nuova vita in comune, dove tutti i beni di prima necessità venivano distribuiti in base ai bisogni. Stalin, che - qualsiasi cosa tu possa pensare di lui - rimase fino alla fine una persona pratica, ci pensò sopra e disse che se mai ci fosse stato il comunismo, l'Unione Sovietica avrebbe dovuto essere in grado di espandere costantemente la produzione sociale, e inoltre doveva espandere ad un ritmo ancora più rapido la produzione dei mezzi di produzione. Senza che riuscisse a far questo, l'Unione Sovietica non avrebbe potuto estendere costantemente l'entità della produzione, come sarebbe stato richiesto da un sistema di distribuzione basato sui bisogni. Ad ogni modo, è interessante notare che anche se Stalin stava parlando del bisogno di espandere costantemente la produzione sociale e di estendere l'entità della produzione per andare incontro a ciò che richiedeva un sistema di produzione basato sui bisogni, egli proponeva anche di ridurre la giornata lavorativa a 5 ore. Chiaramente, Stalin non credeva che la costante espansione dell'entità della produzione, fatta al fine di soddisfare i requisiti di un sistema di distribuzione basato sui bisogni, poteva essere raggiunta grazie alla forza bruta del lavoro umano. Sarebbe stato il prodotto della macchina, e ciò significa un bel po' di innovazione tecnologica. Perciò Stalin propone che il governo sovietico introduca l'educazione politecnica obbligatoria universale.- Voleva convertire l'innovazione tecnologica da forza distruttiva, come viene descritta ne Il Giorno dei Trifidi di John Wyndham, in una forza produttiva in grado di creare le basi materiali per una società comunista. Il comunismo sarebbe la creazione, non delle mani umane, ma di quello che Marx aveva chiamato «the general intellect».

Allora, cos'è il general intellect?
Ad essere sincero, sembra che nessuno lo sappia. E sul termine non provare a consultare Wikipedia; farlo è del tutto inutile: «Il General Intellect, secondo Marx, nei suoi Grundrisse, diventa una forza determinante di produzione. È una combinazione di competenza tecnologica e di intelletto sociale, ovvero conoscenza sociale generale (l'importanza sempre più crescente del macchinario, in quella che è l'organizzazione sociale). Il passaggio che riguarda il «general intellect», nel Frammento sulle macchine della sezione dei Grundrisse, mostra che, mentre sotto il capitalismo lo sviluppo dei macchinari ha portato all'oppressione dei lavoratori, esso offre anche una prospettiva per la liberazione futura.»
La voce di Wikipedia fa riferimento ad un testo di Paolo Virno. Costui afferma con sorprendente sfacciataggine che Marx ha completamento sbagliato il concetto di general intellect! Come avviene di solito nella lunga tradizione marxista, Marx conia un termine inteso a catturare un concetto, ed ecco che poi arriva un qualche accademico marxista di terza categoria e dichiara che il termine inventato da Marx si riferisce ad un concetto diverso da quello per il quale Marx ha inventato quel termine.
L'intelletto generale è il termine che viene usato da Marx per riferirsi al situazione generale della scienza e della tecnologia (vale a dire, alle applicazioni di questa conoscenza scientifica alla produzione) come esso fosse fisicamente connesso all'infrastruttura produttiva totale della società. Esso descrive sia l'attuale rivoluzione nella conoscenza, a partire dal fatto che è l'umanità ad attingere ai segreti della natura, sia l'applicazione pratica di tale conoscenza alla produzione, dal momento che l'umanità libera le forze della natura e utilizza quelle stesse forze per esercitare la propria padronanza sulla natura stessa.
L'elemento archetipico (l'unità, la componente) del general intellect è la macchina. Alcune persone confondono le macchine con gli strumenti, ma io penso che non siano la stessa cosa. Con un'ascia di pietra, puoi spaccare il legno e dividerlo, ma per dividere gli atomi ci vuole una macchina che lo faccia. Inoltre, le macchine non sono un'estensione della mano umana. Marx chiarisce come attualmente le macchine siano un'estensione del cervello umano, siano conoscenza scientifica materializzata nella forma di processi industriali: «Sono organi del cervello umano creati dalla mano umana: capacità scientifica oggettivata. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità a esso. Fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale.»

