Un tempo molto lontano gli esseri umani erano diversi. Avevano quattro gambe, quattro braccia e due volti che permettevano di vedere ovunque. Simili a sfere si muovevano rotolando velocissimi. Erano lisci e levigati, felici e potenti. A causa della loro superbia però furono puniti dagli dèi. E da quel momento non si sono mai più sentiti completi. Hanno iniziato a soffrire e a temere la morte. La storia del pensiero è la storia dei tentativi di porre un rimedio a questa incompletezza, per tornare a essere felici. Di questo, e di nient’altro, hanno parlato i più grandi scrittori greci, fossero poeti come Omero o filosofi come Platone e Aristotele.
Mauro Bonazzi ci accompagna nel labirinto di risposte che gli antichi hanno cercato di dare alla domanda più annosa di tutte: dove si nasconde il senso delle nostre esistenze? Cercare di comprenderlo, attraverso l’aiuto della filosofia, costituisce ancora oggi uno sforzo decisivo per chi è impegnato nel mestiere più bello e difficile, che è quello di vivere bene.
«La civiltà greca ha prodotto una riflessione luminosa sul senso della condizione umana – su quello che siamo e sul valore delle nostre vite – capace di attraversare i secoli, influenzando e stimolando grandi scrittori e grandi pensatori. Lo ha fatto partendo dal tema della morte: questo è il punto di attacco. La morte è uno scandalo, un mistero, qualcosa che non riusciamo e non possiamo accettare. Il problema non è tanto quello di dover morire; ne siamo tutti consapevoli. A essere insopportabile è l’idea che questo fatto, il fatto che prima o poi ce ne andremo, rischia di togliere valore alla nostra esistenza, qui e ora. Quale è il senso di qualcosa che non c’era, c’è e non ci sarà? Quale il valore di qualcosa destinato a scomparire nell’oblio? È questa la domanda a cui bisogna trovare una risposta, perché è qui la chiave per comprendere il senso della nostra esistenza».
(dal risvolto di copertina di: Mauro Bonazzi, "Creature di un sol giorno. I GRECI E IL MISTERO DELL'ESISTENZA". Einaudi)
Il senso dei Greci per la vita
- di Emanuele Trevi -
La storia dell’umanesimo, e in particolare del pensiero filosofico e morale, possiede una caratteristica evidente sia agli occhi del profano che dello specialista. In sintesi, si potrebbe affermare che non è una vera e propria storia, nel senso di un percorso rettilineo in cui, una volta risolto un problema, in qualche modo si va avanti, facendo di quella soluzione il presupposto necessario a sciogliere altri nodi, e così via. Da questo punto di vista, il confronto con il pensiero scientifico mostra una divaricazione impressionante, e rende chimerico qualunque progetto di conciliazione tra le famose «due culture». Se gli scienziati lavorassero come gli umanisti, insomma, al Cern di Ginevra si riterrebbe ancora utile stabilire, magari usando strumenti sofisticatissimi, se sia la Terra a girare intorno al Sole o viceversa. Sarebbe una follia e uno spreco inconcepibile di soldi e intelligenze. Mentre è del tutto normale constatare, come fa spesso Mauro Bonazzi nel suo bel libro Creature di un sol giorno sui Greci e «il mistero dell’esistenza» (in uscita per Einaudi), che la filosofia cambia di linguaggio, possiede certamente una sua storia, ma non risolve mai nulla. Ogni giorno che passa dell’esistenza individuale e di quella dell’umanità in generale, le tenebre che avvolgono il «mistero dell’esistenza» si infittiscono.
Il valore delle nostre vite è troppo vanificato dalla potenza definitiva della morte perché prima o poi non sorga il dubbio che le nostre scelte siano del tutto vane, e che se anche facessimo il contrario la somma dei fattori sarebbe identica. Bonazzi, esperto del pensiero antico e autore di saggi sul platonismo e la sofistica, ci guida in un viaggio lunghissimo, da Omero a Epicuro, che molte volte ci potrà far pensare a un falso movimento, a quello che i francesi definiscono, con una bellissima espressione, un «piétiner sur place». Solo un’umanità capace di eliminare la circostanza della morte (come alla fine del secolo scorso immaginò Michel Houellebecq nelle Particelle elementari), potrebbe in effetti fare un vero passo avanti nella questione del valore da attribuire alla vita. Ma per ora lo scoglio rimane lì immobile, e tutti i tentativi di navigarci intorno risultano prima o poi segnati da una radicale, irrimediabile imperfezione.
