giovedì 16 gennaio 2020

Usciamone!

Feticismo e dinamica autodistruttiva del capitalismo, intervista con Anselm Jappe
- di Jean-Marie Harribey - martedì, 19 dicembre 2017 -

Jean-Marie Harribey: Hai appena pubblicato "La société autophage, Capitalisme, démesure et autodestruction" (Paris, La Découverte, 2017), in cui ti basi sulla «critica del valore», soggetto dei tuoi precedenti libri, per analizzare il modo in cui la società capitalista produce una sorta di soggettività degli individui che li integri nella sua dinamica autodistruttiva. Cominciamo dall'inizio. La tesi centrale della «corrente critica del valore», da te incarnata insieme a Kurz, Postone, e forse Gorz (torneremo su questo), è quella che considera il fatto che il lavoro, il valore, la merce sono delle categorie del capitalismo, e solo di esso. A partire da tale ipotesi ne deriverà una proposta politica: per potersi sbarazzare del capitalismo, bisogna sbarazzarsi del lavoro, del valore, ecc. Se si tratta di un problema semantico, vale a dire, se decidiamo di partire dal fatto che chiamiamo «lavoro» il lavoro proletario salariato, e decidiamo di dire che il valore è il valore per il capitale, ecco che allora la discussione è subito chiusa; basta che troviamo degli altri concetti che servano a spiegare quelle che sono le altre realtà al di fuori del capitalismo, o che sussistono (o si sviluppano) al suo interno. Invece, a partire dal fatto che Marx ha sempre distinto quello che lui chiamava il processo del lavoro in generale dal processo del lavoro capitalista, la mia domanda è: fare del lavoro e del valore delle categorie legate esclusivamente al capitale, non equivale a rifiutare questa distinzione marxiana? In altre parole, accettando l'idea che le forme del lavoro, la sua organizzazione, gli obiettivi ad esso assegnati non sono altro che il prodotto di relazioni sociali, e che quindi sono delle costruzioni sociali e storiche, si può eliminare qualsiasi altra dimensione che vada al di là di una tale struttura, e che avrebbe quindi un carattere antropologico che si riferisce alla condizione (e non alla «natura») umana? A partire dalla corrente critica del valore, che cosa diventa l'essere umano che produce - per mezzo del proprio lavoro - le sue condizioni di esistenza, e quindi produce anche sé stesso? Il concetto di «lavoro vivente» non reca forse in sé l'idea della «riproduzione della vita sociale» sia sul piano materiale che su quello culturale e simbolico, vale a dire l'idea della centralità del lavoro vivente, e ciò al di là della contingenza storica del capitalismo? Che cosa diventa l'essere umano nel suo rapporto metabolico con la natura - che ha sempre intrattenuto, ovviamente, nel contesto delle relazioni sociali? Se questa discussione è di natura metodologica, o perfino epistemologica, non si potrebbe considerare il fatto che il capitalismo ci spinge a vedere nel lavoro un concetto storico legato al capitalismo proprio perché tende a rendere il lavoro un dato omogeneo, indifferenziato, astratto?
Il tuo libro si colloca al crocevia di alcune filiazioni teoriche, fra queste, in particolare, il marxismo e la psicoanalisi. Ma al di là delle figure dei Marx, di Freud e di alcune altre, si pone al crocevia di alcune discipline che fanno parte delle scienze sociali ed umane. Allo stesso modo in cui tiene conto del contributo dell'antropologia, rispetto alla quale alcuni autori illustri hanno sottolineato, dopo aver studiato sul campo numerose società pre-moderne, che se il lavoro non avesse assunto le forme che conosciamo, se coloro che ne partecipano non avessero avuto le medesimi rappresentazioni delle loro attività produttive, questo sarebbe stato comunque lavoro. Penso a Godelier, a Descola, a Deranty - per quanto riguarda gli autori di lingua francese - e a Sahlins [*1], per i quali i cacciatori-raccoglitori lavoravano meno di noi ma lavoravano, sebbene il confine con le altre attività fosse assai tenue. E Polanyi cita Malinowsky che analizza «il lavoro nell'ambiente indigeno» come dissociato dall'idea della sua retribuzione; egli cita anche Firth: «Il lavoro come fine a sé stesso è una caratteristica costante dell'attività Maori» [*2]. Sembrano quindi tutti mantenere questa dualità del lavoro che è stata sottolineata da Marx, con una dimensione antropologica ed una dimensione storica strettamente intrecciate. Si potrebbe estendere la discussione a due altre categorie, il cui statuto in Marx potrebbe essere incerto. Oggi sappiamo che il mercato e la moneta sono due istituzioni sociali assai precedenti al capitalismo e che, per quanto il capitalismo abbia assegnato loro uno sviluppo particolare al fine di servire all'accumulazione del capitale, non possono essere ridotti a questo.Possiamo perciò ritrovare la discussione relativa alla produzione anche nella sfera monetaria non di mercato. Ancora una volta, la discussione teorica ha un prolungamento politico e strategico: una società che superi il capitalismo non metterebbe forse il denaro al servizio dell'interesse generale? E non sorgerebbe forse la stessa domanda anche per il mercato?

