mercoledì 28 febbraio 2024

Anti-che ?!!??

Contro la critica tronca del capitalismo
- di Johannes Vogele & Paul Braun -

Al giorno d'oggi, definirsi anticapitalisti non si limita solo ai circoli marxisti/comunisti, o ai circoli anarchici riservati. Da tempo, anche la nebulosa della cosiddetta "sinistra" non è più l'unico ambiente dove si critica il capitalismo. È come se fosse diventato quasi di moda - politicamente, economicamente e moralmente - denunciare almeno il "capitalismo sfrenato". Tuttavia, se si scava un po' più a fondo, ecco che si scopre subito come dietro tutto questo anticapitalismo si nasconda invece, piuttosto, una sorta di alter-capitalismo; il quale andrebbe invece descritto come “utopico” nel senso sbagliato del termine. In questa "critica del capitalismo", a essere prese in considerazione non sono in alcun modo quelle che sono state le categorie dell'economia politica analizzate da Marx - merce, lavoro, valore, capitale - insieme alle corrispondenti categorie dello Stato - politica, democrazia, diritto. Piuttosto quel che viene criticato, in maniera assai generica e quasi univoca, è invece il "neoliberismo"; vale a dire, quel capitalismo che viene descritto come un capitalismo deregolamentato e strangolato dalla "finanza". Ed ecco che così, a uno sguardo più attento, scopriamo che, nell'analisi,  le categorie capitalistiche - anziché essere state semplicemente dimenticate - sono state mobilitate positivamente, per essere usate contro quella che è vista come una “deriva” attuata dal capitalismo finanziario. In tal modo, vediamo che le condizioni del capitalismo postmoderno in crisi sono state criticate in nome del lavoro, del denaro onesto, della politica e dello Stato.

Così vediamo gli ex-estremisti di sinistra che ora sfilano con le bandiere nazionali, mentre affermano di essere a favore della "produzione reale" e sono per il ripristino delle frontiere, oppure per il ritorno alla famiglia, all'autorità e al patriarcato borghese, alla maniera dei nostri padri. Inoltre, al di là di questi preoccupanti sviluppi che si registrano nell'ambito della critica anticapitalista di sinistra, ci tocca anche scoprire che alcune di queste tesi rivoluzionarie e critiche sono state recuperate da una qualche nuova estrema destra, e vengono viste come se costituissero una difesa della civiltà occidentale contro l'inafferrabile mostro della "finanza internazionale" e il complotto "giudaico-massonico". Si tratta, allora, in primo luogo, di riesaminare proprio queste famose categorie di base, per precisare che, no, il capitalismo non è "la finanza", o "la globalizzazione neoliberale" o "Bilderberg". Il capitalismo (secondo Marx) è un "soggetto automatico", vale a dire, è il capitale che auto-valorizza sé stesso, ossia, la "valorizzazione del valore". Ciò con cui abbiamo a che fare, è un sistema totalizzante, una "relazione sociale tra cose". E temo che ci vorrà un bel po' di tempo per riuscire a ritornare su questa analisi, la quale comprende questo sistema in quanto sistema "feticista", nel quale l'azione umana assume la forma di cose (merci, denaro, capitale) che dettano la loro legge, e che viene vissuta come se fosse una legge naturale. In questo sistema, l'attività umana non è finalizzata alla soddisfazione dei bisogni. Per il capitale, la soddisfazione dei bisogni umani, qualunque essi siano, non rappresenta altro che solo una tappa, un male necessario, una necessità per poter, alla fine della catena, realizzare il valore. Così, lo scopo dell'attività umana si riduce a essere la riproduzione del capitale, cioè, del valore nella sua forma di denaro. Tale attività corrisponde al lavoro.

Ma la "valorizzazione del valore" non può continuare semplicemente a riprodursi in maniera sempre uguale. Il suo imperativo categorico è quello di continuare sempre ad accrescersi, incessantemente. Dopo ogni ciclo di valorizzazione (capitale - lavoro = produzione di merci - vendita di merci sul mercato = realizzo) bisogna che ci sia sempre più capitale. L'unica risorsa che consente di avere sempre nuovo capitale (plusvalore) è il lavoro. La contraddizione insita in un simile sistema nasce dal fatto che la concorrenza (in sé necessaria al funzionamento del capitalismo), attraverso l'innovazione tecnologica, obbliga i suoi soggetti a ridurre la quantità di forza lavoro necessaria alla produzione. Ed è questa contraddizione che determina la crisi. Si potrebbe anche dire che, pertanto, a questo punto, il capitalismo non sarebbe nemmeno più redditizio. Ma nel momento in cui il capitale non può più essere investito con profitto nella produzione attuale, ecco che allora esso fugge andando speculare su quella che dovrebbe essere la possibile produzione futura. È questo ciò che è successo a partire dagli anni '70, allorché la "terza rivoluzione industriale", quella della microinformatica, ha aumentato la produttività del lavoro, fino a spingerla ad arrivare a un punto irreversibile; in modo che così abbiamo assistito a una spettacolare fuga in avanti, a una vera e propria corsa a precipizio dentro le bolle speculative, al fine di riuscire a moltiplicare il capitale fittizio. Naturalmente, è ovvio che uno sviluppo del genere non può certo continuare all'infinito. Le bolle sono scoppiate, e la non redditività dell'economia è venuta a galla. Tutto questo mentre la politica, da parte sua, non è di certo un ostacolo a un tale sistema, ma essa rappresenta piuttosto proprio quella forma di organizzazione sociale che è la più adatta a rendere possibile il dispiegarsi di un simile processo mortifero. La Nazione, i "valori borghesi", la famiglia patriarcale non sono certo un baluardo contro il freddo funzionamento della macchina capitalistica, ma incarnano semmai proprio la forma di vita e di identità del sistema capitalistico nella sua fase moderna.

Al giorno d'oggi, questo processo di valorizzazione è arrivato alla fine della sua crisi irreversibile, e procede spedito verso la sua propria fine. Ma nella misura in cui quello in cui siamo immersi non costituisce un sistema esterno agli esseri umani, quanto piuttosto del loro (nostro) modo di vivere, di sopravvivere, di relazionarsi(ci) con gli altri, ragion per cui a correre verso la rovina, intrappolati nel sistema, non sono solo loro. Siamo noi. Le categorie capitalistiche non sono esterne alla soggettività moderna, ma si radicano profondamente in essa. Il soggetto moderno -  che si è configurato come onnipotente, come il dominatore della natura, tanto di quella natura definita come esterna, quanto della natura dello stesso individuo, di quel soggetto che misura, categorizza e trasforma le cose a proprio piacimento; il soggetto moderno, costituitosi come soggetto maschio, bianco e occidentale, dissociando pertanto il "femminile", strutturato come "Altro", dominato e reso invisibile -  sta ora entrando inesorabilmente in crisi proprio con quello che è il suo padrone, il feticcio impersonale e inconsapevole, il "soggetto automatico". Pertanto, la crisi oggi è sia oggettiva che soggettiva. E in questa crisi assoluta della valorizzazione del valore, ecco che assistiamo al modo in cui la forma patriarcale moderna del soggetto subisce una decomposizione, e si manifesta in delle identità forzate di frammentazione e di contrapposizione, si manifesta attraverso un narcisismo diventato normalità e in attacchi di follia omicida. Il delirio di onnipotenza del soggetto moderno, compromesso e scardinato, si scarica sia in singole manifestazioni individuali di crisi, sia nel riformarsi di quelle ideologie che provano a spiegare la sofferenza vissuta come se si trattasse di  una malattia, vale a dire, di una contaminazione proveniente dall'esterno. E dato che il sistema è stato interiorizzato come se fosse naturale, ecco che pertanto, si cerca a tutti i costi di trovare, per la sua crisi, delle ragioni che provengano dall'esterno: complotti, manipolazioni.

Il risorgere delle teorie del complotto e dell'antisemitismo (post)moderno, può essere spiegato a partire da tutto questo. Simultaneamente, sono tornate alla ribalta anche altre forme di razzismo; contro i neri, islamofobico, contro gli zingari, eccetera. Tuttavia, in ogni caso, è necessario riconoscere la loro specificità. Mentre l'ebreo (o il sionista, il massone o il banchiere di New York) viene visto come se fosse dotato di un superpotere malvagio, invece l'arabo, il "nero" o lo "zingaro" sono visti come "subumani"; cosa che costituisce un altro costrutto ideologico, sebbene complementare. E anche il sessismo, che oggi sta vivendo una nuova stagione, deve essere analizzato in modo particolare, riconoscendo qual è il suo posto essenziale nella costruzione del capitalismo moderno e postmoderno. Lo scopo di tutte queste riflessioni è quello di criticare un anticapitalismo tronco, che si richiama alla cosiddetta "economia reale", alla "democrazia", alla "nazione" e così via, contrapponendogli una vera e propria critica della modernità, del patriarcato produttore di merci, in breve, del capitalismo.

- Johannes Vogele & Paul Braun - dalla loro introduzione fatta all'incontro di Bucarest dal titolo «Rasismul & critica valorii», sabato 18 maggio 2019 -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

La qualità dell’ombra…

L’ombra in esilio è il romanzo più radicale di Norman Manea: una riflessione sull’identità e sul senso inconciliabile di sradicamento che avvolge l’esistenza degli esuli del mondo. C’è un uomo di origini ebraiche al centro di questa storia, un sopravvissuto. È sopravvissuto all’Olocausto e al regime di Ceausescu, alla fuga che lo ha portato fortunosamente a Berlino, superando il Muro, e alla perdita di tutti i suoi affetti. Si fa chiamare Nomade Misantropo, perché – come quella del leggendario Ebreo Errante – la sua vita sembra destinata a un esilio senza fine. Nel percorso che lo condurrà a trovare una nuova casa negli Stati Uniti, sul suo volto appariranno i volti delle persone incontrate per la via, la sua voce diventerà un mosaico di quelle attraversate, la sua ombra l’insieme di quelle lasciate dalle luci altrui. L’ombra in esilio è il racconto di questo viaggio in cui si uniscono le storie maggiori e minori del Novecento. Un viaggio che viene vissuto dal Nomade sul piano reale e su quello letterario, intervallando l’orrore dei gulag ai romanzi di Robert Musil, il volto di Thomas Mann a quello della statua di George Washington, l’11 settembre alle poesie di Eugenio Montale. Un «romanzo collage», in cui Manea ripercorre i temi che hanno caratterizzato la sua ricerca narrativa fondendo assieme autobiografia e invenzione, storia e letteratura, la condizione di apolide con la «colpa» dei sopravvissuti, fino a giungere sulla soglia degli interrogativi centrali dell’esistenza umana: ma io, io che ho barattato l’intero mio passato per avere un futuro, io che oggi parlo e scrivo con una lingua diversa da quella che avevo, io chi sono?

