venerdì 10 gennaio 2020

I limiti dello spettacolo

Karl Marx sul populismo contemporaneo
- di Anselm Jappe -

150 anni fa, Marx ha pubblicato il suo Capitale. Agli occhi dei pensatori borghesi e di quello che era il mainstream accademico e mediatico, oggi Marx è del tutto superato. Dove sono i proletari straccioni? Oggi viviamo in un mondo di democrazia e di libero mercato. La sinistra tradizionale a sua volta potrebbe obiettare che il capitalismo è tornato, che esiste di nuovo un enorme divario tra ricchi e poveri, e che esistono anche un altro tipo di persone che sono subalterne e oppresse. Io ritengo che invece ci sia un altro modo per valutare oggi la teoria di Marx: In 150 anni la superficie del capitalismo è cambiata un bel po', ma il suo nucleo rimane ancora lo stesso. Il nucleo è quello che Marx ha analizzato soprattutto nel primo capitolo del Capitale: merce e valore, denaro e lavoro astratto. Al fine di evitare equivoci e confusione tra lavoro astratto e lavoro immateriale, è maglio partire dal lato astratto del lavoro, della sua duplice natura. Marx stesso considerava la sua analisi relativa alla «duplice natura del lavoro» - astratto e concreto - come una delle sue più importanti scoperte. [*1] Ogni singolo esempio di lavoro, in condizioni capitalistiche (ma solo nel capitalismo, dal momento che non c'è niente di naturale in tutto questo), è allo stesso tempo sia astratto che concreto. In quanto lavoro concreto, ogni singola attività produce beni o servizi, ma la medesima attività è anche allo stesso tempo semplice dispendio di energia umana che, misurata in unità di tempo, è una pura quantità di tempo, indipendentemente da ciò che durante quel tempo è stato fatto. Il lato concreto del lavoro corrisponde al valore d'uso ed il lato astratto corrisponde al valore (rappresentato dal denaro) di quella stessa merce. Nel capitalismo, il lato astratto del lavoro, e di quello che è il suo prodotto, prevale sul lato concreto, ed è questa la radice più profonda di quella che è l'assurdità del modo capitalistico di produzione.
Sono queste le strutture fondamentali e soggiacenti di ogni forma di capitalismo (incluse le versioni gestite dallo Stato e chiamate "socialista" o "comunista"). Ma queste strutture non sono né neutrali né naturali: sono storicamente specifiche del capitalismo, e sono distruttive ed autodistruttive. Ciò significa anche che non si tratta di cercare di usarle in un qualche modo migliore (cioè, socialista, comunista, ecc.), ma si tratta di superarli ed abolirli; e questo, in linea di principio, è possibile dal momento che l'umanità ha vissuto per molto tempo senza di esse. A chi obietta che c'erano denaro, lavoro, ecc. anche in quelle che erano altre società pre-capitaliste, va detto che svolgevano funzioni sociali assai diverse le quali non avevano molto in comune con quello che oggi chiamiamo denaro, lavoro, ecc., come viene confermato anche da storici non marxisti (come da Jacques Le Goff, per il Medioevo, e da Moses Finley, per l'Antichità). [*2]
Il regno della merce e del valore, del denaro e del lavoro astratto  si manifesta tipicamente e misteriosamente in quello che Marx chiama feticismo delle merci. Questo non consiste solamente in un apprezzamento esagerato delle merci, come avviene nella società dei consumi, e non si tratta solo di una mistificazione di quella che la reale natura dello sfruttamento e del dominio borghese, vale a dire un velo che nasconde e cela l'origine del plusvalore, come sostengono i marxisti tradizionali. Feticismo delle merci significa qualcosa di molto più generale: significa essenzialmente un sistema in cui regna sovrano ciò che Marx una volta ha chiamato il «soggetto automatico» [*3], qualcosa in cui gli esseri umani sono i servi dell'economia che essi creano e che appare loro come se fosse una forza indipendente. Il feticismo delle merci è la principale forma di mediazione sociali capitalistica: le attività concrete e gli oggetti - denominiamoli, lavoro concreto e valori d'uso [*4] - servono solo a dare rappresentazione la soggiacente «essenza reale» della