Anselm Jappe: A volte si ha come l'impressione che numerose discussioni - in ogni campo e in ogni ambito - finiscano sempre per girare intorno alle parole e per lo più si riducano al fatto che i partecipanti associano alle stesse parole dei significati assai diversi. Nondimeno, si sbaglierebbe se però si dicesse che allora le divergenze sono solo semantiche, e che in fondo quelli che si trovano in disaccordo nelle discussioni, siano più vicini di quanto pensano. E in effetti si sbagliano, perché in realtà le differenze semantiche assai spesso non fanno altro che nascondere delle differenze molto «essenziali».
E tale è il caso per quel che riguarda una delle parole più utilizzate al mondo, e più carica di significato: «lavoro». Avremmo grandi difficoltà a spiegare questa parola, nel senso in cui la usiamo, a - non sto dicendo ad un indio di una tribù amazzonica - ma più semplicemente a Cicerone o a Tommaso d'Aquino. È da qualche secolo - tutt'al più un mezzo millennio, in molte regioni del mondo - che ormai va avanti la società del lavoro; questo concetto è diventato così profondamente radicato nelle nostre teste che sembra impossibile smettere di utilizzarlo. Si accetta perciò di discutere di quelle che sono le sue mille forme particolari, ma negarne la sua esistenza trans-storica appare altrettanto insensato che negare la necessità universale di respirare. Oh certo, qui si richiede una precisazione «semantica»:  il lavoro del quale sto mettendo in dubbio il carattere universalmente umano non può essere considerato identico a ciò che Marx ha chiama «metabolismo con la natura», o identico alle attività produttive in generale. Qui, stiamo discutendo della forma sociale che queste attività hanno assunto storicamente. Dire che la forma sociale capitalistica del metabolismo con la natura è solo una forma specifica dell'eterna necessità di assicurare questo metabolismo, è solo un truismo vuoto di senso: sarebbe come dire che l'agricoltura capitalista è uno sviluppo del bisogno umano di avere un apporto calorico giornaliero. La cosa è indubitabilmente vera, ma non significa assolutamente niente. Questa base comune ad ogni esistenza umana, non possiede alcuno specifico potere esplicativo. La questione perciò non è quella di sapere se, in ogni società umana, gli esseri umani si affannino a trarre dalla natura tutto quello di cui hanno bisogno, ma chiedersi se abbiano sempre operato all'interno delle loro attività una cesura, una rottura, tra il «lavoro», da una parte, e tutto il resto (gioco, avventura, riproduzione domestica, rituale, guerra, ecc.), dall'altra. E io penso che a questa domanda si possa rispondere «no».
Tuttavia, una volta istituito il «campo» del lavoro, a partire dal 14° secolo, e definitivamente a partire dal 18° secolo, è diventato difficile rappresentare l'attività produttiva in maniera diversa dalla forma del «lavoro», qualunque sia l'epoca o la società che viene presa in considerazione. Persino le menti più critiche ne subiscono l'influenza. Ragion per cui, Marx ha oscillato per tutta la sua vita tra una concezione trans-storica del lavoro e una concezione critica e storicamente specifica, nel momento in cui analizza il «lavoro astratto». Va detto che non esiste lavoro che non abbia un «lato astratto», dal momento che il lavoro, da quando è apparso storicamente, ha posseduto una «duplice natura», astratta e concreta. Quindi, tutto il lavoro è «lavoro astratto»; prima non esisteva affatto un lavoro concreto che poi sarebbe diventato «astratto».
Infatti, la critica del valore distingue tra un «Marx essoterico» ed un «Marx esoterico». Non si tratta di «fasi» del suo pensiero, bensì di differenti livelli di coscienza che si mescolano e si intrecciano in tutta la sua opera. Da un lato, malgrado tutto, Marx apparteneva al pensiero «moderno» derivante dall'Illuminismo, e più in particolare dalla sua versione protestante con la sua famosa «etica del lavoro». In quanto «dissidente del liberalismo», secondo Kurz, Marx sviluppa e sfrutta molte delle sue ipotesi, soprattutto utilitariste. Dall'altro lato, in Marx appare un discorso diverso, più fondamentalmente critico, più in anticipo rispetto alla sua epoca, ma anche molto più difficile da cogliere e da comprendere, addirittura per lui stesso: questo discorso, che compare nella forma più concentrata nel primo capitolo del Capitale, ma che si trova, frammentato, in tutta la sua critica dell'economia politica, non considera affatto il valore ed il lavoro astratto, il denaro e la merce come se fossero dei fattori eterni di ogni qualsiasi modo di produzione un po' «sviluppato», a proposito del quale si può discutere la distribuzione, ma non la sua esistenza stessa. Piuttosto, egli li analizza come se fossero la base, e simultaneamente il risultato, di un'unica formazione storica, il capitalismo, e, secondo elemento essenziale, ne dimostra il loro carattere distruttivo, che si situa ad un livello logico più profondo di quanto lo siano le relazioni di classe, insieme allo sfruttamento ed al dominio che implicano. Gli è che il concreto - il valore d'uso, il lato concreto del lavoro - si riduce ad essere il «portatore», la «forma fenomenale» dell'astratto, vale a dire, la forma del valore creato per mezzo del lato astratto del lavoro: il puro e semplice dispendio di energia, misurato in tempo di lavoro.
Tuttavia, anche all'interno del primo capitolo del Capitale, Marx sembra esitare, perfino passando da una riga alla successiva, tra questa concezione del lavoro ed un'altra concezione che vede nel lavoro «una necessità eterna». La stragrande maggioranza di coloro che gli hanno succeduto, i marxisti, hanno del tutto eluso la sua critica del lavoro ed hanno edificato un «marxismo» che è una vera e propria ontologia del lavoro ed hanno reso il lavoratore il rappresentante privilegiato di questa base di ogni vita umana, a fronte di tutti gli altri gruppi sociali che sono costituiti unicamente da dei parassiti. È stato piuttosto attraverso le avanguardie artistiche, che ha fatto la sua comparsa una certa critica del lavoro  sotto forma di un marxismo eterodosso, sia che si trattasse dei Situazionisti o che che si potesse leggere in alcune pagine di Adorno, di Marcuse e di Horkheimer. Altre forme di critica del lavoro, che si basavano su delle pratiche reali, sono apparse grazie all'operaismo italiano. Ma tutte queste critiche rimanevano assai spesso legate ad un livello soggettivo o «fenomenale»: il rifiuto (assai comprensibile) di sottomettere la propria vita ad un lavoro alienato ed imposto. Quella che non emergeva, era una critica «categoriale» del lavoro, che riconoscesse soprattutto l'identità tra capitale e lavoro in quanto si tratta delle due forme della medesima «sostanza». Anche le menti più critiche hanno avuto delle difficoltà a cogliere il carattere storico del lavoro. Ne Le Avventure della Merce, io critico proprio Marshall Sahlins il quale, dopo il suo meritorio tentativo di mostrare quanto fosse il poco tempo che le società cosiddette primitive dedicavano alle attività produttive, non rinuncia tuttavia a classificare la caccia come appartenente alla categoria del «lavoro», mentre probabilmente, in una società di cacciatori, si trattava di una delle attività più desiderabili. Riflettendo in un altro contesto, Moishe Postone,  che ha elaborato un'interpretazione di Marx assai importante, e per lo più abbastanza vicina a quella espressa da Robert Kurz e dal «ramo tedesco» della critica del valore, cade anche lui nella stessa trappola: dopo aver dimostrato molto bene che solamente nel capitalismo il lavoro è la base della vita sociale, diventando un'istanza che si auto-media, laddove è il lavoro a creare l'ordine sociale, mentre nelle altre forme di società era l'ordine sociale a distribuire il lavoro; Postone ci dice che il lavoro svolgeva un ruolo sociale completamente diverso nelle società non capitaliste, ma non arriva alla conclusione che in quella società era proprio la categoria stessa del lavoro che non esisteva.
Se questa confutazione del carattere trans-storico del lavoro è estremamente minoritaria, persino tra coloro che sono i più critici degli interpreti di Marx, ciò dimostra forse la mancanza di fondamenta della confutazione? In ogni caso, nel mio libro sottolineo  come degli antropologhi e degli storici come Jean-Pierre Vernant o Moses Finley abbiano dimostrato, al di là di qualsiasi pregiudizio ideologico, l'impossibilità di applicare il concetto di lavoro alle società antiche. Ciò non significa affatto che gli esseri umani non avrebbero dovuto faticare e fare degli sforzi - a volte molto grandi - per soddisfare i loro bisogni, sia reali che simbolici. Ma questi sforzi erano sempre legati a quelli che erano i risultati sperati. Erano il prezzo da pagare per poter ottenere ciò che si desiderava. Ma è solo nel capitalismo che una parte di queste attività è stata staccata da ogni contenuto concreto ed è stata riassunta in un'unica categoria, il lavoro, in quanto dispendio di energia che crea oggetti ( o servizi ) senza che ci sia alcun piano prestabilito, mettendo in relazioni post festum, su un mercato anonimo, i produttori. È questo ciò che noi chiamiamo «lavoro». Se si vuole, al contrario, applicare questo termine ad ogni attività umana, ecco che esso perde ogni potere di distinzione, perde qualsiasi capacità euristica. Si possono fare delle considerazioni parallele riguardo il denaro. Il fatto che esistano delle monete in molte società pre-capitalistiche non prova affatto il loro carattere «naturale»: in quei contesti, il denaro non era la rappresentazione di equivalente generale che rendeva uguali tutte le attività produttive e tutti i prodotti di quelle attività, al di là di un certo grado non era accumulabile, non era il vero fine della produzione, esso si trovava sempre «incastrato» in quelle che erano le altre forme di scambio, spesso in un ambito sacrale. Il denaro ed il lavoro vanno insieme. Il lavoro in quanto legame sociale non è possibile senza che ci sia la presenza del denaro, ed il denaro non è affatto «il denaro» laddove il lavoro non costituisce il legame sociale. Noi pensiamo spontaneamente che i Greci avessero un'«economia». Ma il grande storico dell'Antichità Moses Finley, nel suo classico "L'economia degli antichi e dei moderni" (1973) dimostra che non c'era affatto economia. Pertanto, non si vede in che modo - e perché - continuare con la moneta in una società post-capitalista, che può esistere solo nel momento in cui abolisce l'equivalente generale insieme all'omologazione distruttiva che esso opera.