La macchina è conoscenza oggettivata!
L'intelletto generale è la somma totale delle conoscenze scientifiche e tecniche dell'umanità, espresse in forma oggettivata nell'infrastruttura produttiva totale della società. In questa forma, la conoscenza scientifica e tecnica è diventata sia una forma della produzione diretta a sé stante che un organo immediato della pratica sociale complessivamente. Era questa la forza che Stalin indicava che la società sovietica avrebbe scatenato per realizzare il comunismo. In sostanza, il comunismo stesso sarebbe stato conoscenza oggettivata, un'estensione della mente umana. Il lavoro avrebbe dovuto andarsene per lasciare il posto a questo nuovo organo del cervello umano. Per descrivere meglio cosa sta accadendo nella nostra speculativa società comunista alternativa, possiamo parafrasare il frammento sulle macchine di Marx. Progressivamente, la creazione del comunismo dipenderebbe sempre meno dal dispendio di lavoro umano e sempre più dall'applicazione controllata di forze naturali messe in moto nel corso della produzione. L'applicazione in maniera mirata di forze naturali nella produzione, a sua volta, dipenderebbe da quella che è la situazione generale della scienza e dall'applicazione di questa scienza alla produzione, in che modo si trova collegata direttamente (fisicamente incorporata) nell'infrastruttura della produzione in continua evoluzione. Dal momento che la produzione delle basi materiali del comunismo, implicherebbe direttamente lo scatenarsi di processi naturali che sono stati trasformati in processi industriali, gli stessi lavoratori non verrebbero direttamente coinvolti nella produzione che ha creato il comunismo. Semmai, si limiterebbero solo a supervisionare le macchine che hanno effettivamente creato la base materiale della società comunista. Queste nuove generazioni di macchine impareranno da sé sole. Le iterazioni successive potrebbero anche cominciare a mantenersi da sole, e progettare e costruire macchine migliori. Nella terza fase, è possibile che le macchine agiscano come consulenti per la società umana! Questo punto segnerà la nostra partenza dall'attuale fase storica, ma prima di poterci arrivare dobbiamo salvare Krusciov dal pensionamento anticipato e fare esplodere il mondo.