(dal risvolto di copertina di: Norman Manea, "L’ombra in esilio. Romanzo collage", Traduzione di Roberto Merlo e Barbara Pavetto. IL SAGGIATORE, Pagine 368, €26)

L’uomo senz’ombra non ha parole
- di Demetrio Paolin -

Leggendo il nuovo, grande, romanzo di Norman Manea, "L’ombra in esilio", tradotto per il Saggiatore da Roberto Merlo e Barbara Pavetto, viene da pensare come la figura retorica dell’antonomasia lo innervi e lo inveri per intero: un’antonomasia particolare, cangiante, multiforme, ellittica, proprio come sono la struttura e la storia contenute in quest’opera dello scrittore romeno. Che non casualmente è definita «romanzo collage». L’antonomasia sta indicare la sostituzione del nome di un personaggio con una perifrasi o appellativo che lo rappresenti, nel caso de L’ombra in esilio noi ignoriamo il nome del protagonista, ne conosciamo via via gli appellativi: l’assonnato, l’addormentato, l’esule, il misantropo, il candidato, il professore, il nomade, il prigioniero eccetera. Lungo il corso delle 360 pagine, che raccontano la storia, mai verremmo sapere quale sia il nome di quest’uomo, professore, che con un colpo di fortuna, e una certa dose di corruzione, riesce a espatriare dalla Romania durante il regime comunista per approdare, dopo varie peripezie, negli Stati Uniti d’America. L’uomo senza nome è un insegnante, un intellettuale, esperto di circo, e ossessionato dalla Storia straordinaria di Peter Schlemihl, il romanzo dell’autore romantico tedesco Adelbert von Chamisso.

Il protagonista, i cui tratti biografici sono in parte riconducibili a Manea stesso, come ad esempio l’esperienza nel Lager durante la Seconda guerra mondiale (Manea bambino fu deportato in un campo in Transnistria dal regime fascista romeno alleato dei nazisti) e l’insegnamento negli Stati Uniti, vive la sua condizione di esule sradicato, orfano dei genitori,  morti nel Lager, sopravvivendo alle storture della dittatura, costruendosi una esistenza fatta di libri — «Non si illudeva di vivere in un Paese, ma in una lingua» — all’ombra di un sentimento ineffabile e indicibile, che è l’amore fisico, incestuoso, per la sorellastra Tamar, anche lei orfana e sopravvissuta al Lager. Mentre Tamar, ribattezzata Agatha, come il personaggio femminile de L’uomo senza qualità di Robert Musil (uno dei testi che fanno da contraltare al romanzo di Manea), ha deciso di accettare la realtà, e in qualche modo di cambiarla, di modificarla, il protagonista soffre di una «fobia della realtà», che neppure l’amico Gunther, personaggio chiassoso e pantagruelico, ossessionato dalla colpa di essere tedesco, riesce a stanare. L’ombra in esilio è un romanzo pieno di sogni, filtrati secondo schemi libreschi e kafkiani, in una di queste visioni è Agatha stessa, o meglio la sua apparizione, a inchiodare il protagonista alla tremenda verità: «Non riesci a staccarti dalla cripta di libri in cui ti sei murato. E da loro che non riesci a staccarti, è da te stesso che non riesci a staccarti! Dalla futilità delle tue mura». Il protagonista vive una sorta di stato d’eccezione; egli non ha patria, ma esiste nei suoi libri, lontano dalla realtà che lo turba e lo porta a soffrire: potremmo definire questa condizione un totale sradicamento, termine che spesso torna nelle pagine de L’ombra in esilio, nel quale il «ramingo» non ha — letteralmente — luogo in cui stare. Il protagonista, date queste premesse romanzesche, non esiste, da qui l’assenza del nome, e il suo muoversi senza meta lo rassomiglia e affianca più ai fantasmi che alle persone reali; la sua vita, quindi, è simile a quella del personaggio di von Chamisso: anche lui non ha l’ombra, e non lascia segno della sua presenza e del suo passaggio sulla terra.

L’ossessione dell’essere esule, lontano e perduto si lega a un silenzio ostinato, inquietante, che perdura per tutto il romanzo, rispetto alla tremenda esperienza vissuta nel Lager. Rispetto alla vicenda nell’universo concentrazionario, che ha segnato l’esistenza futura, che ha alimentato in maniera costante la sua fobia della realtà e pervertito i suoi sentimenti amorosi, il protagonista diventa il taciturno, non dice nulla, al massimo accenna per ellissi. Tale testardo mutismo si riflette sulla sua condizione di costante migrazione, simile a quella dell’Ebreo Errante, condannato a vagare fino al compimento dei tempi. La testimonianza a proposito della deportazione, che ha distrutto la sua vita, quindi rimane monca: solo una volta il silenzioso parla, confessione estorta da un altro personaggio femminile, Eva, che diventerà infine la sua confidente, amante e amica: «Parlava del treno della morte, pieno di gemiti e feci, la Puzza su ruote, di cui aveva sempre evitato di parlare. Ripeteva ancora e ancora: la Puzza su ruote! Una sorta di spasmo». Questo è l’evento, il crinale lungo il quale si muove l’intera narrazione del romanzo, dagli anni Ottanta ai giorni nostri (passando per eventi traumatici come l’11 settembre). Ecco perché il protagonista è come Peter Schlemihl che perde l’ombra, e così facendo si priva del nome e dell’identità; nella favola la rinuncia all’ombra avviene a seguito delle lusinghe dell’Uomo grigio, figurazione di un male subdolo e meschino, un diavolo senza coda e corna: «Un gentiluomo educato, rappresentante della cultura borghese»; un demone grigio e trasparente simile a molti volenterosi carnefici educati e borghesi, che seguirono Hitler, nel privare altri uomini di nome, terra, casa, famiglia e esistenza.

Esilio, erranza e sradicamento sono per Manea l’esito di questa esistenza senza ombra e senza nome. In una pagina mirabile, quasi fossimo nel castello degli spiriti magni di dantesca memoria, vengono evocati gli spiriti di questo eterno fuggire, oltre a Ionesco e Cioran, «il signor Nabokov e sir Joyce e Herr Mann con suo fratello e Herr Brecht e Brodskij, Celan […]. Molti spagnoli, cacciati da Franco, […], la signora Irma, poetessa e musa del poeta italiano, e la brasiliana Lispector dell’Ucraina, Neruda e il vecchio Lampedusa. Seguiti dal turco Hikmet e dall’antico Ovidio». Siamo, infine, al cospetto di un catalogo, eminentemente libresco, di esiliati, perché nel viaggio della vita l’unica fedeltà — che lo «sradicato» mantiene salda — è verso la lingua, flebile ultima occasione di dichiarare al mondo la propria esistenza dicendo, come Abramo padre di tutti gli sradicati, «Hineni/Eccomi».

- Demetrio Paolin - Pubblicato su La Lettura dell'8 ottobre 2023 -

martedì 27 febbraio 2024

La forza dei poveri !!

episteme epistème s. f.Nel linguaggio filosofico, traslitt. dal termine greco che indicava inizialmente ogni conoscenza abilitante a compiere determinate attività o mestieri, e in seguito, più specificamente, [...] o proposte interpretative, dalle quali derivano sia suggerimenti per altri campi della ricerca sia sollecitazioni ideologiche e filosofiche: in tal senso, dal rinvenimento delle epistemi trae origine la considerazione interdisciplinare del sapere. (da: Treccani)

«In ogni periodo storico, in ogni società, sotto un'apparente unità, coesistono diverse epistemi. Tale pluralità, riflette la molteplicità dei modi in cui il mondo viene percepito dai diversi gruppi umani, i quali agiscono si di esso proprio a partire dal modo in cui lo interpretano. Il modo in cui si sono incontrate e si sono scontrate le diverse epistemi, ha portato a delle vere e proprie "guerre epistemiche", ma ha anche innescato dei processi di ri-funzionalizzazione e di arricchimento reciproco. A tal proposito,  Michel Foucault ha analizzato a lungo ciò che ha definito "i saperi assoggettati", e che ha visto come costituiti, da un lato, da dei blocchi di conoscenze storiche sepolte e avvolte dalla "tirannia del sapere che ingloba", della "istanza teorica unitaria" e, dall'altro, da quei saperi squalificati in quanto non formali e non concettuali. Gli incontri e gli scontri, e persino le guerre tra epistemi, alla fine lo hanno spinto a studiare quella che lui ha chiamato l'insurrezione di questi saperi contro gli effetti dei poteri centralizzanti legati all'istituzione e al funzionamento del discorso scientifico che formalizza e matematizza, nell'empirismo, i dati concreti.  Definendo sé stesso come uno dei membri di una società segreta, «una delle più antiche e delle più caratteristiche dell'Occidente", e stranamente indistruttibile, "la grande, tenera e accogliente massoneria dell'erudizione inutile", offre questo libero sapere, contrassegnato dal sigillo dell'ozio (greco scholè, latino otium, la cui negazione è neg-otium, commercio), agli insorti dei sensi e dei saperi negati.  Il connubio tra il sapere erudito (che include e comprende il sapere storico delle lotte) e l'insurrezione dei saperi assoggettati e sottomessi, dovrebbe consentire ciò che egli chiama genealogia. E dovrebbe essere proprio la genealogia ad abolire la tirannia del sapere onnicomprensivo, portando alla luce quali sono le sue origini. In altre parole, la genealogia, che è un'antiscienza, attraverso un recupero del sapere - come si suol dire un "ritorno di fiamma" -, guiderebbe la lotta contro quelli che sono "gli effetti che ha un potere che si lega a un discorso che viene considerato scientifico". »

da: (Majid Rahnema e Jean Robert, "La puissance des pauvres",  p. 151-152 )

(grazie a @Acid Prod)

Il presupposto di ogni critica !!

Le "Éditions du Sandre", annunciano la pubblicazione di un libro, il primo, interamente dedicato a Sergio Berna, uno dei quattro membri originari dell'Internazionale Lettrista, insieme a Jean-Louis Brau, Guy Debord e Gil J Wolman.

« Della vita di questo poeta e teppista, non sappiamo quasi niente, se non che era nato a Venezia nel 1924, e che a Saint-Germain-des-Prés, all'età di venticinque anni, divenne un personaggio famoso, essendo stato l'autore della proclamazione de "la morte di Dio", proprio nel bel mezzo della cattedrale di Notre-Dame a Parigi. In questo libro, sono raccolti tutti i testi che Sergio Berna  - tra il 1950 e il 1955, periodo in cui fondò il Club des Ratés e partecipò attivamente al movimento lettrista, prima con il gruppo guidato da Isidore Isou, e poi all'interno dell'Internazionale Lettrista con Jean-Louis Brau, Guy Debord e Gil J Wolman - ha pubblicato su diverse riviste (Ur, Ion, Le Soleil noir, En marge). In questo "Écrits et documents", viene riprodotta anche la sua prefazione a "Vie et mort de Satan le Feu", di Antonin Artaud, di cui aveva scoperto dei manoscritti e dei brani inediti. Viene inoltre pubblicato per la prima volta il suo "roman-film influentiel", costituito da un manoscritto e da un collage di 78 fogli, oltre alla sua corrispondenza con Wolman, Debord, Koenig, Mariën, Magritte, Bazin, Étiemble e Breton. Nel libro, viene seguito anche nelle sue numerose battaglie legali e nei suoi soggiorni in prigione, fino a quando, all'inizio degli anni Settanta, se ne perde ogni traccia.