Intendiamoci su un punto fondamentale: la caducità e tutte le sue conseguenze nullificatrici assediano la vita considerata al livello del singolo individuo. La vita umana in generale, la grande onda della specie, a differenza degli individui, va avanti, si conserva, non ci sta a pensare sopra, e gode della stessa buona salute della vita delle farfalle o delle mosche, effimere come noi e come noi capaci di perpetuarsi nella riproduzione. Bonazzi fa benissimo a insistere sulla distinzione del piano individuale da quello collettivo. Perché a noi umani (e gli incantevoli, ironici Greci sono stati gli umani per eccellenza, si potrebbe dire) quello che agli altri animali basta e avanza, non ci aiuta affatto. È alla nostra vita di singoli che ci ostiniamo ad attribuire un valore e uno scopo. Il fatto che dei nostri simili ci sopravvivono, a dirla sinceramente, è di scarsa consolazione.
Tra le tante belle citazioni che si possono leggere nel libro di Bonazzi, quella che più mi ha colpito è un passo del trattato sull’anima di Aristotele. Nessun essere vivente, insegna il grande filosofo, può partecipare alla natura del divino e dell’eterno, perché la sua corruttibilità gli impedisce di «sopravvivere identico e uno di numero», come gli dèi. Semmai, attraverso la riproduzione, l’individuo mortale potrà (come le piante e le bestie) sopravvivere in qualcuno simile a lui: «Non uno di numero, ma uno nella specie».
Si potrebbe dire che è dall’insufficienza di questa consolazione che nascono tutti i doni dello spirito: il pensiero e la poesia, certamente, ma anche il modo in cui gli eroi di Omero tentano di riscattare, con il valore in battaglia, la nullità della vita individuale.
La civiltà greca saprà trovare anche il tempo di sublimare il culto eroico dell’affermazione individuale, attraverso quell’ideale della Polis che trovò in Atene e in Pericle le sue manifestazioni più luminose e proverbiali. E al vertice di una piramide di possibilità a disposizione dell’individuo c’è quella vita contemplativa che rende i grandi spiriti liberi dal tempo e dunque simili agli dèi. Ma anche la più sublime delle visioni intellettuali non è, in fin dei conti, che il tentativo disperato di mettere un peso umano su una bilancia che pende sempre dall’altra parte. Perché alla fine tutti lo sappiamo che c’è la morte e noi non contiamo nulla.
Con la sua cordialità e la sua ironia, il libro di Bonazzi è di quelli che invitano a formulare, alla fine, anche una risposta personale. Paradossalmente, proprio perché né Achille né Platone, né Socrate né Epicuro hanno sciolto del tutto il «mistero dell’esistenza», che rimane sempre identico a sé stesso, tanto vale farsi un’idea propria. Si potrebbe anche arrivare a concludere, finito il libro, che forse i Greci non si erano accorti che la felicità era nascosta proprio nel problema, così come lo descrive Aristotele. «Non uno di numero, ma uno nella specie» è una formula splendida, memorabile. È vero, l’individuo ne esce umiliato, derubato delle sue prerogative. Ma non sarà proprio il suo desiderio di riscatto l’origine di ogni errore, di ogni dolore?
Forse l’uomo felice, il vero sapiente che si aggira anonimo nelle metropoli di oggi è colui che in un vagone della metro, in un centro commerciale, in uno stadio sente il prevalere della specie sulla singolarità, sull’illusione di essere qualcuno in particolare e non un altro, quello che ci sta davanti o dietro nella fila. Forse la più alta filosofia è quella di chi sa dirsi: del senso della mia vita, non mi importa più nulla; non è colpa mia se ne è priva.
«Non uno di numero, ma uno nella specie», da questo punto di vista, potrebbe essere l’esatto equivalente di un motto più celebre che ci hanno lasciato i Greci, «conosci te stesso». La vita non cambia mai, ma è pure possibile imparare ad essere felici delle cose che hanno reso infelici i nostri padri.
- Emanuele Trevi - Pubblicato sul Corriere dell'11/1/2020 -
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