Oh certo, non è che voglia far saltare letteralmente in aria il mondo.
Ma voglio stabilire una linea temporale alternativa che finisca con l'Unione Sovietica che realizza una società comunista pienamente sviluppata prima del 1990, anziché collassare in una Stato oligarchico-gangster-fascista guidato da ex agenti del KGB, o qualunque altra cosa sostengano le ultime teorie pop che sia laggiù accaduto. Naturalmente, per rimuovere il collasso dell'Unione Sovietica dalla mia linea temporale, devo rimuovere la benevola leadership del Segretario Generale Gorbaciov e il suo programma di perestroika. Ma questo significa che dalla linea temporale devo rimuovere anche circa vent'anni di stagnazione economica sotto l'incompetente gestione del Segretario Generale Breznev, la quale a sua volta ha reso storicamente necessaria la benevola leadership del Segretario Generale Gorbaciov, vale a dire la forma necessaria, col senno di poi, assunta dal collasso dell'Unione Sovietica. Il che mi riporta al Segretario Generale Nikita Sergeyevich Krusciov (nato il 15 aprile 1894, morto l'11 settembre 1971), revisionista, straordinario "tankie" [vedi: https://www.urbandictionary.com/define.php?term=tankie ] e proverbiale «zio ubriaco nel bel mezzo del mio matrimonio» del comunismo moderno.
Se oggi ci sono così pochi comunisti che vogliono essere identificati con Stalin, la colpa è di Krusciov, il quale, nel 1956, rese pubblico un indirizzo segreto che descriveva nel dettaglio quelli che si diceva fossero stati i crimini di Stalin. Ragion per cui appare strano che, a prescindere dall'infamia di Stalin, non ci sia nessuno che si identifichi chi lo ha denunciato. O meglio, rimane strano finché non ti rendi conto che ci sono un bel po' di cose che la gente ritiene siano stati i crimini degli "stalinisti", come l'invasione dell'Ungheria, della Cecoslovacchia e dell'Afghanistan, il muro di Berlino, ecc., vennero commessi, non da Stalin, bensì dalle persone che denunciarono Stalin. Ma torniamo a Sergeyevich! Lui ha denunciato Stalin, ma non ce l'ho con lui. Così come non sto dalla sua parte. Non ero lì, allora. Ha invaso l'Ungheria, e io non ero lì nemmeno allora. Probabilmente, quella era la cosa sbagliata da fare, ma l'ha fatta. Non sempre i proletari fanno la cosa giusta. Fanno anche delle stronzate malvagie! Il motivo per cui voglio salvare Sergeyevich è piuttosto egoista: in questa storia, ho bisogno di Sergeyevich perché, in Unione Sovietica, lui sembra essere stato l'ultimo personaggio della leadership ad aver realizzato la connessione tra lavoro e comunismo. Dopo che lui viene rimosso dalla posizione di Segretario Generale, le cose cominciano rapidamente a dirigersi verso il collasso. Dopo che viene rimosso, la leadership sovietica rinnega il proprio impegno a ridurre le ore di lavoro e quello che era stato il suo obiettivo dichiarato di una settimana lavorativa di 15 ore entro il 1980. E forse il motivo per cui ciò avviene, è che i lavoratori ottengono un crescente potere sociale che permette loro di resistere alle esigenze della gestione aziendale. È possibile che sia la gestione delle imprese che i militari temano che con la richiesta di più beni di consumo da parte dei lavoratori si possa perdere l'enfasi sull'industria pesante. Forse questa è solo speculazione, ma serve a riempire le lacune narrative. Mi serve un risultato diverso, voglio che la leadership sovietica mantenga il suo impegno nel ridurre le ore di lavoro. Ciò significa che i militari devono farsi da parte, e Sergeyevich, che era presente durante la Grande Guerra Patriottica, può costringerli. Inoltre, l'Unione Sovietica possiede l'arma che garantisce la sua sopravvivenza di fronte alle aggressioni militari degli Stati Uniti. E per dimostrarlo, Sergeyevich ordina una dimostrazione di questo, facendo esplodere la Bomba Zar. Benché non lo si saprà per decenni, l'evento crea due linee temporali.
Nella prima, la storia si svolge come noi la conosciamo, l'Unione Sovietica collassa. Nella linea temporale n°2, l'Unione Sovietica continua a creare la prima società comunista, con tutte le implicazioni che un evento simile ha per il mercato mondiale. Il narratore, ovviamente, segue la linea temporale n°2. E così passa un sacco di tempo a guardare l'Unione Sovietica che sviluppa una società pienamente comunista. Ed ecco che, nel 2020, quasi per caso, avviene la sconvolgente scoperta della linea temporale n°1. Naturalmente, per noi la scoperta non è affatto una sorpresa. Noi sappiamo di esserci. Ma come faranno loro a spiegare quel che è successo? E cosa proveranno a fare al riguardo?

Amo quest'affermazione della Le Guin a proposito della narrativa speculativa, sebbene io sia abbastanza sicuro di non condividerla: «Questo libro non è estrapolativo. Se volete potete leggerlo, come tanta altra fantascienza, come un esperimento del pensiero. Immaginiamo (dice Mary Shelley) che un giovane dottore riesca a creare un essere umano nel suo laboratorio; immaginiamo (dice Philip K. Dick) che gli Alleati abbiano perso la seconda guerra mondiale; immaginiamo che le cose stiano in questo modo o in quest’altro, e vediamo cosa succede… In una storia così concepita, la complessità morale caratteristica del romanzo moderno non deve essere immolata, né si deve arrivare a una fine obbligata già implicita; il pensiero e l’intuizione possono muoversi liberamente all’interno dei confini posti soltanto dai termini dell’esperimento, che possono essere davvero estesi. Il fine di un esperimento del pensiero, secondo l’uso che del termine facevano Schrödinger e altri fisici, non è quello di predire il futuro (anzi, il più famoso esperimento di pensiero di Schrödinger arriva a dimostrare che il "futuro", al livello del quanto, non può essere predetto), ma quello di descrivere la realtà, il mondo contemporaneo» - Ursula K. Le Guin, "Introduzione a La Mano Sinistra delle Tenebre”.
Contrariamente alla Le Guin, penso che la narrativa speculativa possa essere estrapolante. Per esempio, possiamo prendere l'argomentazione del 1930 di Keynes, che estrapola a partire dalle condizioni sociali verificatisi nella Grande Depressione. O vediamo se mi riesce di metterla insieme a partire da quello che è uno dei più interessanti saggi di Keynes sulla depressione, "Prospettive economiche per i nostri nipoti" (1930):
« Se il capitale aumenta, diciamo, del 2% l’anno, in vent’anni l’attrezzatura produttiva del mondo sarà aumentata del 50% e in cent’anni di sette volte e mezzo. Pensate a questo in termini di beni capitali: case, trasporti e simili (...) Visto in prospettiva, infatti, ciò significa che l’umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico. Mi sentirei di affermare che di qui a cent’anni il livello di vita dei paesi in progresso sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno. (...) Giungo alla conclusione che, scartando l’eventualità di guerra e di incrementi demografici eccezionali, il problema economico può essere risolto, o per lo meno giungere in vista di soluzione, nel giro di un secolo. Ciò significa che il problema economico non è se guardiamo al futuro, il problema permanente della razza umana. »
E, secondo Keynes, quali erano allora per Keynes le implicazioni di questa tendenza tecnologica?
« Faremo, per servire noi stessi, più cose di quante ne facciano di solito i ricchi d’oggi, e saremo fin troppo felici di avere limitati doveri, compiti, routine. Ma oltre a ciò dovremo adoperarci a far parti accurate di questo “pane” affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito fra quanta più gente possibile. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi. Dovremo attenderci cambiamenti anche in altri campi. Quando l’accumulazione di ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudo-morali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione “denaro” il suo vero valore. L'amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali. Saremo, infine, liberi di lasciar cadere tutte quelle abitudini sociali e quelle pratiche economiche relative alla distribuzione della ricchezza e alle ricompense e penalità economiche, che adesso conserviamo a tutti i costi, per quanto di per se sgradevoli e ingiuste, per la loro incredibile utilità a sollecitare l’accumulazione del capitale. »