società della merce: e questa «vera essenza» è il valore che viene creato dal lato astratto del lavoro, senza alcun riguardo per quello che può essere i suo contenuto. Gli stessi capitalisti sono solo gli esecutori di questa anonima logica sistemica che essi non controllano. Una subordinazione del concreto all'astratto, un'inversione del rapporto tra di loro, dove il loro dinamico carattere distruttivo diventa la caratteristica più distintiva della società capitalista, se comparata alle altre forme storiche di società. Non c'è bisogno di prendere Marx alla lettera, né difendere la sua opera come se si trattasse di testi sacri, quando ne affermiamo la continua importanza al fine di comprendere il mondo di oggi. Quel che conta è mettere al lavoro, facendole circolare, quelle che sono le categorie centrali della critica dell'economia politica - così come si è cominciato a fare negli ultimi decenni. [*5] Assumere i concetti più rivoluzionari di Marx significa andare contro quasi tutto ciò che il marxismo tradizionale ha sostenuto per 150 anni, e, talvolta, significa anche persino andare contro alcune delle stesse teorie di Marx. Questo è particolarmente vero per il concetto di lotta di classe, e lo è anche per tutti i suoi sostituti tipo la lotta di razza o di genere: queste lotte esistono e possono essere anche molto importanti, ma non per questo sono automaticamente emancipatorie o anticapitaliste. Negli ultimi 150 anni, tutte queste lotte hanno contribuito, prima ad integrare i lavoratori, e poi tutte le altre classi subalterne, dentro il sistema: si è quasi arrivati a che non ci fosse più alcuna contestazione al fatto che la vita sociale fosse consacrata alla moltiplicazione del valore astratto attraverso il lavoro. Quello che si chiedeva, era solamente una distribuzione più equa. Ora, il capitalismo si trova a dover affrontare, non tanto quelli che sono i suoi avversari dichiarati, vale a dire una qualche sorta di rivoluzionari, quanto piuttosto i limiti creati dal suo stesso sviluppo. Tali limiti lo hanno accompagnato fin dall'inizio, ma hanno superato una certa soglia e sono diventati visibili solo a partire dagli anni '70.
Il primo di questi limiti, è un limite interno: il valore viene creato esclusivamente dal lavoro vivente, ma la concorrenza spinge il capitale ad utilizzare il più possibile tecnologia che faccia risparmiare lavoro. Tuttavia, se nella produzione di una merce viene impiegato sempre meno lavoro, ciò significa anche che la merce ha sempre meno valore, dal momento che è il lavoro vivente l'unica fonte del valore. Le tecnologie non producono valore. E meno valore significa che si realizza meno plusvalore, e di conseguenza meno profitto. Ragion per cui, solo un continuo aumento della produzione può servire a prevenire questa tendenza a diminuire della massa di valore. Se in ogni singola merce c'è sempre, contenuto in essa, meno valore - tanto per fare un esempio, in un'automobile, nel corso dei decenni i costi sono diminuiti continuamente - ecco che allora la produzione di quella merce, il numero delle merci prodotte, dev'essere aumentato, se si vuole che la massa di plusvalore non diminuisca. Tutto questo, può essere chiamato processo di compensazione. Ma negli ultimi 40 anni, i processi di razionalizzazione, la sostituzione del lavoro vivente attraverso le nuove tecnologie è avvenuto ad un ritmo molto più veloce di quelli che sono stati i processi di compensazione. L'utilizzo del lavoro vivente, del lavoro che produce capitale, si sta riducendo a livello globale, così come si sta riducendo la massa assoluta di valore e, alla fine, la massa di profitto. La redditività reale viene in gran parte rimpiazzata per mezzo della simulazione, soprattutto nella sfera finanziaria. La crescita della finanza globale - o di quello che Marx chiamava «capitale fittizio» [*6] - è stata una risposta alla sempre maggiore mancanza di redditività. Una delle conseguenze è stata quella per cui la società del lavoro ha da offrire sempre meno posti di lavoro. E, infine, l'intero ordine sociale sta andando letteralmente in pezzi.