Jean-Marie Harribey: Ne "La Società autofaga", che comincia presentando il mito di Erisittone. di questo insaziabile «re che si autodivora» (p.5), tu analizzi la crisi del capitalismo come se fosse una crisi del valore e non come una degenerazione della legge del valore, cosa su cui sono pienamente d'accordo. Allo stesso modo, ne "Le avventure della merce" (p.18) [*3], scrivi: «Spesso, si rimprovera a Marx di ridurre tutto alla vita economica e di trascurare il soggetto, l'individuo, l'immaginazione o i sentimenti. In realtà, Marx ha dato semplicemente una descrizione impietosa della realtà capitalistica. È la società delle merci a costituire il più grande "riduzionismo" mai visto. Per poter uscire da questo "riduzionismo", bisogna uscire dal capitalismo, non dalla sua critica. Ad essere obsoleta, non è la teoria del valore di Marx, bensì il valore stesso.» Potresti specificare in che modo la corrente critica del valore si differenzia su questi punti dalle tesi dei teorici del capitalismo cognitivo, e magari da quelle di Gorz, dal momento che perfino Marx, nel celebre passaggio dei Grundrisse che viene abbondantemente citato, passa curiosamente dall'idea secondo cui il lavoro non sarebbe più il produttore essenziale della ricchezza a quella in cui il lavoro non è più il produttore del valore, cosa che ti fa dire che la legge del valore è «sospesa» ("Le avventure della merce", p.157)? La precisione è importante poiché essa implica una caratterizzazione della crisi attuale. Ci troviamo - come scrivi tu (p.186) - «nell'epoca della decomposizione del capitalismo» ovvero alla fine di un ciclo di capitalismo segnato dall'impossibilità di rendere la finanza un sostituto del lavoro produttivo di plusvalore, ma questa cosa non implica necessariamente anche l'impossibilità di un nuovo ciclo? Possiamo sapere qualcosa sul futuro? Ecco che tutto questo ci riporta ad una questione politica: il ruolo della lotta di classe nella strada che ci porta al superamento del capitalismo.  Possiamo ritenere, come fai tu e come fa Postone, che, finora, il movimento operaio si sia concentrato unicamente sulla ridistribuzione del prodotto del lavoro, anziché attaccare quello che è il rapporto sociale capitalista, e che «ha realizzato il suo vero compito: quello di garantire l'integrazione nella società borghese» ("Le avventure della merce", p.109)? Quando Marx analizza, facendola a pezzi, la giornata lavorativa, e mostra che la lotta per la sua durata e quella per il suo pagamento sono la medesima cosa, non lega forse la critica del dominio del lavoro a quella del dominio sul lavoro? Se questi due problemi sono indissociabili, ci troviamo costretti a dover scegliere tra liberare il lavoro e liberarci dal lavoro? Diversamente, in che cosa e come possiamo dissociarli, attraverso quale rivendicazione che abbia senso nel contesto delle lotte sociali, più concretamente, come «abolire il lavoro»?