Questo, che avete appena letto, è un pezzo di narrativa speculativa; ed è anche estrapolante. Keynes prende semplicemente quelle che sono le esistenti tendenze dell'innovazione tecnologica, le estrapola 100 anni nel futuro e arriva ad una società notevolmente diversa da quella che ha osservato nel suo tempo. Un buon scrittore di narrativa speculativa avrebbe potuto prendere le riflessioni di Keynes e avrebbe poi potuto speculare a cosa potrebbe somigliare una società in cui «il problema economico» sia stato risolto. Infatti, in proposito Keynes fornisce alcuni interessanti suggerimenti:

- «Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudo-morali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli
- «Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione “denaro” il suo vero valore. L'amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali.»
- «Saremo, infine, liberi di lasciar cadere tutte quelle abitudini sociali e quelle pratiche economiche relative alla distribuzione della ricchezza e alle ricompense e penalità economiche, che adesso conserviamo a tutti i costi, per quanto di per se sgradevoli e ingiuste, per la loro incredibile utilità a sollecitare l’accumulazione del capitale.»

Ma uno scrittore di narrativa speculativa che sia ancora migliore, potrebbe chiedersi: «Che cosa potrebbe vanificare ed impedire che si realizzi la visione di Keynes?». O, in maniera ancora più pertinente: «A cosa assomiglierebbe il mondo se non si fosse realizzata la visione di Keynes, e "il problema economico" fosse stato effettivamente risolto, ma le ore di lavoro fossero rimaste inalterate? Cosa farebbero quei poveri pazzi bastardi che continuano a lavorare pur senza avere nessun motivo per farlo?»

Mentre Keynes faceva affidamento su dei nudi e crudi dati approssimativi per poter arrivare alla sua conclusione, secondo la quale le ore di lavoro, entro il 2030, si sarebbero ridotte a non più di 15 ore per settimana in quelle aree di mercato colpite dalla Grande Depressione, Krusciov e i leader dell'Unione Sovietica proponevano il calendario di una vera e propria tabella di marcia che entro il 1968 traghettasse l'URRS  alla settimana lavorativa più corta del mondo. A partire dal 1956, i sovietici avevano annunciato di aver dato inizio ad una transizione che li avrebbe portati dalla settimana lavorativa di 48 ore - istituita dopo la seconda guerra mondiale per potersi riprendere dal catastrofico conflitto globale - ad una settimana lavorativa di 40 ore entro il 1962. A partire poi, quasi immediatamente dopo, dal 1964, i sovietici avrebbero dato inizio alla transizione che li avrebbe traghettati dalla nuova settimana lavorativa di 40 ore ad una ancora più corta di 35 ore. La transizione era stata programmata affinché si concludesse nel 1968, anno in cui l'Unione Sovietica avrebbe potuto vantarsi di avere la settimana lavorativa più corta del mondo. Ma le riduzioni dell'orario di lavoro non finiva lì: Krusciov aveva dichiarato pubblicamente che l'URSS avrebbe continuato a ridurre l'orario di lavoro anche nel decennio successivo, o giù di lì, per riuscire a raggiungere l'obiettivo delle 3/4 ore giornaliere di lavoro entro il 1980. In altre parole, l'Unione Sovietica aveva proclamato che avrebbe raggiunto l'obiettivo speculativo di Keynes del 2030 - della giornata lavorativa di 3 ore - cinquant'anni prima di quando aveva previsto Keynes con i suoi calcoli.