L'altro grande limite, quello esterno, è quello ecologico, l'esaurimento delle risorse naturali. L'accumulazione di valore e di capitale è un'accumulazione senza limiti di ricchezza astratta, dal momento che essa non mira a niente di concreto, ma solamente alla quantità astratta. Ma ciò che è valore astratto deve realizzare - materializzare  - sé stesso come qualcosa di concreto, e deve realizzare, almeno in parte, qualcosa di materiale (dal momento che la produzione non può essere limitata ai servizi o alle comunicazioni, come qualcuno oggi vorrebbe farci credere parlando di una «società dei servizi» o di «capitalismo cognitivo»).  È questo il motivo per cui la logica del valore conduce inevitabilmente alla devastazione delle risorse naturali. Il disastro ecologico è abbastanza evidente, e se ne discute molto, ma senza un riferimento alla logica della produzione di valore, così come viene analizzata da Marx nel Capitale, non ci può essere una reale comprensione delle sue cause per proporre eventuali rimedi. Possiamo anche aggiungere che oggi le teorie di Marx sul denaro e sul valore, sulla merce e sulla duplice faccia del lavoro, sul feticismo e sul soggetto automatico sono più rilevanti che mai, dal momento che  gli effetti che tali teorie hanno su una società capitalista pura sono molto più evidenti degli effetti che potevano avere su quella società semi-feudale cui apparteneva Marx. Oltretutto, la nostra comprensione delle strutture psichiche contemporanee - in particolare, il narcisismo, la depressione e gli atti di cieca distruzione - rimane frammentaria e superficiale senza fare riferimento al lato soggettivo della feticistica logica del valore. E tale logica va ben oltre quello che è l'aspetto economico della vita sociale.
Cento anni e due mesi dopo il Capitale, Guy Debord pubblica La Società dello Spettacolo; la cui prima frase recita: «L'intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli.» [*7]. Questa frase è quasi identica alla prima frase del Capitale, in cui Marx aveva scritto «accumulo di merci», [*8] e dove l'unica differenza è che Debord scrive «accumulo di spettacoli». A dare il tono era questo deturnamento (il modo in cui i Situazionisti chiamavano il loro riutilizzo, e miglioramento, del materiale culturale esistente): Debord fingeva, senza dichiararlo apertamente, di scrivere una sorta di nuovo Capitale, per modernizzare ed adattare al presente l'analisi di Marx, di scrivere quello che Marx avrebbe potuto scrivere cento anni dopo il Capitale. Egli utilizza Marx, e soprattutto la teoria della merce di Marx (che Debord legge principalmente attraverso le lenti di Storia e Coscienza di Classe di Lukacs), come base della propria teoria, ma al posto della «merce» pone lo «spettacolo». Cosicché possiamo capire immediatamente che lo spettacolo di Debord significa assai più di una critica dei media, alla quale assai spesso è stato ridotto. Per Debord, lo spettacolo consiste dello sviluppo simultaneo della forma merce, ed obbedisce alla stessa logica. L'opera principale di Debord appartiene chiaramente al campo della teoria marxista - un fatto, questo, che oggi viene spesso ignorato, oppure sottaciuto, al fine di collocare Debord solo nel campo artistico e letterario, o ridurlo ad un teorico dei media. Debord ha trasformato le categorie di Marx, le quali erano oggetto di dibattiti eruditi, in categorie viventi, combinandole con osservazioni sulla nuova società dei consumi. Egli ha contribuito in misura notevole alla nostra consapevolezza della necessità di una rottura radicale con le categorie di base del capitalismo, e non solo con alcune delle sue forme specifiche. Ha anche contribuito a spostare il focus dell'analisi critica e della prassi: ciò che contava non era solo la sfera economica ed il lavoro, ma anche la vita quotidiana e questioni come l'urbanismo e gli alloggi.
È stata proprio la mutevolezza stessa della realtà a portare alla ribalta quello che era stato fino ad allora il nucleo nascosto della teoria di Marx: La critica del valore e della merce, del lavoro astratto e del denaro.
