martedì 21 gennaio 2020

Stranieri

La condizione di straniero è destinata a diffondersi. Ma la mobilità che ci piace celebrare si scontra con le frontiere che gli Stati-nazione erigono contro i “migranti”, trattati più come nemici che come ospiti. Spinti a compensare l’ostilità dei loro governi, molti cittadini si sono trovati costretti a fare qualcosa: accogliere, sfamare o trasportare viaggiatori in difficoltà. Hanno così ridestato un’antica tradizione antropologica che sembrava sopita: l’ospitalità. Questo modo di entrare in politica aprendo la porta di casa rivela però i suoi limiti. Ogni sistemazione è una goccia d’acqua nell’oceano del peregrinare globale e la benevolenza alla base di questi gesti non può fungere da salvacondotto permanente. Michel Agier ci invita a ripensare l’ospitalità attraverso la lente dell’antropologia, della filosofia e della storia. Se ne sottolinea le ambiguità, ne rivela anche la capacità di scompaginare l’immaginario nazionale, perché lo straniero che arriva ci obbliga a vedere in modo diverso il posto che occupa ciascuno di noi nel mondo.

(dal risvolto di copertina di: Michel Agier, "Lo straniero che viene. Ripensare l’ospitalità". Raffaele Cortina editore.)

Essere ospitali
- Un legame debole rafforza la società -
di Adriano Favole

Ricordo bene la scena. Io e il mio ospite polinesiano eravamo seduti su una stuoia di foglie di pandano, le gambe incrociate e inclinate verso il terreno. La sera prima gli uomini del villaggio mi avevano invitato per la prima volta a bere il kava, una bevanda dal gusto terrigno ricavata da una pianta della famiglia del pepe. Il giorno dopo a pranzo, la moglie del mio ospite mi aveva sporto una vecchia sedia dal colore blu consunto, che avevo rifiutato sedendomi come gli altri sulla stuoia. Stefano aveva guardato la moglie e, con il suo particolare accento francese, aveva detto: «È come noi!», apprezzando la mia disponibilità a condividere pratiche e tecniche del corpo locali, a cui non era estraneo il fatto di mangiare con le mani senza servirsi delle posate, peraltro disponibili nella casa. Fu, quello, uno dei momenti della ricerca sul campo in cui mi ero sentito «accolto» da quella piccola comunità polinesiana dell’isola di Futuna che ho cominciato a frequentare alla fine degli anni Novanta. L’antropologo, quando svolge ricerche «lontano» da casa, fa esperienza dell’essere straniero. Sperimenta con il corpo, sulla pelle, la condizione di (iniziale) estraneità a un gruppo e la disponibilità di quest’ultimo a ospitare. Come vengono accolti e, eventualmente, incorporati gli antropologi nelle società che studiano? Stranieri per vocazione, essi danno vita, scrive Leonardo Piasere, a «esperimenti di esperienze» e mettono in gioco le relazioni sociali, tra cui spicca l’ospitalità. Su questo tema ruota un bel volume curato da Jos Platenkamp e Almut Schneider, Integrating Strangers in Society (Palgrave). Dodici antropologi e antropologhe (tra cui l’italiana Elisabeth Tauber) raccontano le loro esperienze di «integrazione» in società dell’Europa (come i Sinti nell’Italia del Nord Est), dell’Artico canadese (Inuit), dell’Oceania (Kanak, Maori, Gawigl e Siassi di Papua Nuova Guinea), dell’Africa (Banyoro), dell’India (la città di Rourkela) e del Sud Est asiatico (i Lanten del Laos), componendo un mosaico di pratiche dell’ospitalità che sfida il modo, altamente etnocentrico, con cui la «questione» dello straniero è trattata di questi tempi. Spesso infatti ragioniamo come se i Paesi occidentali fossero gli unici a doversi confrontare con il tema dello straniero e gli unici ad avere elaborato riflessioni in proposito.