Krusciov stava parlando a vanvera? Non esattamente.
La chiave della credibilità dell'affermazione di Krusciov sta nel fatto che Keynes, nei suoi prudenti calcoli del 1930,  si basava su degli incrementi annuali della produttività stimati al 2%, mentre per l'URRS veniva stimato, quanto meno dalla CIA (che difficilmente può essere considerata come una fonte incline all'iperbole rivoluzionaria), un'espansione della sua produzione ad un tasso annuale del 10%, nei primi 9 mesi del 1960. Inoltre, sia che ti trovi nel campo dei comunisti che pensano che l'Unione Sovietica fosse socialista, oppure che tu sia nel campo di quelli che pensano fosse capitalista - se non addirittura bloccata da qualche parte nel mezzo - devi ammettere che, essenzialmente, la sua era una produzione pianificata, nella quale l'intera infrastruttura di produzione veniva gestita come se fosse costituita da un'unica impresa (o azienda capitalista, se sei incline a pensarlo). Grazie alla pianificazione centrale, questa enorme impresa, secondo fonti affidabili, stava accumulando un surplus aggiuntivo al tasso del 10% annuo, senza patire le consuete interruzioni dovute alle periodiche crisi capitalistiche. Perciò, assumendo solo le condizioni esistenti al tempo dei calcoli nudi e crudi di Keynes, l'Unione Sovietica, grossomodo, raddoppiava ogni sette anni quelle che erano le sue dimensioni produttive, anziché aumentare del 50% ogni venti anni, come immaginava Keynes. E come diceva Keynes, devi pensare tutto questo in termini di quelle che era l'infrastruttura totale del capitale dell'Unione Sovietica - case, trasporti, e così via -, la capacità di produrre tutto.
Per poter comprendere quelle che erano le implicazioni del calendario della tabella di marcia sovietica per la riduzione dell'orario lavorativo, va menzionato il fato che il 1968 si sarebbe aperto con la spettacolare sconfitta dell'aggressione americana al Vietnam e con il caotico collasso della presidenza Johnson; e si sarebbe chiuso con l'annuncio ufficiale, da parte dell'Unione Sovietica, che sarebbe stato istituito la più corta giornata lavorativa della storia dell'umanità. Nel corso del decennio successivo, il mercato mondiale avrebbe assistito al crollo di Bretton Woods e al collasso dell'economia globale in un'inimmaginabile eruzione simultanea di iperinflazione e di iperdisoccupazione, che avrebbe portato all'ascesa della Tatcher in Gran Bretagna e di Reagan negli Stati Uniti, quando l'Unione Sovietica stata progressivamente riducendo la sua giornata lavorativa da 7 a 3 ore, con 50 anni di anticipo sulla predizione di Keynes. Come dire che, riguardo la predizione di Keynes, un buon scrittore speculativo avrebbe potuto prendere il programma di Krusciov e speculare, essenzialmente, su a che cosa potrebbe assomigliare un mondo nel quale i sovietici avessero risolto «il problema economico». O certo, come sarebbe nel caso un tale programma non fosse stato rispettato, lo sappiamo già. Lo mostra l'immagine che vediamo sopra.