Serge Berna, "Écrits et documents", Édition établie et annotée par Jean-Louis Rançon. Éditions du Sandre, 208 p., 35 €

lunedì 26 febbraio 2024

La politica energetica più stupida del mondo !??!!

I vincoli economici, e quelli ecologici
-  Nella crisi climatica capitalista: l'economia o il clima? -
di Tomasz Konicz [***]

Il settore economico tedesco è in fiamme. [*1] Sempre più aziende e corporazioni annunciano licenziamenti o delocalizzazioni, mentre economisti e associazioni mettono in guardia da una "deindustrializzazione" della Repubblica Federale Tedesca. Aziende come Miele, Continental, Bosch, Volkswagen, BASF e Bayer hanno già fatto notizia con i loro annunci, ma si tratta solo della punta dell'iceberg. Secondo un sondaggio della Federazione delle Industrie Tedesche (BDI), oggi è circa il 67% di tutte le aziende intervistate che si trova in procinto di delocalizzare la propria produzione all'estero, coinvolgendo in questo quei settori chiave come la chimica, l'ingegneria meccanica e la produzione automobilistica, che poi sarebbero quelli particolarmente colpiti. Il modello economico tedesco, orientato all'esportazione, che mirava pertanto a conseguire i più alti surplus di esportazione possibili, attualmente si trova nella nuova fase della crisi in cui sta entrando il sistema globale tardo-capitalista, caratterizzata da de-globalizzazione, protezionismo e crescente instabilità delle catene di produzione e di approvvigionamento globali, che si stanno disintegrando in maniera spettacolare. [*2] Attualmente, oltre agli altri paesi dell'eurozona, come paesi bersagli per le delocalizzazioni aziendali, ci sono gli Stati Uniti, dove di fatto l'amministrazione Biden  sta portando avanti la politica protezionistica di Trump. [*3]

A essere troppo alti, in Germania, non sono solo i salari e le tasse, ma anche i costi dell'energia; così, in occasione dell'annuncio dei licenziamenti di massa a Gütersloh, si è lamentato Markus Miele, socio amministratore del Gruppo Miele. Nel fare questa denuncia, il signor Miele si trova del tutto in linea con quella che è la tendenza generale: per cui, nei sondaggi, una significativa riduzione dei prezzi dell'energia viene indicata da circa il 69% delle aziende – oltre alla riduzione della burocrazia – le quali la vedono come una misura sensata volta a «rafforzare l'attrattiva della Repubblica Federale, vista come piazza economica». Ragion per cui, così facendo, l'economia sta di fatto chiedendo di porre fine a quelli che sono gli sforzi (già deboli) fatti dall'Ampel-Koalition [Coalizione Semaforo] al fine di de-carbonizzare sia la produzione che la distribuzione nella Repubblica Federale Tedesca, e realizzare così un capitalismo verde ed ecologicamente sostenibile. Talvolta ciò viene perfino detto in modo esplicito. [*4] Come quando, lo scorso novembre, Rainer Dulger, il presidente dei datori di lavoro, ha invitato la Coalizione ad abbandonare i suoi obiettivi di protezione del clima, visto che i «progetti verdi dell'Ampel-Koalition» indebolirebbero la posizione delle aziende. «Se la Coalizione dovesse attuare tutto ciò che si è prefissato di fare in termini di politica climatica, a quel punto la Germania non sarà più in grado di tenere il passo a livello internazionale», ha avvisato Dulger, che ha chiesto una più ampia economia di mercato. La CDU è ben lieta di assecondare tutti quei manager e tutti quegli imprenditori che si lamentano della normativa ecologica e degli alti prezzi dell'energia, facendo richieste corrispondenti. Astrid Hamker, presidente del Consiglio economico della CDU, chiede per la Germania - che rischierebbe di diventare di nuovo il «malato» d'Europa a causa della «politica energetica più stupida del mondo» - un'agenda di crescita.

«Ignorare le leggi economiche, significa anteporre il desiderio alla realtà», ha ammonito Hamker in un suo articolo per "Wirtschaftswoche". [*5] Il politico della CDU si sta semplicemente riferendo ai vincoli imposti dal mercato, i quali derivano in maniera inevitabile dall'economia capitalistica. Ed è così che stanno le cose. La compulsione capitalistica al profitto – la necessità di valorizzare quanto più possibile il capitale investito – si impone sul mercato per mezzo della concorrenza. Se le aziende tedesche devono sostenere dei costi più elevati a causa della politica climatica del "Semaforo", esse allora si troveranno in una posizione svantaggiata sul mercato mondiale globale, rispetto a tutti quei concorrenti che invece non saranno gravati dai costi della riforma ecologica. In termini concreti, emerge una scomoda verità che finora è stata largamente sottaciuta, soprattutto da parte del movimento ecologista vicino ai Verdi. Il Green New Deal, l'idea di costruire un nuovo settore ecologico che si ponga a traino dell'economia, rimane un'illusione. [*6] Questo progetto di riforma, nel quale si verrebbe a creare un'eco-industria che dovrebbe modernizzare il capitalismo, e allo stesso tempo scongiurerebbe la crisi climatica, ha costituito la base ecologica dell'ascesa politica del Partito dei Verdi. [*7] A causa della compulsione allo sfruttamento feticistico [*8] del capitale, il capitalismo e la protezione del clima sono incompatibili tra di loro. [*9] Le cosiddette "leggi economiche" dell'economia capitalista, di cui ha parlato il politico della CDU, Hamker, costringono le società capitaliste a conseguire una sempre maggiore "crescita economica", e questo anche se la cosa finisce per aggravare sempre più la crisi climatica. Simultaneamente, viene anche messa in discussione, dai media borghesi, l'idea di un "Green New Deal", il quale avrebbe dovuto conciliare ecologia e crescita economica. Il settimanale Die Zeit [*10] e lo Spiegel-Online [*11], nei loro servizi e nelle interviste, hanno discusso gli studi in proposito, secondo i quali, a livello nazionale, l'auspicata de-carbonizzazione capitalista rappresenta un onere economico, piuttosto che un motore economico. Di conseguenza, la protezione del clima richiederebbe pertanto degli investimenti elevati, senza però creare nuove capacità produttive (il rapporto tra gli investimenti necessari e l'effettivo utilizzo di forza lavoro salariato nel settore verde, appare essere sfavorevole, e questo a causa del livello di produttività che è stato raggiunto a livello globale). [*12]

Perciò, le previsioni economiche a lungo termine continuano a prevedere,  per la Repubblica federale di Tedesca fino al 2028; un misero tasso di crescita annuo che appare compreso tra lo 0,9% (secondo gli Istituti tedeschi di ricerca economica) e l'1,1% (secondo il FMI). E oltretutto, la trasformazione ecologica equivale a rallentare l'economia, dal momento che il pacchetto climatico dell'UE (Fit for 55)  [N.d.T.: "Pronti per il 55%": il piano dell'UE per una transizione verde] da solo potrebbe costare alla Germania circa l'1% della sua crescita economica. In un'intervista allo Spiegel Online, l'autore di un ampio studio che si è occupato dell'interazione tra protezione del clima ed economia è giunto a una conclusione che fa riflettere: «La crescita verde è un sogno irrealizzabile, una chimera a cui dovremmo dire addio il prima possibile». Nessuno dei 36 paesi esaminati nello studio è stato in grado di «ridurre le proprie emissioni di CO2 abbastanza rapidamente, nel mentre che, allo stesso tempo, aumentava il proprio prodotto interno lordo». Il capitale e la protezione del clima - a causa della compulsione del capitale a valorizzare sé stesso - sono incompatibili. È questo è il motivo per cui la politica climatica si è messa sulla difensiva, ed ecco perché in questo momento hanno il sopravvento i negazionisti di estrema destra, del clima e del cambiamento climatico. A livello nazionale, politica climatica capitalista non solo non funziona, ma rappresenta anche uno svantaggio competitivo ben concreto che aggrava la crisi economica dell'ex campione mondiale delle esportazioni. Avviene così che, semplicemente, la Destra fossile – dall'AfD all'FDP alla CDU –, nei suoi attacchi alla politica di riforma dei Verdi, si trova ad avere dalla propria parte le "leggi dell'economia". Perciò, il Governo tedesco e la CDU, in base a quelli che sono i vincoli capitalistici, hanno semplicemente ragione.

E tuttavia, per quel che riguarda la crisi climatica capitalista, [*13] essa appare caratterizzata da dei vincoli completamente diversi, la maggior parte dei quali non finisce più nei titoli allarmistici dei giornali tedeschi. Questi vincoli si trovano nel sistema globale dei venti e nelle correnti oceaniche, nella temperatura dell'acqua e nella concentrazione salina delle acqua oceaniche del Nord Atlantico, o semplicemente nell'atmosfera. Nell'anno che è appena passato, sembra che sia già stata superata una soglia importante, dal momento che, in media, la temperatura globale si è trovata a essere di 1,5 gradi Celsius al di sopra del valore di riferimento preindustriale, raggiungendo così nuovi record storici negativi, i quali vengono costantemente misurati a livello locale e globale. Ciò si è verificato nel gennaio 2024, che è stato di 1,66 gradi Celsius superiore ai valori comparabili dell'inizio del 19° secolo. [*14] Nell'Artico e nell'Antartide, lo scioglimento dei ghiacci continua ad accelerare, al punto che ora sembra probabile un innalzamento del livello del mare di decine di metri. [*15] Nel 2023, le temperature dell'acqua hanno raggiunto dei livelli record assurdi: nel Mediterraneo si è passati a 28,7°, [*16] nell'Atlantico settentrionale si è arrivati a 25°, [*17] mentre al largo della Florida, sono stati misurati fino a 36,1°. [*18] L'aumento delle temperature e quello dei gas serra, sta creando negli oceani del mondo sempre più zone morte; zone in cui la vita non è più possibile. [*19] Avverrà che nel giro di pochi decenni, ci saranno alcune parti del pianeta che a causa del rapido aumento delle temperature diventeranno semplicemente inabitabili. [*20] Simultaneamente, nel 2023, le emissioni globali di gas serra sono aumentate dell'1,1%, raggiungendo un nuovo massimo storico di 36,8 miliardi di tonnellate di CO2. [*21] Dopo tutto, l'economia deve crescere, e questa crescita, che è soltanto un'espressione economica della compulsione del capitale a valorizzare sé stesso, produce gas serra. La crisi climatica capitalista si dirige verso il peggiore degli scenari. Le leggi del mercato - quelle che non possono essere ignorate - si trovano ora in rotta di collisione con le leggi della fisica, che nell'attuale discorso, a proposito della crisi della Repubblica federale di Germania, rimangono piuttosto sottovalutate. In realtà, sembra davvero che l'opinione pubblica stia dando maggiore importanza ai vincoli dell'economia, anziché a quelli ecologici.