Come è noto, la parola xenos in greco indica lo «straniero», il «forestiero», con un accento su ciò che è in lui (o lei) «strano», «insolito», «sorprendente», e significa, al tempo stesso, l’«ospite», colui che è «legato con altri per vincoli di reciproca ospitalità». Colpisce, nella raccolta di Platenkamp e Schneider, il fatto che in nessuna delle società prese in esame la parola per «straniero» ha una connotazione negativa. In tutte le lingue citate esiste una coppia di espressioni per definire l’opposizione «noi» e gli «stranieri»: Sinti e Gagè, Inuit e Qallunaat, Lanten e Farang (Laos), Maori e Pakeha e così via.
Quello degli Inuit è l’unico caso in cui, per nessun motivo, uno straniero può divenire a pieno titolo «Inuit». Attraverso il linguaggio dello scherzo e dell’ironia reciproca, attraverso pratiche di lavoro in comune e soprattutto attraverso le attività rituali, i «bianchi» e altri stranieri possono vivere con e come gli Inuit, senza tuttavia la possibilità di un accesso definitivo all’umanità inuit — salvo ovviamente a partire dalla generazione successiva a un matrimonio misto. «Gli Inuit non si aspettano che i bianchi diventino Inuit e non intendono assimilare gli stranieri». Nonostante ciò, qallunaat, «stranieri», non ha in sé alcuna connotazione negativa, ma mette insieme categorie eterogenee di persone con cui, spesso, è auspicabile avere intensi rapporti sociali.
Altre società prevedono la possibilità di accedere al pieno statuto di appartenenti all’umanità locale, sempre tuttavia attraverso lunghi e complessi percorsi che passano attraverso l’adozione (nel caso Maori per esempio), l’attribuzione di un nome vezzeggiativo (l’empaako dei Banyoro dell’Uganda), la partecipazione a rituali (tra i Lanten del Laos l’antropologo diviene un «figlio-apprendista»). Nel caso dei Sinti, la piena partecipazione al «noi» viene garantita all’antropologa non tanto dal matrimonio con un Sinti, ma dalla successiva perdita di un bambino nato morto. È il fatto di avere antenati comuni e di prendersi cura della loro memoria a fare di una Gagè, di una «straniera», una Sinti in senso pieno.
Gli stranieri, nelle società indagate, non sono alieni, «alterità». Nella cosmologia dei Maori, ogni essere umano, risalendo le generazioni, può trovare antenati comuni. «Nella società tradizionale maori l’intero cosmo era considerato una gigantesca genealogia, con il cielo e la terra progenitori di tutti gli esseri e le cose, come il mare, le foreste, gli uccelli e gli esseri umani». Lo «straniero» non è l’altro assoluto: portatore di una ambivalenza mai dissolta, può assumere le sembianze del commerciante che apporta merci preziose, può divenire il «re straniero» e fondare una dinastia di capi, può rivelarsi un nemico oppure, come nel caso di molti antropologi, può divenire un trait-d’union con il mondo globale. La presenza dell’antropologo sul campo, il suo andare e venire verso centri di potere e sapere, viene interpretato e utilizzato da molte società indagate come una potenzialità di world-enlargement (di «estensione» del proprio mondo), uno dei modi di trasformare l’isola in arcipelago, per così dire.

Divenire parte del «noi» è un processo lungo, pieno non tanto di «ostacoli» da superare, quanto di pratiche da condividere, come vivere insieme, mangiare gli stessi cibi, lavorare, praticare riti, conversare a lungo, chiedere l’elemosina con altre donne, fare progetti di sviluppo o chiedere fondi ad agenzie internazionali... In nessuna società frequentata dagli antropologi si richiede allo straniero, in via preliminare, di rinunciare alla sua appartenenza forestiera e in nessuna si concede subito loro piena cittadinanza. Perché è proprio il differenziale culturale e sociale a rendere interessanti, «meravigliosi» e pericolosi al tempo stesso, gli stranieri. È la provenienza e appartenenza estranea a consentire loro di farsi mediatori tra la società locale e un mondo più ampio, testimoniando a quest’ultimo i valori, le acquisizioni, le virtù del gruppo in questione. Insomma, gli stranieri divengono per la società locale un mezzo per chiedere «riconoscimento» sociale e culturale: solo quando una società si considera pomposamente bastante a sé stessa non ha bisogno di stranieri e di leggi dell’ospitalità e per questo finisce di circondarsi solo di «alterità» del tutto incompatibili con il «noi», magari relegandole in luoghi dai confini invalicabili. Viene in mente una bella citazione di Claude Lévi-Strauss: «L’unica fatalità, l’unica tara che possa affliggere un gruppo umano e impedirgli di realizzare pienamente la propria natura, è quella di essere solo».
È tempo, scrive Michel Agier in Lo straniero che viene (in uscita da Cortina), di rifondare a livello sociale e strutturale l’ospitalità. Nella nostra società si oscilla tra un diffuso fastidio e l’aperta ostilità verso gli stranieri confinati in una dimensione di perenne «alterità» da una parte, e dall’altra il richiamo a un’accoglienza eticamente fondata ovvero a una insostenibile «ospitalità incondizionata», come la definivano Jacques Derrida e Anne Dufourmantelle. Come ospitare allora? Ancora una volta è solo uno sguardo all’ampio spettro delle società umane, contemporanee o antiche, a fornirci modelli e forme della convivenza umana. Agier guarda, per esempio, all’Africa occidentale: da tempo immemorabile, gli Hausa hanno praticato commerci a lunga distanza, connettendo e legando tra loro gruppi sociali disparati, e persino fondando quartieri multietnici ( zongo) in numerose città. I mercati, in gran parte dell’Africa, erano luoghi «neutri», buoni all’incontro con gli stranieri, luoghi in cui giocare all’aperto le dinamiche dell’ospitalità. Ma Agier guarda ugualmente alle tante esperienze di accoglienza ai confini realizzate in Europa nonostante e contro la pressione di molti settori dell’opinione pubblica.
Perché ospitare? Perché è attraverso la forza dei «legami deboli», come li chiamò Mark Granovetter, che possiamo estenderci «fuori» di noi, percorrere vie di fuga verso gli altri, intrecciare idee, valori, concezioni dell’umanità verso e con l’altrove. L’ospitalità è una questione di soglia, come ha scritto Francesco Spagna. Impaurita dal rischio di perdere i legami «forti» (famiglia, comunità, nazione), l’era globale si sta rivelando carente di «legami deboli» come l’ospitalità. La capacità di «fare società» risulta così indebolita e i «noi» (a livello famigliare e sociale) si chiudono e diventano sterili.

- Adriano Favole - Pubblicato su La Lettura del 12/1/2020 -

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