La nostra esplorazione ci ha portato al limite di quelli che probabilmente sono i requisiti minimi di una società pienamente comunista: una giornata lavorativa di 3 ore.
Keynes aveva previsto queste 3 ore di giornata lavorativa, basandosi su un tasso di crescita del 2%, e quindi di quelle che erano le tendenze tecnologiche allora esistenti. Aveva supposto che sarebbe stata probabile entro il 2030. L'Unione Sovietica, basando le sue proiezioni su un tasso di crescita molto più elevato, del 10%, aveva preventivato che ad una giornata lavorativa di 3 ore si sarebbe arrivati 50 anni prima, nel 1980. Come sappiamo, non si realizzata nessuna di queste proiezioni. Tuttavia, mi trovo impegnato nel cercare di creare un mondo alternativo, una futura società comunista speculativa alternativa che, almeno fino ad ora, non è mai esistita. Lo faccio, per poter arrivare a descrivere come potrebbe funzionare una simile società. Questa domanda viene fatta continuamente dalle persone che sono scettiche riguardo al fatto che una società del genere possa mai esistere. Perciò, facciamo ancora un passo avanti e supponiamo di essere ora arrivati all'obiettivo che si era dato Kruscev per il 1980, di una giornata lavorativa di 3 ore.
Abbiamo risolto tutti i problemi che l'umanità si è posta? Ci troviamo ora nella mia utopia comunista? La storia è finita? Forse no. E perché no?
Ok, come ho detto precedentemente, il comunismo in sé sarebbe conoscenza oggettivata, sarebbe un'estensione della mente umana. Ho usato questi termini per un motivo. Marx li ha usati entrambi, per descrivere le macchine. Un altro modo per dirlo, è quello secondo cui, in contrasto con il capitalismo - il quale è essenzialmente un modo di produzione che serve a spremere plus-lavoro dai lavoratori salariati -, il comunismo può essere concettualizzato come una enorme macchina, come una macchina intelligente. Il comunismo, è la creazione di un'intelligenza artificiale (macchina). All'inizio, avremmo creato quella macchina, mantenendola e supervisionandola. Ma poi, col passare del tempo, la macchina avrebbe cominciato a mantenersi e a supervisionarsi da sé sola, progettando i propri miglioramenti e funzionando, per lo più, senza che ci fosse bisogno di alcun intervento umano. È anche possibile che un giorno questa macchina possa eclissare, per quanto riguarda l'intelligenza, gli esseri umani. Va bene, vero? Beh, forse no. Nel 1993, in un saggio dal titolo "Technological Singularity", Vernor Vinge ha fatto alcune riflessioni su quest'idea ed ha concluso che potrebbe portare alla nostra estinzione in quanto specie. Leggendolo, si scopre che ciò che io chiamo «la base materiale del comunismo», Vinge la chiama «singolarità tecnologica». Il termine richiama, facendogli eco, il neologismo di Keynes, «disoccupazione tecnologica», alla quale nel suo saggio Vinge fa effettivamente riferimento: definisce che cosa egli intenda con quel termine, e perché ritiene che possa essere una minaccia per il futuro dell'umanità. Secondo Vinge, l'accelerazione del progresso tecnologico è stata la caratteristica centrale di questo secolo. Non solo essa ha eclissato l'impiego del lavoro umano nella produzione, ma ha prodotto quello che è stato un cambiamento paragonabile all'ascesa della vita umana sulla Terra: l'imminente creazione - con mezzi tecnologici - di una coscienza dotata di un'intelligenza più che umana. Ci possiamo aspettare che, in una forma o nell'altra, emergerà una intelligenza super-umana. Vinge ritiene che sarà una certezza entro il 2030: la stessa data entro la quale Keynes aveva previsto la giornata lavorativa di 3 ore.

Dal momento in cui sarà emersa questa intelligenza super-umana, il progresso tecnologico diverrà ancora più incredibilmente rapido. Un simile progresso comporterà la creazione di entità ancora più intelligenti, su una scala temporale ancora più breve. Mentre l'evoluzione della vita intelligente, attraverso la selezione naturale, ha richiesto miliardi di anni sulla Terra, gli esseri umani sono stati in grado di realizzarla in pochi secoli. Adesso ci troviamo sull'orlo del precipizio di una nuova fase, che è altrettanto radicalmente diversa da quella a cui noi apparteniamo quanto la nostra lo era da quella degli animali inferiori. Vinge così conclude, affermando:
«Questo cambiamento sarà un rigetto di tutte le regole umane, e forse avverrà in un batter d'occhi - una fuga esponenziale al di là di ogni speranza di controllo. Gli sviluppi che pensavamo potessero avvenire solo "in un milione di anni" (se mai) probabilmente avverranno nel prossimo secolo. È corretto chiamare questo evento una singolarità ("la Singolarità", ai fini di questo testo). Si tratta di un punto in cui i nostri vecchi modelli devono essere scartati e dove governa una nuova realtà, un punto che incomberà sempre più sugli affari umani fino a che diventerà banale. Eppure, quando alla fine accadrà, sarà un'enorme sorpresa e un territorio ignoto.»

