C’erano una volta i maccheroni, trascurati e negletti dai cuochi e dalla gente comune. A un certo punto, accadde qualcosa: una serie di convergenze inaspettate creò le magiche condizioni che permisero, a questo cibo poco valorizzato, di mostrare appieno le sue enormi e squisite potenzialità. Fu così che i poveri maccheroni assursero agli altari della gloria, per essere celebrati sulle tavole italiane e del mondo intero. Ma come è potuto accadere tutto ciò? Quali sono stati gli incastri della storia e del destino, quali gli orchi e quali invece le fate che hanno sancito il trionfo della pasta? Il volume – arricchito da un inserto a colori con immagini d’epoca – ci accompagna lungo questa storia affascinante. Tutto ebbe inizio quando quel semplice impasto di acqua e farina – uno dei composti più comuni dell’alimentazione fin dall’antichità – cominciò a svelare, nelle mani dei mastri pastai di Genova e Napoli, la ricchezza che racchiudeva, la straordinaria malleabilità, l’incredibile capacità di accompagnare i sughi e i condimenti più disparati, di zittire la fame e accendere il piacere; e tutto cambiò quando, fuori dall’ambito domestico e artigianale, i maccheroni si reinventarono come prodotto industriale urbano, imponendosi come «primo piatto» e come unico, autentico cibo nazionale, in grado di esportare l’italianità fuori dalla penisola. L’accurata ricerca di Alberto De Bernardi rivela curiosità e aneddoti di questa vicenda e mette in luce le profonde dinamiche storiche, economiche e culturali di una trasformazione del gusto che è stata anche e soprattutto una trasformazione sociale. La storia della pasta è la storia di un cibo identitario, però aperto al mondo, che invita a «mangiare italiano», ma al contempo attrae e accetta i condimenti e i sughi dei popoli e delle terre con cui entra in contatto; un cibo dunque che parla al mondo, ma che anche porta il mondo in Italia.
(dal risvolto di copertina di: Alberto De Bernardi, "Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta", Donzelli, Roma, pagg. 248, € 32.)
Mangiamaccheroni d’Italia
- di Angelo Varni -
Storia di un’identità collettiva, di uno stereotipo accettato con condiscendente naturalezza da un’intera comunità nazionale, quella della pasta quale alimento insostituibile dell’intera popolazione italiana. Quasi ben più di una vivanda, ma un vero e proprio segno distintivo della nostra difficile uniformità nazionale da far valere a mitigare le frammentazioni interne e a dissipare le diffidenti valutazioni esterne sulla raggiunta compattezza di Stato unitario.
A percorrerne, però, la vicenda della sua presenza nella dieta alimentare delle generazioni succedutesi nella penisola si rischia di perdersi nella molteplicità di indizi che la equiparano alle tante modalità di impastare acqua e farina, magari insieme ai più svariati ingredienti, dolci come salati, fin dall’antichità proprie di tutte le regioni del Mediterraneo, per esiti dalle diversificate denominazioni e dagli svariati formati, per lo più accomunati, i vermicelli come gli gnocchi, i fidei come le lasagne e i tortelli e tanto d’altro, sotto la indistinta definizione di maccheroni.
È altrettanto evidente l’esigenza di comprendere il consolidarsi nel tempo di questo ruolo «nazionale» della pasta attraverso non solo, certo, le sue attitudini gastronomiche-nutrizionali, bensì rapportandolo ai mutamenti economici, agli sviluppi tecnologici, alle dimensioni mercantili, alle contingenze delle scelte politiche, alle trasformazioni del gusto, fino al radicarsi di un diffuso immaginario che lo collocava al centro delle narrazioni riguardanti la nostra socialità ed il reticolo della nostra quotidianità.