Quando il capitalismo è entrato nella sua fase di declino, non c'è stata più alcuna possibilità di una migliore distribuzione della sua ricchezza, ed è apparsa la questione del suo superamento. L'abbandono, dopo gli anni '70, di quello che era il «compromesso di classe» keynesiano non era dovuto solamente alle circostanze politiche o alla «guerra di classe dall'alto», ma essenzialmente alle dinamiche interne all'accumulazione capitalistica ed al suo sviluppo storico: la sostituzione del lavoro umano con le tecnologie - che non creano alcun valore economico - ha messo in crisi la produzione di valore ed ha stimolato la simulazione dell'accumulazione per mezzo del credito e della finanza. Non c'è più alcuna possibilità di revocare questa evoluzione e di ritornare ad un capitalismo «ragionevole». Nella sua fase declinante, il capitalismo non ha più la possibilità di offrire alcuna gratificazione supplementare alla maggioranza della popolazione, come ha fatto nei suoi tempi d'oro. La questione oggi non è quella di «prendere il potere» o di avere più «giustizia economica», oppure di «coniugare ragioni ecologiche e crescita economica», o qualcosa del genere, ma si tratta piuttosto di inventare forme di vita che vadano al di là della logica delle merce e del lavoro. E tuttavia ciò che accade oggi è esattamente il contrario. La crisi del capitalismo non coincide affatto con l'emergere e l'ascesa di soluzioni e di forze emancipatorie, come avevano sempre creduto i rivoluzionari.
Il capitalismo ha avuto 250 anni per poter colonizzare tutti gli aspetti e tutti i settori della vita, e spesso ha lasciato dietro di sé solo terra bruciata, a tutti i livelli, letteralmente e metaforicamente, esternamente ed internamente. Il capitalismo non ha in alcun modo preparato il terreno al socialismo; il suo sviluppo delle forze produttive non ha creato i presupposti materiali per una più alta forma di vita, come si è creduto per così tanto tempo; non ha mai avuto una missione civilizzatrice, come a volte persino Marx ha sostenuto. Il capitalismo non è solo ingiusto e ripugnante, ma non funziona più nemmeno. Uno dei suoi aspetti che più colpisce è quello per cui ci sono masse sempre più crescenti di persone, interi gruppi sociali, regioni, paesi e continenti che stanno diventando superflui per il ciclo di accumulazione, e di conseguenza anche per il consumo. La loro forza lavoro no è più in alcun modo necessaria, e quindi tutti essi non hanno più ragione - diritto - di esistere, agli occhi della logica del valore. Le sofferenze derivanti dal classico problema dello sfruttamento, vengono ora parzialmente sostituite dalle sofferenze che derivano dall'essere superflui e inutili, dal momento che le persone non valgono più nemmeno la pena di essere sfruttati - e oggi ci troviamo tutti potenzialmente sotto tale minaccia. Una simile situazione è difficile da spiegare a partire dal classico approccio incentrato sulla lotta di classe, ma diventa assai più comprensibile se torniamo all'analisi delle merci fatta da Marx, e se teniamo conto della forza distruttiva del lavoro astratto.