Nella Repubblica Federale Tedesca, il discorso sulla crisi si basa su un assunto di base implicito, che viene sostenuto e ribadito soprattutto dalla Nuova Destra: la crisi climatica colpirà in pieno, e in primo luogo, il Sud globale, mentre i centri settentrionali del sistema mondiale potrebbero ottenere una deroga. Le campagne xenofobe per la chiusura totale delle frontiere, che in Germania, nel 2023, hanno cementato con successo l'egemonia della destra, [*22] ora sono motivate a partire dall'anticipazione di futuri movimenti di rifugiati, i quali verrebbero indotti dal clima. Il Sud sarebbe destinato a perire nella crisi climatica, nel mentre che il Nord si isola e si chiude in sé stesso: ecco qual è il calcolo, alla base di tutte queste campagne volte a sigillare i confini. Ma tuttavia, la crisi climatica non aderisce a quelli che sono gli schemi ideologici di base nei centri settentrionali del sistema globale Il primo grande disastro climatico potrebbe benissimo colpire in maniera particolarmente dura l'Europa nord-occidentale, proprio laddove populisti ed estremisti di destra stanno celebrando un così grande successo grazie al nazionalismo, alla xenofobia e all'isolazionismo. Uno studio pubblicato di recente ha confermato il pericolo di un collasso del sistema di correnti atlantiche, il quale include anche la Corrente del Golfo, che trasporta l'acqua calda dei Caraibi portandola verso il Nord Atlantico, e che fornisce all'Europa occidentale il suo clima stabile e mite. [*23] Un punto di non ritorno, che innescherebbe un'improvvisa e catastrofica sospensione della circolazione atlantica, e che è stato inequivocabilmente confermato da complessi modelli climatici. [*24] Lo scioglimento delle acque nell'Artico, sta già causando un indebolimento sempre maggiore della Corrente del Golfo; del 15%, dal 1950. Tuttavia, i ricercatori non sono in grado di prevedere quale sarà il momento specifico. Sull'Europa pende una spada di Damocle climatica, di cui il crine si potrebbe spezzare in qualsiasi momento. E nessuno può prevedere quando questo punto di svolta verrà superato. Tra un anno? Tra un decennio? Tra un secolo? Non esistono delle «realistiche misure di adattamento» allorché questo punto di svolta vienga superato. Nel giro di pochi anni, il clima cambierebbe radicalmente, soprattutto nell'Europa nord-occidentale: L'Europa si seccherebbe e diventerebbe molto più fredda, mentre il sud globale si riscalderebbe molto più rapidamente. L'abbassamento della temperatura avverrebbe a un ritmo rapido di circa tre gradi Celsius per decennio, e in inverno porterebbe alla diffusione dei ghiacci artici fino al Canale della Manica (ad oggi, il cambiamento climatico ha portato a un riscaldamento medio di 0,2° per decennio). [*25].

Un collasso della civiltà diverrebbe probabile, dal momento che negli ultimi millenni la stabilità del sistema climatico globale è stata un prerequisito fondamentale per il processo di civilizzazione. Di fronte a questa minaccia concreta, sembra perciò assurdo continuare a pensare in termini di vincoli economici, continuare a blaterare di previsioni economiche, di impulsi di crescita, di freni all'indebitamento, oppure di competitività. E tuttavia, agli occhi dell'opinione pubblica, le "leggi dell'economia" continuano a essere considerate immutabili, come se fossero leggi della natura. Da un lato, si tratta del discorso borghese reificato, con la sua attenzione delimitata ai "fatti sostanziali"; quel discorso che rende possibile propagandare, durante i dibattiti economici, l'aumento della "crescita" capitalista, che allo stesso tempo promuove anche il collasso climatico. Basta solo che il discorso economico venga nettamente separato dal discorso sul clima. Ma tuttavia, la crisi climatica capitalista non aderisce affatto a queste convenzioni. A essere decisivo, per l'apparenza "naturale" di quelli che sono i rapporti capitalistici, è il feticismo del capitale, l'auto-movimento globale che coinvolge tutti i suoi stati aggregati (denaro, merce, lavoro), e che viene inconsapevolmente prodotto dai soggetti del mercato. Nel capitalismo, le persone si trovano a essere esposte, impotenti, a una dinamica del capitale che si costituisce a partire dal mercato, che poi essi stessi elaborano, letteralmente, su base quotidiana, in quanto soggetti di mercato. Ciò può essere visto anche negli interventi pubblici della leadership della coalizione di governo, i quali chiariscono perché la massimizzazione del profitto debba prevalere sulla protezione del clima. Mediato dal mercato, il competitore che se ne frega dell'ecologia prevarrà sul mercato mondiale. Il fatto che i capitalisti non abbiano alcun controllo sul capitalismo, viene reso sempre più evidente, non solo a partire dalle crisi economiche nelle quali i terremoti dei mercati finanziari devastano intere regioni, ma anche dalla crisi climatica, che priverà l'economia delle sue basi aziendali.

Le leggi capitalistiche dell'economia, l'impulso del capitale in quanto "soggetto automatico": tutto questo è opera degli esseri umani e quindi può essere cambiato, superato e trasformato in storia. Tuttavia, in assenza di un soggetto, viene applicato e mantenuto «alle spalle» (Marx) dei produttori, come «coercizione silenziosa»  delle condizioni mediate dal mercato [*26], che impongono la massimizzazione del profitto anche quando il clima sta crollando. La società, l'intera Terra con tutte le sue risorse, sono solo il materiale dell'infinito processo di valorizzazione del rapporto di capitale, in cui si deve ricavare più denaro dal denaro attraverso la produzione di merci. E questa vuota tautologia, che Marx ha sintetizzato come «soggetto automatico», è cieca a tutte le conseguenze ecologiche e sociali del suo movimento di sfruttamento. La crisi climatica capitalista non è una crisi di distribuzione, come suggerisce il termine improprio opportunistico di «giustizia climatica» [*27], ma è una crisi sistemica. Il sentimento di eteronomia, quell'eteronomia che il capitale genera nella sua compulsione feticista a valorizzare, si traduce anche nella falsa apparenza della "naturalità" del capitale e delle corrispondenti "leggi dell'economia" che i suoi apologeti amano invocare. Il superamento del rapporto capitale-merce, che oggi sta impazzendo, sarebbe perciò concepibile solo in quanto abolizione di questo movimento di valorizzazione nella società nel suo insieme, per sostituirlo con la comprensione cosciente, da parte della società, della forma e del contenuto della riproduzione. Comunque sia, il tempo del capitale è arrivato alla fine: la "crescita" infinita è autodistruttiva. L'unica questione che rimane è quella di sapere se il collasso della civiltà, verso il quale si sta dirigendo il capitale, possa ancora essere evitato, nel quadro di una trasformazione emancipatrice.

- Tomasz Konicz [***] - Pubblicato il 23 Febbraio 2024 -


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NOTE:

1 https://www.n-tv.de/politik/politik_person_der_woche/Der-naechste-Job-Schock-In-der-Industrie-brennt-es-lichterloh-article24715680.html

2 https://www.konicz.info/2024/01/25/leerlauf-der-exportdampfwalze/

3 https://www.konicz.info/2023/08/26/bidens-improvisierter-masterplan/

4 https://www.spiegel.de/wirtschaft/arbeitgeberpraesident-rainer-dulger-stellt-klimaziele-infrage-a-0d4324d2-1630-4f4e-babf-2e4e150e1591

5 https://www.wiwo.de/politik/deutschland/rezession-deutschland-killt-seinen-wohlstand-wo-bleibt-die-wachstumsagenda-/29660578.html?utm_content=organisch&utm_term=ne&utm_medium=sm&utm_campaign=standard&utm_source=Facebook#Echobox=1708329045

6 https://www.konicz.info/2019/07/05/kann-ein-green-new-deal-den-klimawandel-aufhalten/

7 https://www.streifzuege.org/2011/die-oekologischen-grenzen-des-kapitals/

8 https://www.konicz.info/2022/10/02/die-subjektlose-herrschaft-des-kapitals-2/

9 https://www.konicz.info/2022/01/14/die-klimakrise-und-die-aeusseren-grenzen-des-kapitals/

10 https://www.zeit.de/2023/20/klimaschutz-wirtschaftswachstum-energiewende-unternehmen

11 https://www.spiegel.de/wirtschaft/soziales/klimaschutz-und-wirtschaftswachstum-gruenes-wachstum-ist-ein-wunschtraum-a-b2df7af4-71f4-4107-8184-0e2d6155badd

12 https://www.konicz.info/2012/12/09/noch-funf-jahre-2/

13 https://www.konicz.info/2018/06/06/kapital-als-klimakiller/

14 https://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/erderwaermung-lag-erstmals-zwoelf-monate-lang-ueber-1-5-grad-zahlen-von-copernicus-a-61df2697-487b-482a-a21a-3a60d6b2732a

15 https://www.fr.de/wissen/antarktis-szenario-koennte-sich-wiederholen-studie-zeigt-erschreckenden-eisverlust-in-der-92826010.html

16 https://de.euronews.com/2023/07/26/rekord-wassertemperatur-im-mittelmeer-liegt-bei-erschreckenden-287-grad

17 https://www.tagesschau.de/wissen/nordatlantik-temperaturen-100.html

18 https://www.tagesschau.de/ausland/amerika/klima-florida-meer-temperatur-100.html

19 https://www.geo.de/natur/klimawandel-spazzatura-zone-morte-sono-il-mare-ancora-da-saved–31916322.html

20 https://www.konicz.info/2022/06/21/hitzetod-in-der-klimakrise/

21 https://www.pik-potsdam.de/de/aktuelles/nachrichten/co2-emissionen-im-jahr-2023-auf-rekordniveau

22 https://www.kontextwochenzeitung.de/debatte/667/die-extreme-mitte-9310.html

23 https://www.klimareporter.de/klimaforschung/studie-findet-kipppunkt-der-atlantik-stroemunghttps://www.klimareporter.de/klimaforschung/studie-findet-kipppunkt-der-atlantik-stroemung

24 https://www.klimareporter.de/klimaforschung/studie-findet-kipppunkt-der-atlantik-stroemung

25 https://insideclimatenews.org/news/09022024/climate-impacts-from-collapse-of-atlantic-meridional-overturning-current-could-be-worse-than-expected/

26 https://www.exit-online.org/textanz1.php?tabelle=autoren&index=22&posnr=135&backtext1=text1.php

27 https://www.konicz.info/2023/09/06/unwort-klimagerechtigkeit/

domenica 25 febbraio 2024

Intanto in Europa ...