Anselm Jappe: Per quanto riguarda il "Frammento sulle macchine" di Marx, c'è da dire che negli ultimi decenni ha ricevuto delle interpretazioni divergenti. I sostenitori del post-operaismo, e di quello che è il suo prolungamento nella teoria del «capitalismo cognitivo», affermano che Marx prevedeva il progressivo «superamento» del valore in quanto base della ricchezza sociale, nel momento in cui il «general intellect» diventa la principale forza produttiva, e che ora con la microinformatica siamo arrivati al punto in cui non manca altro che la sua traduzione politica. Per la «critica del valore», quella pagina dei Grundrisse evoca piuttosto una delle radici della crisi fondamentale del capitalismo:  la divergenza sempre più crescente - dovuta all'aumento del livello di produttività - tra la ricchezza concreta, in crescita, e la sua rappresentazione per mezzo del valore, sempre in calo a causa della diminuzione del lavoro vivente, unica fonte del valore. Tuttavia, la logica del valore (possiamo anche dire «la legge del valore», se con questo termine non intendiamo una «legge» trans-storica, bensì un dato feticistico valido solo nel capitalismo) non scompare solo a causa di tutto questo, ma continua ad esercitare il suo dominio e a continuare a costringere il concreto nella camicia di forza del valore astratto. Per poter avere successo, questa logica deve (sempre come processo feticista inconscio governato dal «soggetto automatico», e non come decisione cosciente di alcuni «dominanti») barare con sé stessa. In questo modo, rimediando alla mancanza di denaro «reale» (proveniente da una reale valorizzazione del valore iniziale attraverso un utilizzo produttivo del lavoro vivente) per mezzo di denaro a credito, proveniente dal «capitale fittizio», ecco che la vita sotto flebo del capitalismo può continuare ancora un altro po', mentre che in pratica «sospende» quelle che sono le leggi del suo funzionamento. Ciò, pertanto, non costituisce affatto un'uscita dal capitalismo, ma solamente un differimento di quella che sarà la resa dei conti.
La critica del valore è una teoria della crisi fondamentale del capitalismo. Questo, oggi, si scontra con quelli che sono i suoi limiti interni: il principale consiste nella diminuzione della sua sostanza creata attraverso il lavoro vivente. La conseguenza più visibile di ciò, consiste nelle crescenti masse di esseri umani che diventano «superflui». Non è questo il posto giusto per ripetere tutte le nostre analisi. Voglio solo ricordare che, dopo la fine del ciclo fordista verificatasi intorno al 1970, venivano continuamente annunciati dei nuovi cicli basati su nuovi modelli di accumulazione. Ma questi cicli non sono mai arrivati. E questo per un motivo: ogni nuovo prodotto, ciascun nuovo metodo di produzione si presenta fin dall'inizio con un bel po' di tecnologia e assai poco lavoro vivente. È da quasi mezzo secolo che il capitalismo è sopravvissuto, quando è sopravvissuto, grazie alla simulazione finanziaria.
«Se questi due problemi sono indissociabili, siamo costretti a scegliere tra liberare il lavoro e liberarci dal lavoro?» Il problema non si pone assolutamente, e men che mai nei termini di un'alternativa tra riforme e rivoluzione, tra massimalismo e pragmatismo, tra breve e lungo termine. L'abolizione del lavoro e del denaro non è più un programma utopico ed estremista, ma viene realizzata giorno per giorno dalla crisi capitalista. C'è sempre meno lavoro, e sempre meno soldi «reali». Uscire dal capitalismo significa quindi affrontare questa situazione e inventare nuove forme di attività e di circolazione. Evidentemente, ciò implica un re-orientamento delle «lotte sociali». Se a breve termine, a volte, può essere giustificato difendere un posto di lavoro o un servizio statale, a medio e a lungo termine non appare né consigliabile né realistico scommettere su queste forme feticistiche, le quali sono sempre state disastrose, e che inoltre oggi non funzionano nemmeno più.

