martedì 7 gennaio 2020

Svegliatevi!

Caro Chandler il grande sonno ora è finito
- di Giancarlo De Cataldo -

«Lo statuto narrativo dell'hard boiled», ha scritto John C. Cawelti, noto esperto della cultura pop, «assomiglia moltissimo ad un mondo uscito fuori da un curioso matrimonio fra il muckracking e la sterilità e la sordidezza, in chiave lirica di Terra desolata di Eliot». Muckraker (letteralmente: spalatore di letame) è, in gergo, il giornalista investigativo che svela intrighi segreti, smaschera complotti, fa esplodere scandali che i potenti di turno sono pronti a far tutto pur di negare. L'hard boiled è dunque il racconto di una corruzione pervasiva e micidiale scandito da un dolente pessimismo esistenziale. Lo scrittore scopre l'intrigo, ma già nel farlo è implicita la sua perdita di speranza nella possibilità che il mondo, che quell'intrigo ha generato cambi. O quanto meno, egli dubita che possa accadere.
Sotto la decadente facciata del capitalismo novecentesco (è ancora Cawelti) si annida un nemico terribile: l'universo stesso. «Un cosmo senza Dio governato dal caos, dalla violenza e dalla morte». Le tranquillizzanti pietà del passato, «la credenza in un universo benevolo, nel progresso e nell'amore romantico, sono illusioni, perché l'uomo è solo in un universo senza significato».
Aggiunge il nostro studioso Franco La Polla: Dashiell Hammett reagisce a tutto questo in modo duro, intransigente, sprezzante, da radicale. Raymond Chandler - di cui Adelphi ha deciso di ripubblicare i capolavori in eleganti edizioni cominciando ora da Il grande sonno - offre una risposta «più sommessamente triste, poiché non nasce dalla convinzione dell'assoluta negatività del nuovo ordine, bensì dalla constatazione che questo non ha scelto la strada giusta». Hammett, anche se si iscriverà al partito comunista, che pure si batteva per una visione palingenetica, è un pessimista cosmico. Mentre Chandler, per Cawelti, «vede la corruzione e la violenza della metropoli non come inevitabile condizione umana, ma come il risultato del materialismo e della rapacità americani».
Per questo il Sam Spade di Hammett è un eroe più radicale del Philipp Marlowe di Chandler. Che, dal suo canto, è più ironico e disincantato, e probabilmente, per noi lettori, più "moderno" . Accomunati dalla forte spinta etica i protagonisti delle storie, diversissimi fra loro gli autori. Combattente, emarginato, inquieto Hammet, pacifico, sedentario, riflessivo Chandler. L'uno finì stritolato dalla macchina propagandistica delle attività antiamericane, l'altro trovò un ragionevole accordo, e pur senza macchiarsi di alcun tradimento, navigò indenne in anni in cui bastava l'ombra di un sospetto radicalismo  a stroncare promettenti carriere.
Periodicamente resuscitato, in anni recenti, da penne del calibro di Robert B. Parker e John Banville, cavaliere senza macchia e senza paura che combatte il marciume contemporaneo, Marlowe è alto uno e novanta e pesa novantatré chili, capelli castano scuro, occhi marrone, e «l'espressione "passabilmente simpatico" non lo troverebbe d'accordo». Gioca discretamente a scacchi, gli piacciono le donne, specialmente bionde e ingenue, ma uscirebbe indenne dal #MeToo perché è troppo gentleman per «saltare addosso tutte le fatalone». Usa una calibro 38, però malvolentieri. È povero. Prende 25 dollari al giorno più le spese, ma per qualche cliente bisognoso è pronto a scendere a 10. Perché se il metro di misura del successo è il denaro, il denaro conquistato in modo sporco, Marlowe è un fallito, e ne è orgoglioso. In fondo, «una quantità di uomini eccellenti sono stati dei falliti perché i loro particolari talenti non si adattavano all'epoca e al luogo in cui vivevano. A lungo andare immagino che siamo tutti dei falliti, o il mondo di oggi non sarebbe così com'è». Di conseguenza, Marlowe è ideologicamente agnostico, come il suo creatore: «Se ne infischia di chi è il Presidente, e anche io, perché so che sarà un politico. È arrivato un uccellino e mi ha informato che potrei scrivere un buon romanzo proletario. Ma nel mio mondo limitato non esiste un animale di questo genere. Marlowe e io non disprezziamo le classi superiori perché fanno il bagno ogni giorno e hanno denaro. Le disprezziamo perché sono bugiarde».
Un personaggio così forte non poteva che trasformarsi rapidamente in eroe del grande schermo. E infatti, di volta in volta, lo abbiamo visto interpretato da Dick Powell e Bogart, dalla maschera ironica di Robert Mitchum, da un irresistibile Elliott Gould ne Il lungo addio in versione psichedelica di Robert Altman. Non vedremo mai, ahinoi, il Marlowe  di Federico Fellini. Che non sarebbe stato un lungagnone californiano, ma un poliziotto italiano che il maestro di Rimini aveva in animo di raccontare, negli anni Ottanta, in una serie tv. Ispirandosi, appunto a Chandler. Alla sua maniera di raccontare. Fellini voleva «riferire fatti criminosi, di sangue, di indagini, attraverso i quali non era possibile capire niente, risalire a un disegno, a un piano, a un consolante scioglimento dell'enigma». Il protagonista, costretto dai vincoli rigidi del sistema, finiva per essere «il comprimario di una realtà sfuggente, ingovernabile dalla logica». Perché la realtà, per Fellini, restava comunque un oggetto inafferrabile, dai contorni non definibili. E «Chandler proprio questo aveva fatto, calarsi con infinito talento di narratore dentro la inafferrabilità di quello che ci proponeva». Per afferrare, ovviamente senza riuscirci, «il gioco misterioso, irrazionale e inconoscibile della vita». Che peccato che non sia fatto!

- Giancarlo De Cataldo - Pubblicato su Repubblica del 21/12/2019 -

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