Secondo Vinge, se una singolarità tecnologica non può essere prevenuta o limitata, allora si rende possibile l'estinzione fisica della razza umana. Ma ci avverte, l'estinzione fisica potrebbe non essere la possibilità più spaventosa: l'umanità potrebbe essere ridotta a mero bestiame, impiegata per delle specifiche funzioni che si renderano utili in quello che sarà un più ampio ambito di Intelligenza Artificiale:

«Pensa ai modi diversi in cui ci relazioniamo con gli animali. Un mondo post-umano potrebbe avere ancora un bel po' di nicchie in cui potrebbe essere auspicabile un'equivalente automazione per l'uomo: sistemi integrati in dispositivi autonomi, demoni autocoscienti al livello di funzionamento più basso di sistemi senzienti più grandi... Alcuni di questi equivalenti umani potrebbero essere usati solo per l'elaborazione del segnale digitale. Altri potrebbero essere molto simili all'uomo, sebbene con un'unilateralità, una dedizione che lo inserirebbe in quello che sarebbe l'equivalente di un ospedale psichiatrico della nostra era. Sebbene nessuna di queste creature potrebbe essere un uomo in carne ed ossa, nel nuovo ambiente, si potrebbe trattare della cosa più vicina a ciò che noi chiamiamo essere umano».

Praticamente, si tratta del concetto che sta alla base del film Matrix. L'umanità è stata ridotta ad essere una fonte di energia per un'Intelligenza Artificiale. E per mantenerla sana di mente, viene alimentata per mezzo di una simulazione. Vinge ha concettualizzato la post-apocalisse in modo da farla apparire come se fosse il risultato inevitabile dell'innovazione tecnologica. Si legga attentamente questo passaggio:

«Prima, ho sostenuto che non possiamo impedire la Singolarità, e che la sua venuta è un'inevitabile conseguenza della naturale competitività umana e delle possibilità inerenti alla tecnologia».

Vinge vorrebbe farci credere che quale che sia la minaccia dell'estinzione fisica che incombe oggi sulla testa dell'umanità, essa sia conseguenze dell'innovazione tecnologica. Questa innovazione  tecnologica, in un futuro assai prossimo, produrrà una fuga intellettuale, un'esplosione esponenziale dell'intelligenza artificiale, al di là di ogni speranza e di ogni controllo umano. Ma se esaminiamo questo argomento più da vicino, è ovvio che al momento non esiste alcun controllo sulla tecnologia. L'innovazione tecnologica è guidata esclusivamente dalla concorrenza. Secondo Vinge:

  - «Ritengo che qualsiasi regola abbastanza rigorosa da poter essere efficace, produrrebbe anche un dispositivo la cui capacità sarebbe chiaramente inferiore a quella della sua versione illimitata (in modo tale che la concorrenza umana favorirebbe lo sviluppo di modelli più pericolosi)».

- « Noi umani possediamo un bagaglio evolutivo di milioni di anni che ci porta a considerare la concorrenza sotto una luce mortale ».

- « Il vantaggio competitivo - economico, militare, persino artistico - di ogni progresso nell'automazione è talmente avvincente che proibire simili cose non farebbe altro che assicurare semplicemente che ci sarebbe qualcun altro che le otterrebbe ».

- « [Aumentare l'Intelligenza], per i singoli esseri umani, crea un'élite alquanto sinistra ».

Vinge, forse senza rendersene conto, suggerisce che il suo principale sintomo di una singolarità tecnologica - la fuga tecnologica - non è una preoccupazione che riguarda il futuro, ma piuttosto una realtà costante dell'esistente modo di produzione. Ed è stata una minaccia da quando l'innovazione tecnologica guidata dalla concorrenza capitalistica ha innescato la prima depressione - forse già negli Stati Uniti del 1819. Per prima cosa, la tecnologia ha dislocato il lavoro umano nella produzione, creando la Grande Depressione; ed ora minaccia di rendere superflui gli esseri umani, anche per quel che riguarda il design e la supervisione delle macchine che essi hanno creato per sostituire il lavoro umano.
Se in tutto questo, le argomentazioni di Vinge riguardo la competizione e l'innovazione tecnologica vi suonano vagamente familiari, è perché è così. È la stessa discussione che infuria ormai da decenni tra i comunisti, e che pone l'imbarazzante domanda: «Dov'è il soggetto rivoluzionario?»

fonte: The Real Movement