Jean-Marie Harribey: Se viene adottato il metodo della corrente critica del valore, vale a dire quello di  rifiutare, riferendolo ad altri contesti, l'uso di concetti che sono stati «pienamente sviluppati» nel capitalismo ("La società autofaga", p.13), come mai allora avviene che questo metodo venga, se non abbandonato, quanto meno ammorbidito nel momento in cui nella tua analisi integri l'apporto della psicoanalisi. Per esempio, scrivi (p.186): «Proprio come Marcuse che ha preso sul serio la "pulsione di morte" e ha costruito su tale concetto una critica del capitalismo, anche noi pensiamo che bisogna ammettere che una parte delle pulsioni distruttive sono ben presenti nell'essere umano fin dall'inizio e non provengono solo dalla corruzione della natura umana, che precedentemente sarebbe stata vergine. Non le ha inventate il capitalismo, ma esso ha fatto saltare quelle che erano le barriere che le contenevano, e ne ha promosso la loro espressione, assai spesso per sfruttarle.» Se si accetta questo «bisogna ammettere... »  - di natura (se si può dire) antropologica - riferito al campo della psicoanalisi, perché non è possibile farlo nel campo della socio-economia? Una cosa è dire, come fa Postone e come fai tu, che «dopo Marx, la forma merce e la legge del valore si sviluppano pienamente solo sotto il capitalismo e sono esse le sue determinazioni essenziali» [*4], altra cosa è concludere che esse non esistono altro che sotto il capitalismo, e che all'interno di questo il valore esiste solo per il capitale. Ciò significa che il lavoro produttivo, definito come ciò che produce valore per il capitale, rappresenta l'Idealtipo del capitalismo. Ma cosa dire allora del capitalismo concreto, nel quale la forza lavoro produce del valore monetario, ma non della merce, per la società, nel campo dell'istruzione, della sanità, che non può essere considerato come se fosse finanziato ai fini della produzione di mercato, a meno di non ricadere nella fede liberale? [*5]