Libertà per la catena di approvvigionamento
- Il Partito Liberale Democratico Tedesco - Freie Demokratische Partei (FDP) - non si preoccupa delle condizioni in cui avviene la produzione al di fuori dell'Europa  -
di Tomasz Konicz

Ancora una volta, le associazioni imprenditoriali tedesche sono riuscite a far valere i propri interessi a livello dell'Unione Europea. Il voto relativo alla legge sulla filiera di approvvigionamento dell'UE, che avrebbe dovuto essere votato dal Consiglio dell'Unione europea il 9 febbraio dopo lunghi negoziati, è stato rinviato. Dopo che la Germania ha annunciato che non avrebbe approvato la legge, diversi paesi hanno cominciato a nutrire dubbi. Ragion per cui, non è stato più considerato sicuro che c’era una maggioranza a favore della legge. La direttiva, in cantiere da anni - prima di essere bocciata a causa di un'obiezione dei ministri dell'FDP - avrebbe dovuto imporre alle aziende europee i minimi standard di civiltà che sarebbero stati vincolanti per quanto attiene all'approvvigionamento di materie prime e alla fabbricazione di prodotti primari al di fuori dell'Europa, ed era già passata al vaglio del Consiglio europeo, della Commissione europea e del Parlamento europeo. L'astensione della Germania - che ha lo stesso peso che avrebbe un rifiuto - scaturisce da una divergenza all'interno della coalizione esplosa a gennaio. I ministri dell'FDP, Christian Lindner (Finanze) e Marco Buschmann (Giustizia), si sono espressi contro la nuova direttiva dell'UE, sostenendo che sarebbe stata dannosa per l'economia tedesca. Secondo il presidio del Partito Liberale Democratico Tedesco, la direttiva dev'essere considerata portatrice di un'eccessiva burocrazia e incertezza giuridica, che non può essere accettata a causa dell'attuale debolezza economica della Germania. Pertanto, i liberali si trovano completamente in linea con le associazioni imprenditoriali tedesche, le quali, secondo l'Handelsblatt, stanno "massicciamente" protestando contro la direttiva dell'Unione Europea. Christoph Werner, presidente del consiglio di amministrazione della catena di farmacie DM,  in un'intervista a N-TV, è arrivato persino a definire il progetto di legge come "intrusivo". Precedentemente, il ministro del Lavoro Hubertus Heil (SPD) e il ministro dell'Economia Robert Habeck (Verdi), che hanno appoggiato la legge UE, avevano invitato invano il cancelliere Olaf Scholz ad avvalersi della sua autorità di emanare direttive e imporsi. Anche il presidente della commissione per gli affari europei del Bundestag, Anton Hofreiter (Verdi), ha lanciato un appello in tal senso, mettendo in guardia circa quella che, per la Germania, sarebbe una perdita di prestigio europeo: «È inaccettabile che all'ultimo minuto la Germania si astenga ripetutamente riguardo quelle che sono delle importanti decisioni europee». Scholz deve impedire che in futuro accadano cose del genere, ha chiesto Hofreiter.

Ciononostante, il 7 febbraio, il Freie Demokratische Partei ha annunciato che avrebbe bloccato all'ultimo minuto anche un regolamento UE - che era stato pienamente negoziato - riguardante gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 per i camion e per gli autobus; e ciò significa che il voto, che veniva prima considerato come una mera formalità, all'ultimo momento ha dovuto essere rinviato. Tuttavia, anche i precedenti governi federali hanno perseguito una politica di ostruzionismo assai simile, basata sugli interessi. Ad esempio, nel periodo del cancellierato di Angela Merkel (CDU), per anni, i limiti di CO2 per le automobili sono stati attenuati a favore dell'industria automobilistica tedesca. Die Zeit, ha espresso la valutazione secondo cui l'approccio dell'FDP sarebbe stato conveniente per il cancelliere Scholz, dal momento che anche per lui la direttiva sulla filiera di approvvigionamento dell'UE si sarebbe spinta troppo in là. Scholz avrebbe ipotizzato che, così facendo, gli ostruzionisti liberali riuscirebbero ad ammorbidire la direttiva dell'UE a un punto tale da riuscire ad avvicinarla alla corrispondente legge tedesca sulla catena di forniture. La Germania ha già una legge sulla catena di approvvigionamento con cui l'economia tedesca riesce a convivere benissimo. Dopotutto, se da qualche parte, nel Sud globale, nel contesto di una catena di approvvigionamento, i bambini rimangono uccisi lavorando all'estrazione di materie prime, o se le distese di terra di intere regioni vengono avvelenate, la legge tedesca non fornisce, alle persone colpite, alcuna base per citare in giudizio, per danni, le aziende tedesche. Ma sarebbe questo, però, ciò che permetterebbe la direttiva UE, ha lamentato il Partito Liberale Democratico Tedesco. Carl-Julius Cronenberg - portavoce per le piccole e medie imprese nel gruppo parlamentare FDP - ha chiesto per l'economia tedesca, in un'intervista al quotidiano Handelsblatt un «Safe-Harbour-Regelung», che dovrebbe ridurre in maniera significativa la responsabilità civile delle aziende; cosa che renderebbe la direttiva UE sulla catena di approvvigionamento altrettanto inefficace della legge tedesca.

La legge tedesca sulla filiera di forniture - entrata in vigore nel 2023 - obbliga le aziende con almeno 3.000 dipendenti (e, da quest'anno con 1.000 dipendenti) a rispettare i diritti umani e gli standard ambientali, dove però questi "obblighi di diligenza" presentano molte lacune e scappatoie - soprattutto per quanto riguarda la biodiversità e la protezione del clima. Tuttavia, in caso di non conformità, l'Ufficio Federale per l'Economia e il Controllo delle Esportazioni può imporre delle multe a quelle società che generano ricavi miliardari. Le violazioni che prevedono una multa di almeno 175.000 euro possono arrivare addirittura a comportare l'esclusione dagli appalti pubblici. La scorsa settimana Lindner ha dichiarato a T-Online di voler rendere la legge tedesca sulla catena di fornitura ancora più flessibile.

- Tomasz Konicz -Pubblicato il 15/2/2024 su Jungle.World -

giovedì 22 febbraio 2024

L’edificio in rovina più alto del mondo !!

Del Boom, rimangono le rovine
- Il secondo gruppo immobiliare cinese, Evergrande, è in bancarotta e sta per essere liquidato -
di Tomasz Konicz

Più in alto! Più lontano! Ancora più veloce! L'inflazionato settore immobiliare cinese, continua a stabilire nuovi record, lo fa perfino nella fase in cui si sta ormai esaurendo. L'edificio in rovina più alto del mondo, il grattacielo Goldin Finance 117, alto 597 metri, sorge a Tianjin, nel nord della Cina, non lontano dalla capitale Pechino, ed è solo uno dei tanti grattacieli vuoti che trovi in Cina: dove oggi la più grande dinamica speculativa della storia del sistema capitalistico globale ha lasciato dietro di sé delle enormi città fantasma. Si parla di circa 65 milioni di appartamenti, tutti sfitti, e per i quali non ci sono acquirenti. Simultaneamente, i milioni di piccoli investitori che hanno pagato in anticipo i loro immobili, invece, continuano ancora ad aspettare il loro agognato condominio, dal momento che le società cui hanno affidato i propri soldi si sono trovati in difficoltà economiche ancor prima che gli immobili progettati potessero essere completati.

Il caso più famoso è quello di Evergrande, il secondo gruppo immobiliare cinese, il cui debito ha raggiunto la cifra record di 300 miliardi di dollari. Nel 2021, Evergrande ha presentato istanza di fallimento. Da allora, il gruppo ha però continuato a costruire appartamenti, solo che, tuttavia, non è più stato in grado di onorare i suoi debiti. Per anni Evergrande ha fatto parte di un gigantesco schema Ponzi: fino a che gli investitori anticipavano denaro, si poteva continuare ad avviare nuovi progetti di costruzione. Alla fine di gennaio, un tribunale di Hong Kong, la città dove Evergrande è quotata in borsa, ha dichiarato il fallimento della società insolvente. La causa era stata intentata da alcuni investitori stranieri che volevano recuperare almeno una parte del denaro che era stato preso in prestito dalla Evergrande. Tuttavia, non è ancora chiaro se la sentenza possa essere estesa anche alla Cina continentale, dove si trova la più parte delle proprietà di Evergrande. Il governo cinese è sotto pressione. Nell'affrontare la crisi immobiliare, deve perseguire due obiettivi contrastanti. Da un lato, in seguito alla sentenza del tribunale - come ha scritto la Neue Zürcher Zeitung - è in atto un'intensa «osservazione globale» al fine di capire se e come verrà tenuto conto delle richieste degli investitori stranieri. Nell'attuale situazione economica, e con la fuga di capitali, ora in aumento, il governo difficilmente potrà permettersi di alienarsi gli investitori stranieri. Tuttavia, una liquidazione del gruppo comporta però anche dei grossi rischi. Solo per Evergrande, ci sono quasi 100.000 dipendenti che potrebbero restare disoccupati; oltre a un numero assai superiore che riguarda i numerosi cantieri. E ci sono centinaia di migliaia di acquirenti di case che hanno già pagato, per avere un appartamento Evergrande, e che non l'hanno ancora ricevuto: che ne sarà delle loro richieste?

A partire da tutto questo, sembra pertanto improbabile che la sentenza di Hong Kong venga eseguita anche nella Cina continentale. È probabile invece che il Partito Comunista Cinese dia priorità al furioso esercito della classe media degli acquirenti cinesi di case - per i quali, rispetto agli investitori stranieri, il settore immobiliare è la forma di investimento più importante - e lo farà, ad esempio, mantenendo in vita Evergrande grazie a dei prestiti governativi. Nel complesso, il governo cinese sembra voler evitare un rapido scoppio della bolla immobiliare, preferendo favorire una deflazione lenta e graduale. Così facendo, finora è stato evitato un crollo del mercato immobiliare, dove ci sono già stati numerosi fallimenti di investitori, oltre che di imprese edili e di piccoli investitori, al prezzo di una crisi che ormai si trascina da anni e senza che se ne veda la fine.

Mercato immobiliare assurdamente inflazionato
Tuttavia,  per scatenare una "tempesta purificatrice", su un mercato immobiliare assurdamente inflazionato, potrebbe anche essere troppo tardi! Ciò è dovuto semplicemente alle dimensioni del settore edile cinese e ai capitali in esso investiti. Nel 2021, secondo l'economista statunitense Kenneth Rogoff, il contributo dato, dal settore edile e immobiliare cinese, al prodotto interno lordo cinese corrisponderà a circa il 29%. Al culmine del boom edilizio in Spagna, nel 2006, simile a quello della Cina di oggi, il contributo dato ammontava a circa il 28%, e in Irlanda era di circa il 22%. La bolla immobiliare è una delle conseguenze dovute ai giganteschi programmi di stimolo economico e alla forte crescita del credito del capitalismo di Stato cinese, come reazione alla crisi del 2007-2009, la quale oltretutto, per ironia della sorte, è stata a sua volta innescata dalla crisi immobiliare che c'è stata negli Stati Uniti e in Europa. Per promuovere la crescita, le banche statali cinesi hanno fornito sempre più prestiti per poter costruire infrastrutture e immobili. I governi locali, in particolare, hanno accumulato trilioni di dollari di debito. E tuttavia, ciononostante, per anni, anche le società immobiliari come la Evergrande hanno potuto prendere in prestito somme quasi illimitate, fino a che, nel 2018, per frenare la speculazione, il governo ha limitato i prestiti nel settore immobiliare. Per l'Evergrande e per molte altre imprese di costruzioni, è stato questo l'inizio del loro declino. Country Garden, ad esempio, il più grande gruppo immobiliare privato della Repubblica Popolare, in ottobre si è dichiarato incapace di onorare i suoi prestiti, e ha dovuto essere essere sostenuto dalle banche statali a forza di miliardi di dollari americani. Il debito di Country Garden equivale a 200 miliardi di dollari USA. L'agenzia di rating statunitense Moody's sta già tracciando un parallelismo con il periodo di stagnazione che ci fu in Giappone: i cosiddetti "decenni perduti", seguiti all'esaurirsi del boom immobiliare giapponese, all'inizio degli anni '90. L'economia in deficit della Cina, a quanto pare, si è evidentemente esaurita: le montagne di debito continuano a crescere, nel mentre che allo stesso tempo gli effetti economici si riducono sempre più. E tuttavia, il governo cinese non può permettersi che scoppi questa gigantesca bolla speculativa.