Le risposte all'imbarbarimento del capitalismo possono essere altrettanto barbare. Ed è questo che stiamo continuando a vedere negli ultimi anni. Il problema non è tanto quello di un ritorno al fascismo. Ci sono molti movimenti neofascisti, e sono tutti più potenti che mai, così come ci sono altri fenomeni che richiamano il fascismo. Ma il capitalismo non consiste sempre nel ritorno dello stesso; e identificare i fenomeni odierni con quelli del passato può essere un ostacolo alla comprensione di quello che è il pericolo reale oggi. Uno di questi nuovi pericoli è quello che può essere definito come populismo trasversale, il quale si basa su un «anticapitalismo fasullo». Lo chiamo «trasversale», poiché esso spesso mescola argomentazioni sia di sinistra che di destra rivolte contro la superficie della società capitalista - e, soprattutto, contro uno dei suoi aspetti: finanza, speculazione, credito, e banche.  Simili punti di vista non spiegano i mali del capitalismo facendo riferimento al processo produttivo, all'esistenza del lavoro e del denaro, e nemmeno facendo riferimento alla classe, come facevano i marxisti tradizionali. Piuttosto, ci si riferisce ai cosiddetti parassiti, collocati nella sfera finanziaria, ed ai politici corrotti. Alcuni di questi movimenti pretendono di essere di sinistra, come Occupy Wall Street o Podemos, molti sono apertamente di destra, e alcuni come le italiane Cinque Stelle sono forse il futuro del populismo, dal momento che traggono elementi da entrambe le parti. La retorica anticapitalista di questi movimenti non dovrebbe ingannare, e non costituisce affatto qualcosa che assomiglia ad una mezza verità: anche il nazismo e gli altri movimenti fascisti storici si proclamavano contro le «plutocrazie», e  opponevano il capitale «buono» e «creativo» alleato con il lavoro al capitale finanziario «cattivo» e «avido» identificato negli ebrei. Le conseguenze sono ben note. Questa critica unilaterale dell'interesse monetario e della distribuzione monetaria, che evita ogni critica del modo capitalistico di produzione, e soprattutto del lavoro, ha una lunga tradizione, che risale almeno a Jean-Pierre Proudhon nel 19° secolo, e la si trova anche molto presente all'interno dello stesso marxismo tradizionale. Essa valorizza il cosiddetto concreto (che è in realtà uno pseudo concreto), quale la razza, il popolo, o lo Stato, visti in contrapposizione alla forza minacciosa dell'astrazione (valore), i cui effetti vengono percepiti (per esempio, attraverso la perdita del posto di lavoro a causa della globalizzazione economica), ma non del tutto compresi. I movimenti populisti, in tutte le loro espressioni, aiutano il sistema a sopravvivere incanalando la rabbia di coloro che ne sono vittime e dirigendola verso obiettivi completamente sbagliati. Tuttavia, il problema non consiste soltanto nella seduzione e nella manipolazione attraverso i media: se limitassimo l'uso del concetto di spettacolo alla sfera mediatica, continueremmo a suppore comunque una relazione unilaterale tra la politica ed il potere economico, da una parte, e le «masse», dall'altra, facendo uso di concetti come la manipolazione.
Ma se teniamo in mente il fatto che lo spettacolo di Debord significa la trasformazione in merci di tutti i desideri e di tutti i bisogni, insieme ad una separazione strutturale in attori e spettatori che riduce la vita a contemplazione passiva, ecco che allora vediamo come lo spettacolo ha rimodellato gli stessi soggetti e la loro struttura fisica. Come dice Debord, lo spettacolo è riuscito a far crescere una generazione che non ha conosciuto nient'altro se non lo spettacolo [*9]. E questo lo ha scritto diversi anni prima dello scatenarsi della cultura digitale e virtuale, la quale sembra abbia radicato più che mai nelle nostre teste il capitalismo industriale e la sua logica astratta...

- Anselm Jappe - Pubblicato in Institute for the Humanities / Contours Journal / Issue 9: Summer 2019 -

NOTE:

[*1] - Karl Marx, Letter from Marx to Engels, 24 August 1867, in MECW (London: Lawrence & Wishart, 1987), 42:407.
[*2] - Jacques Le Goff, Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo(Laterza, 2012) e Moses Finley, L'economia degli antichi e dei moderni, (Laterza 2008).
[*3] - Karl Marx - Il Capitale.
[*4] - Riconosco che questi termini potrebbero comportare dei problemi.
[*5] - Si veda l'americano Moishe Postone, in particolare "Time, Labour and Social Domination" (Cambridge: Cambridge University Press, 1993); si veda anche la Wertkritik tedesca (Krisis, Exit!, Robert Kurz), la quale ha avuto anche alcuni precursori come il giovane Lukacs, Isaac Rubin, Freddy Perlman, La Scuola di Francoforte (in particolare Adorno e Marcuse), e i Situazionisti (in particolare Guy Debord).
[*6] -  Karl Marx - Il Capitale.
[*7]  - Guy Debord, La Società dello Spettacolo.
[*8] -  Karl Marx - Il Capitale.
[*9] – Guy Debord - Commentari sulla Società dello Spettacolo.

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