Anselm Jappe: Questo è uno degli aspetti centrali del mio libro, e spero che sia anche uno dei più innovativi: uscire dalla falsa alternativa tra la proiezione delle categorie moderne su tutta l'esistenza umana, anche il passato ed il futuro, al fine di fare di tali categorie una «natura umana» (a partire da Hobbes, base della visione borghese), e, al polo opposto, un rifiuto, tipicamente postmoderno e «decostruttivista», dell'esistenza di qualsiasi base naturale umana e di ogni continuità storica. Parto dal principio che esistano dei tratti ricorrenti comuni a quasi tutte le società e che, anche se non sono strettamente biologiche, esse si siano certamente formate prima della «storia». Ad esempio, quei tratti che dipendono dalla nascita prematura e dalla dipendenza prolungata del piccolo umano, e dalla sua angoscia rispetto alla separazione dalla madre. D'altra parte, sottolineo la grande varietà di forme che questi elementi di base hanno assunto nel corso  della storia, e questo lo hanno fatto in una relazione dialettica (e non unilaterale secondo un determinismo economico, e neppure, viceversa, come autonomia del simbolico) con quella che è stata l'evoluzione delle società. Non è stato il capitalismo ad inventare le passioni malvagie dell'essere umano, come il narcisismo, ma le ha sfruttate, e le sfrutta per i suoi scopi, e le fa prosperare invece di cercare di arginarle. La logica di mercato ha smantellato quelle che erano le strutture tradizionali che avevano a lungo permesso di frenare le «passioni cattive», come l'egoismo. Quindi, uscire dal capitalismo non significa affatto costruire un «uomo nuovo» a partire da zero, e neppure accettare l'uomo contemporaneo come se fosse l'ultima parola della storia. Si tratta piuttosto di rivalutare alcune strutture del passato e di inventarne delle altre.
Questa visione si situa perciò tra alcuni vuoti truismi del tipo «l'uomo deve sempre andare in cerca di una sussistenza, di riprodursi, di relazionarsi con i suoi simili», ecc., i quali sono troppo generici, e si limitano ad essere la retro-proiezione sulle società altre delle categorie moderne quali l'economia, il mercato, la moneta, il lavoro, lo Stato. È assolutamente essenziale mantenere la distinzione tra lavoro produttivo (produttivo di capitale, certo, perché questo non ha niente a che fare con una «produttività» che riguarda l'uso umano) ed il lavoro non produttivo. Per l'accumulazione di capitale globale (a livello di capitale individuale. la cosa si può presentare in maniera diversa, ma questo non ha importanza per un'analisi sistemica), l'istruzione, la sanità, ecc., sono tutte «non produttive» e costituiscono solamente una detrazione dal profitto industriale, una detrazione che dev'essere ridotta il più possibile. A modo suo, l'ideologia liberale constata questo fatto, ma evidentemente lo fa senza alcuna comprensione di quelle che sono le cause. È uno dei grandi paradossi del capitalismo, il fatto che le attività più utili, o più piacevoli spesso appaiano come «non produttive», mentre la produzione della Roundup o di uno smartphone sono «produttive» di capitale. Tuttavia, voler valorizzare - e questo in termini di mercato, come denaro - le attività veramente «utili», mentre si rimane all'interno del quadro di mercato, è una prospettiva né desiderabile né realistica.