Le tendenze alla crisi cominciano ad apparire sempre più chiaramente
Ciò avviene perché, in generale, l'economia sta rallentando e le tendenze alla crisi stanno diventando sempre più manifeste. La disoccupazione tra i salariati con un'età compresa tra i 16 e i 24 anni, nel giugno 2023 si era attestata al 21,3%. A quel punto, il governo ha semplicemente smesso di pubblicare i dati ufficiali. Quello che sta avvenendo nelle borse cinesi, è un vero e proprio massacro dei prezzi: nel giro di un anno, l'indice CSI 1000 ha perso il 37% del suo valore, e questo fino a quando, all'inizio di febbraio, il governo è intervenuto promettendo un aumento dell'acquisto di azioni da parte dei fondi sovrani, in modo da far così salire di nuovo i prezzi delle azioni, almeno per il momento. In effetti, c'è da dire che il capitalismo di Stato cinese,  rispetto ai suoi concorrenti occidentali, ha maggiori possibilità di intervento economico: molto più capitale viene controllato dalle banche statali, o comunque, in altri modi, dallo Stato, che così può gestire maggiormente quelle aree in cui dovrebbero fluire gli investimenti. Ma ciò significa anche che nel frattempo, le bolle speculative - mentre viene ritardato il loro scoppio - possono diventare ancora più grandi, e il che aumenta i problemi, e allo stesso tempo ne prolunga la durata.

Per nascondere l'entità della crisi, sembra che ora le autorità cinesi abbiano ritrovato la strada per tornare a una vera e propria tradizione socialista, che, nella sua ultima fase, ha caratterizzato anche tutto il blocco orientale, e che consiste nell'abbellire il materiale e le cifre delle statistiche. Secondo il governo cinese, l'anno scorso, l'economia è cresciuta del 5,2%, raggiungendo così l'obiettivo di crescita del 5% fissato all'inizio dell'anno. Tuttavia, secondo il Financial Times, molte aziende che operano in Cina stanno ora mettendo in discussione i dati ufficiali sulla crescita. Secondo alcune di queste stime, la crescita economica in realtà sarebbe solo dell'1,5% circa. Quando il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha previsto per l'anno in corso un'economia peggiore di prima, e ha previsto anche una crescita più lenta nel medio termine (3,5% nel 2028), i funzionari cinesi hanno reagito "con indignazione", e hanno chiesto una "previsione più appropriata".

Lo scorso anno, Bloomberg aveva già riferito a proposito di simili discrepanze tra le cifre ufficiali e le indagini non ufficiali, per quanto riguardava l'andamento dei prezzi sul mercato immobiliare cinese. Secondo le statistiche governative, nonostante la crisi che ha colpito aziende come Evergrande, il mercato si sarebbe dimostrato "straordinariamente resiliente": tra il 2021 e l'agosto 2023, i prezzi dei nuovi appartamenti sarebbero scesi solo del 2,4%, mentre quelli delle proprietà esistenti sono diminuiti del 6,4%. Tuttavia, i dati che Bloomberg  ha raccolto dai portali e dalle indagini delle agenzie immobiliari mostravano un quadro ancora più cupo: secondo questi dati, anche nelle località privilegiate delle regioni metropolitane, come Shanghai e Shenzhen, i prezzi sarebbero scesi di "almeno il 15%". E la situazione è assai simile in "più della metà" delle principali città della Repubblica Popolare.

Anche quando si tratta di quantificare l'onere del debito della Cina, le opinioni divergono. Ciò è dovuto all'inaffidabilità dei dati, oltre che all'ampio settore delle cosiddette banche ombra, vale a dire, società finanziarie che non sono soggette alla vigilanza bancaria. L'unica cosa chiara è che il debito totale della Repubblica Popolare – il quale ha accumulato enormi riserve di valuta estera grazie alle eccedenze commerciali che vanno dagli anni '90 al primo decennio del XXI secolo – è aumentato assai più rapidamente di quanto, dal 2008/2009 in poi, abbia fatto la produzione economica . Secondo i dati ufficiali, tra il 2008 e il 2023, il debito della Cina è "raddoppiato", arrivando così a circa il 280% del PIL. Di conseguenza, le strategie utilizzate dal capitalismo di Stato cinese per far fronte alle tendenze alla crisi economica negli ultimi anni stanno per avvicinarsi sempre più al loro limite.

- Tomasz Konicz - Pubblicato su JUNGLE.WORLD il 15/2/2024 -

mercoledì 21 febbraio 2024

Le crisi multiple dello sfacelo capitalistico…

Insurrezione e Comunizzazione
- Ripensare l'emancipazione sociale radicale in una nuova era di catastrofi -
di Pablo Jiménez Cea

Viviamo in un'epoca di catastrofi che presto faranno impallidire quelle del XX secolo, dal momento che la civiltà del Capitale è sprofondata in una tale debacle socio-ecologica che ora sta manifestando in varie regioni del pianeta qual è il vero carattere di questa nuova era di catastrofi. A Gaza viene messo in atto un genocidio dove le forme più precise di distruzione di esseri umani, garantite dalla tecnologia iper-moderna, si intrecciano con i metodi più atavici del terrore: il più moderno, è anche il più arcaico, ha detto giustamente Guy Debord. Ma il fuoco del collasso della civiltà capitalistica si sta diffondendo, non solo sotto forma di guerra neo-imperialista e squadroni della morte della droga trasformatisi in potenze transnazionali, ma anche sotto una vera e propria combustione delle foreste, che viene attuata nel contesto dell'aggravamento del riscaldamento globale, il quale ha origine nella distruzione accelerata della natura da parte della produzione capitalistica di merci. Per questo si dice a ragione che Gaza è il mondo, dal momento che è lì che si incontrano, convergono e si giustappongono tutti gli elementi delle crisi multiple dello sfacelo capitalistico, mostrando così, in un punto ben definito del pianeta-capitale, qual è l'immagine esatta del sempre più vicino futuro collasso di questo modo di vita socialmente alienato. Ed è proprio per questo che non è affatto un caso che il 2023 si sia chiuso essendo stato, simultaneamente, tanto l'anno più caldo mai registrato quanto anche l'anno più violento dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. In realtà, è tutto il mondo che sta sprofondando in una violenza sempre più esacerbata. Le deboli barriere, che la stessa civiltà borghese aveva posto, davanti a sé, alla violenza scatenatasi dopo due guerre mondiali e dopo i processi di decolonizzazione, sono state alla fine abbattute, di nuovo, a Gaza. D'ora in poi, il vuoto discorso sulla democrazia e sui diritti umani, brandito dalle potenze centrali del neoimperialismo occidentale, avrà perso anche quel poco di senso propagandistico che poteva avere, e nemmeno i suoi sicofanti più entusiasti riescono più difenderlo. Ciò implica che finalmente è stata aperta la strada alla guerra globale totale; a una guerra mondiale, vera ed efficace, nel contesto della crisi della tarda civiltà industriale, a una guerra planetaria neo-imperialista tra i grandi blocchi di potenze capitaliste che oggi si confrontano, sempre più apertamente, nelle diverse regioni del pianeta. Ma non è tutto, laddove la sovranità dello Stato capitalista [*1] arretra, o tende a crollare come nel caso della Somalia, del Congo o di Haiti, ciò che viene raggiunta non è l'emancipazione, ma assistiamo a che il vuoto dello Stato venga ora occupato dalle nuove mafie transnazionali e dai loro squadroni della morte.

Ragion per cui, possiamo tranquillamente riformulare la famosa frase del prologo del Capitale; e dire pertanto che le regioni periferiche mostrano alle nazioni industriali avanzate quale sarà l'immagine del loro terribile avvenire. I casi dell'Ecuador - recentemente scosso dalla guerra tra il racket statale e quello parastatale - e del Messico, dove il narcotraffico si intreccia a tutti i livelli del tessuto sociale e diventa una potenza transnazionale, così come di tutta l'America Latina, sono in questo senso paradigmatici; ma lo è anche El Salvador con il suo nuovo modello di Principe che emerge nel corso di questa crisi: Nayib Bukele. Non dovrebbe perciò sorprendere che una crisi globale che, in condizioni capitalistiche, spinge centinaia di milioni di persone al limite della sopravvivenza, contestualmente alla più schiacciante accumulazione di ricchezza, ci spinga anche nelle braccia di un nuovo tipo di autoritarismo, il quale non promette ai suoi miseri cittadini di evitare la fame, bensì di evitare di essere uccisi a colpi di pistola. Dopo tutto, la variante progressista della sinistra ha fallito in tutto il mondo nella gestione del capitale e da nessuna parte appare un orizzonte emancipatorio che offra una reale alternativa alla catastrofe capitalistica. Probabilmente, da questo punto di vista, nessuno meglio di Walter Benjamin ha capito il modo in cui - nel corso del suo sviluppo storico - la rete della socializzazione capitalistica finisca per essere sempre più caratterizzata dalla disperazione e dalla catastrofe. E che, quindi, l'emancipazione sociale radicale non può consistere altro che nell'attivazione di quel freno di emergenza che possa fermare l'avanzata del movimento del capitale verso il completo auto-annientamento.