A questa complessa ricerca si rivolge Alberto De Bernardi, cercando di dipanarne un filo interpretativo che, intanto, distinguesse la pasta di grano tenero da quella di grano duro, con la prima tipica di una dimensione casalinga, mentre la seconda, per la sua ridotta deperibilità e l’apporto proteico del glutine che la caratterizzava, poteva essere chiamata a svolgere una funzione decisiva nell’assicurare la sopravvivenza alimentare delle masse di popolazione, impoverite dalla rivoluzione agricola tra Sei e Settecento.
Alla moltitudine di ceti popolari europei non restava, infatti, che il ricorso a cibi in grado di sostituire il calo di proteine dovuto alla scomparsa della carne dalle loro misere mense con prodotti di minor qualità nutrizionale ma di elevato potenziale calorico come mais e patate. Mentre fu a Napoli – assicura l’autore – che questa attitudine della pasta a divenire, dalla seconda metà del Seicento, «alimento di scorta per fare fronte alle carestie, all’inflazione e all’insicurezza alimentare», ed insieme cibo di “riempimento”, assunse una dimensione tale da farne definire gli abitanti dei mangiamaccheroni per antonomasia, favorendo, per altro, un monofagismo estraneo alle drammatiche conseguenze delle altre citate diete povere, come, ad esempio, quella basata sulla polenta dell’Italia padana.
Da qui il diffondersi di un’aneddotica, di proverbi, di un’iconografia fino alla maschera di Pulcinella sempre alla ricerca di soddisfare la sua fame atavica rimpinzandosi, appunto, di maccheroni, tanto da definire la stessa antropologia collettiva della città. Una città esposta ad una travolgente crescita demografica, ben poco compensata da un soddisfacente sviluppo abitativo, con moltitudini di abitanti raccolte in case fatiscenti o, addirittura, costrette a vivere per strada: da qui l’esigenza di nutrirsi fuori dall’inesistente dimensione domestica, rivolgendosi a quanti offrivano nelle strade porzioni di pasta.
Ecco, dunque, la necessità di utilizzare il grano duro per realizzare l’impasto, ad un tempo, resistente e nutriente, inserendosi in una dimensione di mercato, dove la domanda della popolazione era soddisfatta dall’impiego di frumento derivante dall’intensificarsi dei traffici commerciali internazionali, mentre la sua complessa elaborazione veniva svolta prima in botteghe artigiane, poi in stabilimenti dalle dimensioni di vere e proprie fabbriche.
Queste nell’area napoletana si svilupparono tra Torre Annunziata e Gragnano; ma via via si allargarono in tante altre località della penisola – a partire da quella di Genova, subito ricca di produzioni e di innovazioni – mano mano che l’affinamento tecnologico delle lavorazioni, attentamente spiegato dall’autore lungo un cammino dal ’700 al secolo scorso, si svincolava dalle dipendenze dagli elementi naturali( l’acqua per l’energia e i venti utili all’essiccazione).
Le durissime condizioni di vita degli abitanti della penisola, del resto, riproducevano esigenze non difformi da quelle del sottoproletariato napoletano, favorendo un’utilizzo della pasta secca, che comunque continuò a lungo a combinarsi con le tante tradizionali manipolazioni degli impasti di farina propri dei mille campanili italiani.
Fino all’imporsi della nuova ritualità domestica borghese, codificata dal ricettario di Pellegrino Artusi, con la sua proposta di un «risorgimento gastronomico», proteso ad un amalgama geografico e di ceti, che favorì una sorta di omogeneità nel gusto collettivo basato sull’imporsi di primi piatti di pasta.
Intanto il fenomeno migratorio nelle Americhe andava creando tante Italie fuori dalla penisola, che affidarono alla pasta il loro legame identitario, consentendo, ad un tempo, alla nostra imprenditoria di fruire di massicci flussi di esportazione e di imporsi progressivamente nelle diete di popolazioni dapprima ostili allo stereotipo degli italiani mangiamaccheroni.
- Angelo Varni - Pubblicato sul Sole del 19/1/2020 -
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