Jean-Marie Harribey: Nel tuo libro, viene assegnato un posto assai importante al feticismo, questo concetto marxiano per mezzo del quale egli dà un nome alla trasformazione dell'individuo in «soggetto automatico» (p.20 e seguenti). Da questo concetto trai l'idea di andare a cercare in Freud gli strumenti per «arrivare ad una storia "materialista" dell'anima umana; "materialista" non nel senso che si presuppone una preminenza ontologica della produzione materiale o del "lavoro", ma nel senso che non si concepisce la sfera simbolica né come autosufficiente né come autoreferenziale» (p.25). Puoi spiegare perché la costituzione di questo soggetto automatico è inseparabile, nella società moderna, dal rafforzamento del narcisismo? In altre parole, in che modo il feticismo si identifica con il narcisismo, non attraverso un legame di causa/effetto dall'uno all'altro o viceversa, ma come uno «sviluppo parallelo» o come le «due facce della medesima forma sociale» (p.26)? Se definiamo il narcisismo come «una debolezza del sé: l'individuo rimane confinato in uno stadio arcaico dello sviluppo psichico» (p.27), ecco che si capisce bene come questo arcaismo possa, in certe condizioni, generare le forme di violenza che tu analizza successivamente, ma in che modo questo narcisismo forma una coppia insieme al feticismo della merce? Se il conflitto edipico non viene superato, ma neppure registrato, allora le cose non si svolgono addirittura prima che l'individuo rimanga imprigionato in una qualche relazione con la merce, persino prima che egli si preoccupi del lavoro in quanto mediazione sociale che «rende ciascun individuo un membro della società che condivide con gli altri membri un'essenza comune che gli consente di partecipare alla circolazione dei suoi prodotti» (p.18)?