Il fatto che la fine logica del dispiegamento storico del capitale sia il completo auto-annullamento dell'umanità, è una conclusione terribile a cui si può arrivare, non solo comprendendo criticamente le dinamiche fondamentali del movimento del denaro in quanto capitale, ma anche esaminando attentamente le condizioni di esistenza che contraddistinguono la storia di questa civiltà. Ma cos'è questo freno di emergenza e come può permetterci di ripensare l'emancipazione sociale radicale? Qui di seguito sosterrò che la Teoria della Comunizzazione costituisce una preziosa autoriflessione teorica sulle possibilità radicali che emergono nelle lotte sociali contemporanee. Infatti, come vedremo, sono proprio le dinamiche contraddittorie delle forme sociali capitalistiche a permettere non solo la loro critica in senso teorico, ma anche la loro negazione pratica. La teoria della comunizzazione è quindi un'espressione della negatività presente nell'intero tessuto sociale capitalista. Ciò che mi interessa qui non è quindi fare un'apologia acritica di una particolare teoria - la teoria della comunizzazione - ma innanzitutto contribuire allo sforzo, ancora frammentario, di elaborare una teoria critica radicale a carattere autoriflessivo. Solo in un simile quadro, cioè in quello di una critica sociale radicale che intende sé stessa in quanto possibilità della medesima società da cui emerge, il dialogo con la teoria della comunizzazione ha senso. In tal senso, ciò che mi interessa qui è far luce sul carattere concreto dell'abolizione del valore - che costituisce, di fatto, la grande questione della teoria rivoluzionaria contemporanea - e, altresì, far luce sulla possibilità che emerga una pratica consapevolmente orientata alla soppressione delle forme sociali capitalistiche. In altre parole, il dialogo critico con la teoria della comunizzazione che intendo avviare in questa sede ha lo scopo di riflettere sulla possibilità di una critica pratica della socializzazione capitalistica. Ovviamente, un simile approccio implica che la teoria della comunizzazione non può essere considerata come il carattere definitivo dell'emancipazione umana, ma piuttosto come un momento frammentario di chiarimento sulle possibilità pratiche che si agitano all'interno dell'attuale fase storica della civiltà capitalistica. È soprattutto un'espressione delle reali potenzialità delle lotte contemporanee, ma non coincide di per sé con l'emancipazione sociale, quanto piuttosto rappresenta un momento della formazione contemporanea di una critica sociale radicale ancora allo stato frammentario. Ora, come si può già intuire, la possibilità di una critica pratica del capitale [*2] non è, ovviamente, il risultato di qualche teoria particolarmente brillante né della capacità analitica di menti particolarmente geniali - anche se la teoria come approfondimento presuppone lo sviluppo di alcune potenzialità soggettive [*3] - quanto piuttosto il risultato delle trasformazioni materiali e storiche della civiltà capitalistica avanzata e del conseguente sconvolgimento dell'intero tessuto della socializzazione. Come ogni persona interessata può scoprire da sé, la teoria della comunizzazione nasce proprio dopo le rivolte globali del 1968 e dopo l'emergere di una nuova qualità della lotta di classe rispetto alla quale si presupponeva la crisi, e il successivo crollo, del vecchio movimento operaio e di quella particolare configurazione del quadro di socializzazione capitalistica di cui quel movimento era parte integrante, fattore di modernizzazione, e al contempo possibilità di una sua critica immanente e di un suo superamento. La teoria della comunizzazione, ed è questo un aspetto che la rende una corrente di particolare importanza per la critica radicale contemporanea, si configura come una teoria autocosciente della propria determinazione storico-sociale: essa concepisce se stessa come un bilancio critico del fallimento dell'ondata rivoluzionaria del 1968-77 [*4], al contempo anche come costituzione di un nuovo paradigma della lotta di classe e dell'emancipazione sociale [*5]. Non entrerò nel merito delle divergenze teoriche che ho con la teoria della comunizzazione, in particolare la sua comprensione della storia della civiltà capitalista, la sua teoria dell'ideologia - specificatamente la Théorie Communiste - o il suo dialogo spesso tronco con le cosiddette "nuove letture di Marx", perché credo che il suo merito sia quello di insistere sul carattere pratico del movimento per l'abolizione del valore in quanto processo di auto-trasformazione della società che prevede la soppressione del proletariato. Nonostante il suo linguaggio necessariamente esoterico, la teoria della comunizzazione può e deve essere considerata a pieno titolo come una nuova lettura di Marx che generalmente sfugge all'ambito accademico, ma che condivide punti di convergenza fondamentali con diversi sforzi teorici sparsi per il mondo che hanno come orientamento primario la costituzione di una critica sociale radicale capace di diventare una forza materiale e storica finalizzata alla soppressione/superamento del quadro di socializzazione capitalista. Di conseguenza, non intendo qui fornire un riassunto dettagliato delle principali proposte della teoria della comunizzazione - essa stessa frammentaria, composta da vari collettivi e individualità aventi prospettive spesso divergenti - quanto piuttosto sottolineare la possibilità reale di un'insurrezione contro la forma dei relazioni sociali capitalistiche, un'insurrezione finalizzata a minare le forme sociali fondamentali che sostengono l'intero edificio della socializzazione capitalista. Inoltre, sosterrò che questa possibilità, lungi dall'essere un sogno teorico, è presente nello stesso tessuto sociale capitalista e che, di fatto, costituisce la dimensione radicale delle lotte di classe contemporanee, nonché il fondamento materiale dell'esistenza stessa della teoria della comunizzazione. Ciò significa che attuerò qui una riappropriazione critica della teoria della comunizzazione, nel senso di un'auto-chiarificazione resa possibile dalle recenti lotte e dal fallimento del loro potenziale di emancipazione, una riappropriazione che mira a mettere in luce il carattere pratico dell'abolizione del valore e ad orientare la discussione emancipatoria nella direzione della formazione di una forza sociale e storica capace di puntare consapevolmente verso la liquidazione delle forme che sostengono il quadro di socializzazione del capitale.

Comunizzazione
Quando Théorie Communiste dice che la rivoluzione è comunizzazione, intende dire che questa può avvenire solo in quanto processo di autotrasformazione materiale del processo sociale, nel cui svolgimento il valore - nella sua forma di relazione sociale - tende a essere praticamente liquidato, e che proprio da questa sua liquidazione il processo ne trae la sua forza. In parole povere, la comunizzazione designa un processo pratico di carattere collettivo attraverso il quale la forma capitalistica delle relazioni sociali viene abolita di fatto, vale a dire, abolendo lo scambio di merci, il valore, il denaro, il lavoro, il capitale e, naturalmente, lo Stato - il cui fondamento è proprio la forma capitalistica delle relazioni sociali - nonché il patriarcato, nella misura in cui le relazioni capitalistiche non sono neutre dal punto di vista del genere, e la loro abolizione costituisce anche l'abolizione del genere, socialmente prodotto da questa civiltà. La teoria della comunizzazione, in tutte le sue varianti, ha sempre insistito sulla possibilità dell'immediatezza del comunismo [*6], ossia sulla possibilità dell'immediata produzione di un modo di vita socialmente emancipato, attuata a partire da una rottura pratica con il sistema di socializzazione capitalista, la quale nasce da quella stessa rete di socializzazione sotto forma della sua critica immanente nei fatti. Evidentemente, il solo fatto di ammettere questa possibilità costituisca di per sé il risultato di un processo storico di civilizzazione capitalistica, una trasformazione materiale della relazione di capitale in cui ora l'emancipazione sociale non avviene più sulla base dell'affermazione del proletariato come classe - cosa che a sua volta implicava anche l'affermazione del capitale [*7] - ma attraverso la sua negazione, la sua messa in discussione proprio in base alla sua stessa azione in quanto classe dentro la socializzazione capitalistica. È vero che il comunismo è stato possibile già fin dal 1848, come diceva Amadeo Bordiga, ma lo è stato sulla base di un'affermazione del proletariato in quanto classe. Con questo, naturalmente, non intendo dire che l'abolizione della società di classe fosse impossibile nell'arco storico in cui la lotta di classe si svolgeva nel quadro della realtà del movimento operaio. Al contrario, intendo sottolineare che l'emancipazione sociale radicale non costituisce una sorta di invariante storica, ma rappresenta piuttosto il risultato di una produzione storica reale che si verifica all'interno del metabolismo sociale capitalistico. Lungi dal costituire un'astrazione immutabile - che esisterebbe al di fuori del movimento reale come se fosse un ideale normativo - l'emancipazione sociale si sviluppa sempre sulla base del dispiegamento storico di una dialettica della merce propria della civiltà capitalista - e quindi della lotta di classe. La lotta di classe del movimento operaio, è stata l'emancipazione possibile in un determinato momento storico della civiltà capitalistica. Il consiglio [il soviet], l'autogestione, lo sciopero generale di massa, la presa del potere, ecc. costituivano la forma pratica di questa possibile emancipazione, e lo erano nella misura in cui, all'interno della relazione di capitale (il rapporto di classe tra capitale e classe salariata che è il fondamento della valorizzazione del valore), l'auto-emancipazione del proletariato poteva avvenire solo nella forma di un'affermazione della classe. Infatti, nel processo storico di transizione dal dominio formale a quello reale del capitale, la lotta della classe operaia ha dovuto necessariamente assumere il contenuto e la forma della sua affermazione come classe di capitale all'interno della socializzazione del capitalista; poiché la sua lotta contro il capitale era determinata dalla riproduzione della classe operaia in quanto momento necessario della riproduzione estesa del capitale. Oggi, nella transizione globale verso la quarta rivoluzione industriale, la situazione è radicalmente diversa, dal momento che la riproduzione della classe operaia globale non è più un presupposto necessario alla riproduzione estesa del capitale, che invece ha politicizzato in maniera scientifica tutto l'intero processo di produzione di merci, e dipende sempre meno dal dispendio immediato di lavoro umano astratto misurato dal tempo; e tutto questo si esprime, tra l'altro, nella produzione di enormi masse di popolazione che sono superflue al capitale, così come nella lumpenizzazione della classe operaia. Ciò equivale a dire che ogni movimento di contestazione sociale radicale all'interno della civiltà capitalistica emerge come una critica immanente di questa forma alienata di interdipendenza sociale, vale a dire, emerge da e in contraddizione con queste forme di socializzazione. Tuttavia, voglio sottolineare che è il carattere contraddittorio di queste forme a costituire una condizione di possibilità per una critica sociale radicale. Se la forma merce fosse la forma ultima della riproduzione sociale, se coincidesse pienamente e identicamente con i soggetti di questa socializzazione - e nella sua ultima fase teorica Jacques Camatte suggerisce esplicitamente, e a torto dal mio punto di vista, che questa identità si è realizzata come Antropomorfosi del capitale [*8] - ecco che allora non sarebbe semplicemente possibile né la critica né la negazione pratica di questa forma storicamente specifica di relazioni sociali. Al contrario, dal momento che invece la forma merce, come forma specifica di ricchezza capitalistica, è di per sé contraddittoria - essa è simultaneamente sia ricchezza materiale che ricchezza astratta [*9] - ecco che pertanto è nel suo stesso dispiegarsi storico che si trova contenuta la possibilità della sua critica e del suo superamento.