Anselm Jappe: Dopo Marx, abbiamo dovuto renderci conto che il capitalismo non è solamente una faccenda di oppressione esercitata da una classe identificabile, ma che esso si riproduce anche nelle teste e nelle anime. Inizialmente, l'attenzione si era concentrata sul legame esistente tra le strutture autoritarie del capitalismo e le tendenze autoritarie degli individui, e si rintracciava la sua origine nella famiglia piccolo-borghese e nel ruolo svolto dal complesso di Edipo in quella che era la sua formazione. Tuttavia, quest'analisi - portata avanti soprattutto dal «freudo-marxismo» - era accurata solo se riferita ad un periodo storico particolare. Successivamente, ci sono state altre strutture della personalità, in particolare il narcisismo secondario, che hanno finito per dominare. Christopher Lasch è stato uno dei primi ad evocarlo, nel suo libro "La cultura del narcisismo" (1979). La sua spiegazione di quelle che erano le origini storiche del narcisismo rimane tuttavia troppo riduttiva e non stabilisce un vero e proprio legame con la critica dell'economia politica. Ne La società autofaga, ho tentato di determinare - si tratta solo di una prima breccia - il legame tra il narcisismo ed il «soggetto automatico» creato dal feticismo della merce. Il feticismo appiattisce il mondo, riduce ogni elemento concreto ad essere solo il «portatore» di una porzione di lavoro astratto. Esso nega pertanto le specificità di ogni oggetto e alla fine nega il mondo stesso. Tutto si riduce allo stesso. Il narcisista fa la stessa cosa: percepisce il mondo solo attraverso le sue proiezioni, le quali devono soddisfare il suo desiderio di onnipotenza, cosa che a sua volta è una compensazione della sensazione di impotenza totale che è quella del bambino piccolo. Anziché arrivare ad un potere limitato ma reale sul mondo, attraverso il riconoscimento dell'Altro nel complesso di Edipo, il narcisista è soddisfatto, spesso a sua insaputa, con le proiezioni e con i fantasmi. E questa sua relazione con il mondo si forma ben presto, a partire dalla prima infanzia, assai prima che avvenga qualsiasi ingresso nella vita sociale o economica. Tutto questo sarebbe tuttavia reversibile - curabile - se il soggetto contemporaneo non incontrasse, ad ogni passo della sua esistenza, dei fattori che rafforzano e sfruttano questo narcisismo, dalla pubblicità alle tecnologie comunicative, dalla concorrenza permanente al sé quantificato... Questo narcisismo non è affatto proprio di una classe o di un segmento della società, ma lo si trova, a tasso variabile, nella più parte dei soggetti contemporanei. Ma in questo risiede anche una speranza: ciascuno può cominciare, qui e ora, a liberarsene, anche per mezzo di piccoli gesti.

- Jean-Marie Harribey -   Intervista del 19 dicembre 2017 - Pubblicata su Attac n° 15 -

NOTE:

[*1] - Marshall Sahlins, L' economia dell'età della pietra : scarsità e abbondanza nelle società primitive, 1972, Bompiani.
[*2] - Karl Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, 1944. Einaudi.
[*3] - Anselm Jappe, Le avventure della merce. Per una nuova critica del valore, 2003. Aracne editrice.
[*4] - Moishe Postone, Time, Labor, and Social Domination: A Reinterpretation of Marx’s Critical Theory (1993)
[*5] - Questa è la tesi che ho sviluppato alla fine degli anni '90, e che ho sintetizzato in "La richesse, la valeur et l’inestimable, Fondements d’une critique socio-écologique de l’économie capitaliste", Paris, Les Liens qui libèrent, 2013. Il dibattito su questo tema con i marxisti tradizionali, può essere trovato sul sito  http://harribey.u-bordeaux4.fr/travaux/valeur/index-valeur.html e, in parte, in un dossier di Contretemps, https://www.contretemps.eu/dossier-valeur-capitalisme .

fonte: Attac

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