Di conseguenza, il comunismo non è un ideale normativo e neppure un'essenza invariante che deve essere realizzata, bensì la forma necessaria dell'emancipazione sociale che si produce storicamente [*10]. La critica marxiana dell'economia politica postula la possibilità del comunismo in quanto critica immanente delle relazioni sociali capitalistiche, però tale rottura è essa stessa produzione storica all'interno di questo tessuto di socializzazione. L'emancipazione sociale radicale in quanto comunizzazione implica, pertanto, che oggi le lotte sociali attuali, e pertanto la guerra di classe, abbiano come loro forma necessaria la produzione immediata di relazioni sociali emancipate, una produzione la cui condizione di possibilità risiede nell'enorme tempo storico oggettivato dall'attività produttiva umana sottoposto al regime di saccheggio e di sofferenza proprio della produzione di merci. Ciò significa che la riappropriazione del tempo storico da parte delle masse salariate - che per Marx, nei Grundrisse, non è altro che il contenuto stesso dell'emancipazione radicale - non avviene su un terreno immobile e sempre uguale a sé stesso, ma trova sempre la sua condizione di possibilità nella dinamica storica della produzione capitalistica e, in particolare, della relazione di capitale.In questo senso, quando penso alla comunizzazione alla stregua di una critica pratica dell'economia politica, parlo di un movimento in atto che nega la forma capitalistica della ricchezza sociale per far emergere la ricchezza come tempo disponibile, come emancipazione del tempo di vita rispetto alle relazioni capitalistiche. Tuttavia, ciò non sarebbe possibile se il risultato ultimo della produzione capitalistica, ossia la produzione di plusvalore, non fosse simultaneamente anche la produzione di tempo libero storico il quale viene oggettivato come plusvalore, ma che può esistere come tale, e rimanere tale come tempo libero oggettivato accumulato come capitale, solo nella misura in cui la riproduzione estesa del capitale viene continuamente realizzata; Detto in altri termini, la forma capitalistica della ricchezza - la ricchezza astratta, il valore - può rimanere tale solo nella misura in cui essa viene continuamente ricostituita attraverso un dispiegarsi storico contraddittorio in cui all'interno è contenuta la possibilità della sua negazione. Ciò implica, ovviamente, che per ricostituirsi continuamente, il capitale deve perpetuare il proletariato in quanto tale rinnovando continuamente la scissione dei produttori nei confronti dei mezzi di riproduzione sociale - compresa la terra - ossia rinnovando continuamente la loro dipendenza e condizione di miseria nei confronti del capitale.

Come sempre, una digressione di Marx sulla ricchezza apporta un'enorme chiarezza riguardo la questione:
«Ma, in fact, una volta cancellata la limitata forma borghese, che cosa è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti delle forze produttive, ecc, degli individui, creata nello scambio universale? Che cosa è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato? Nella quale l’uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la propria totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire? Nell’economia politica borghese — nella fase storica di produzione cui essa corrisponde — questa completa estrinsecazione della natura interna dell’uomo si presenta come un completo svuotamento, questa universale oggettivazione come alienazione totale, e la eliminazione di tutti gli scopi determinati unilaterali come sacrificio dello scopo autonomo a uno scopo completamente esterno. Perciò da un lato, l’infantile mondo antico si presenta come qualcosa di più elevato;e dall’altro lato esso lo è in tutto ciò in cui si cerca di ritrovare un’immagine compiuta, una forma, e una delimitazione oggettiva. Esso è soddisfazione da un punto di vista limitato; laddove il mondo moderno lascia insoddisfatti, o, dove esso appare soddisfatto di se stesso, è volgare.» (Karl Marx, Grundrisse)

In effetti, per comunizzazione si potrebbe intendere il movimento pratico, insurrezionale, nel quale la ricchezza viene spogliata della sua limitata forma borghese. Tuttavia, questa possibilità è racchiusa nella forma stessa della merce, nel duplice carattere di questa forma storicamente specifica della ricchezza e del lavoro che la produce. Certamente, nella misura in cui la merce è al contempo ricchezza materiale e ricchezza astratta, al centro di questa forma e del suo carattere costitutivo si trova la non-identità. In altre parole, se sono possibili la critica della merce e la sua negazione pratica, ciò è dovuto al fatto che la forma merceologica della ricchezza sociale non è identica a tale ricchezza, perché solo in determinate condizioni sociali, materiali e storiche i prodotti della produzione umana assumono la forma del valore, sebbene questa non sia affatto la loro forma ultima. Diversamente, non sarebbe nemmeno possibile pensare al suo superamento.Di conseguenza, se oggi l'emancipazione sociale radicale si presenta come comunizzazione, ciò è dovuto in primo luogo alle trasformazioni reali del contemporaneo dispiegarsi storico della dialettica della merce - la quale include, al suo interno, la relazione di classe - una dialettica, questa, che può certamente svilupparsi solo attraverso la continua ricostituzione della riproduzione sociale nella sua forma capitalistica - la quale implica una continua ristrutturazione della relazione di classe. Lungi dall'essere una forma indistruttibile, come ci appare, l'intera rete della socializzazione capitalista è attraversata dalla negatività: la sola esistenza della sofferenza e del dolore irrazionale, che questa forma di relazioni sociali provoca, indica la possibilità, e la necessità, che questo supplizio debba cessare e che sia possibile un'altra forma, non alienata, di interdipendenza sociale. E la necessaria forma storica di questo potenziale è l'insurrezione intesa come comunizzazione, e quindi come abolizione della condizione proletaria [*11]. Il processo di comunizzazione, la produzione diretta di una società senza classi nel corso di un processo di autotrasformazione sociale, non può essere altro che insurrezionale, dal momento che esso rappresenta il movimento pratico che sovverte la dinamica della riproduzione sociale del capitale. La comunizzazione, pertanto, attacca la forma stessa in cui l'accumulazione capitalista si autoriproduce e si perpetua in modo allargato. Ciò significa che la comunizzazione, in quanto movimento insurrezionale, non è solo un movimento volto a sopprimere la forma capitalistica delle relazioni sociali, ma è anche la comparsa materiale di un'altra forma di riproduzione sociale che nasce nella negazione pratica del capitale.

Come può essere possibile tutto questo? Certo, nel capitale tutto è prassi, ma lo è nel senso di una produzione reciproca: della società, da parte dei soggetti, e dei soggetti da parte della società. Il movimento globale del capitale è il movimento globale della prassi alienata, e sempre più autonomizzata, della specie umana, nel quadro di un metabolismo della riproduzione sociale storicamente specifico; una prassi sociale che tende a rendersi sempre più relativamente autonoma rispetto agli esseri umani, e che esercita su quest'ultimi un dominio universalizzante. La comunizzazione diventa possibile, se vista come l'apertura di quella breccia che si produce a partire dalla contraddizione intrinseca alle forme sociali capitaliste i quella che è l'attuale fase di crisi della civiltà del lavoro. Ciò significa che il processo di comunizzazione si origina a partire dalle forme sociali capitalistiche, e in contraddizione con esse. Non mi stancherò mai di sottolineare come, alla catastrofe capitalistica, non esiste alcuna alternativa emancipatrice che dovesse emergere da un'esternalità rispetto a quella forma di socializzazione, o a partire dalla pura volontà: la possibilità di una negazione pratica del capitale è solo il risultato delle brecce che si aprono nel corso del suo stesso movimento contraddittorio.
Ma in cosa consistono questi squarci? Sono i punti di apertura all'interno della relazione di capitale che rendono possibile la rottura con la socializzazione capitalista che emerge all'interno della sua stessa dinamica contraddittoria.  La Théorie Communiste ha detto qualcosa di fondamentale a riguardo, perché se il proletariato può agire solo come classe di questo modo di produzione, e agire rigorosamente come classe di capitale per poter esistere come tale, in che modo allora può abolire le classi e produrre emancipazione sociale? Risposta: proprio perché agire rigorosamente come classe mette in discussione la sua stessa riproduzione come classe, ed è proprio questo lo strappo: la messa in discussione della propria condizione di classe agendo come classe. Proprio qui troviamo simultaneamente sia i limiti sia le potenzialità sovversive delle lotte contemporanee, dal momento che in esse vediamo effettivamente aprirsi delle brecce in cui le masse insurrezionali potrebbero potenzialmente rompere con la condizione proletaria, tuttavia rafforzano e ricostituiscono anche la loro condizione di classe attraverso la propria attività pratica e attraverso le rivendicazioni - salariali, tra le altri cose - che ne sono il corollario. Pertanto, il compito di una teoria critica radicale è quello di generare le condizioni di possibilità per lo sviluppo autonomo della stessa pratica collettiva, non tanto dicendo ciò che deve essere fatto, ma mostrando attivamente quali siano in un dato momento i limiti della prassi, così come il risvolto attraverso il quale essa tende a ricostituire le relazioni sociali capitalistiche sconvolte dal movimento sovversivo - tutto ciò, come è ovvio, ci rimanda al terreno di mediazione tra la critica radicale e il movimento reale, vale a dire al problema della prassi materiale che deve essere dotata dei mezzi necessari a renderla efficace. Per inciso, questo significa che le cosiddette "minoranze rivoluzionarie" e le individualità che si dedicano alla critica sociale radicale - con maggiore o minore rigore, occorre dirlo - sono semplicemente espressione delle possibilità emancipative che si annidano nell'oggettività della società capitalistica. Il genio di Karl Marx non è consistito tanto in una mente brillante e particolarmente dotata, quanto nello sviluppo di una teoria auto-riflessiva sul proprio condizionamento socio-storico, sulla sua propria determinazione a essere possibilità dell'oggetto stesso che critica, ovverosia il capitale. È questa la fonte della sua permanente attualità in quanto critica immanente della socializzazione capitalistica, un'attualità che rimarrà valida finché continuerà a esistere l'oggetto della sua critica. Questo vuol dire anche che la prospettiva che qui espongo ha un carattere storicamente determinato e che la sua validità può avere senso solo in quanto possibilità della crisi della civiltà capitalistica, ma non si può in alcun modo estendere al di là di queste circostanze che la determinano. In altre parole, l'emancipazione sociale vista come comunizzazione, ovvero il freno d'emergenza che è simultaneamente sia una critica agli eventi della socializzazione del capitale sia la produzione di un modo di vita socialmente emancipato, rappresenta la forma necessaria di arresto della catastrofe del capitale in questo particolare momento storico, ma non è in alcun modo una garanzia di successo, né tantomeno la forma definitiva dell'emancipazione sociale. Al contrario, come si vedrà nella prossima parte di questo lavoro, oggi le possibilità di critica e di superamento emancipatorio del collasso capitalistico appaiono sempre più compromesse.Tuttavia, risulta necessario approfondire ulteriormente la concretezza del processo di comunizzazione, anche se nel farlo bisogna riconoscere i propri limiti, che sono anche il risultato della rete di ottenebramento prodotta dalla socializzazione capitalistica: non può esistere una ricetta generale da seguire per l'emancipazione umana, in quanto essa ha la sua condizione di possibilità proprio nelle lacune della socializzazione capitalista, le quali sono comunque riscontrabili nell'intera oggettività del tessuto sociale anche se non sono identiche, pur rispondendo agli stessi presupposti, ossia le forme sociali fondamentali della modernità capitalista: il valore, la merce, il lavoro, il denaro, il capitale, ecc.

Innanzitutto, il processo di comunizzazione, per essere tale, deve tendere a sopprimere la condizione proletaria. La valorizzazione del capitale, che costituisce l'obiettivo trainante di tutta la cieca traiettoria storica della produzione capitalistica, può essere realizzata solo per mezzo dell'accumulo di plusvalore, ovvero di tempo di lavoro in eccesso che viene strappato senza alcuno scambio di valore equivalente con la classe operaia globale. Di conseguenza, la merce come forma strutturante di base della civiltà capitalista non può essere compresa senza il plus-lavoro in essa contenuto [*12]. Di fatto, nella produzione capitalista ogni merce è costituita dalla materializzazione del tempo di lavoro in eccesso, del plus-lavoro forzato della classe salariata. In questo modo, la classe operaia è configurata, come dice Theorie Communiste, alla stregua di una merce, come il fondamento reale della riproduzione allargata del capitale. Di conseguenza, la critica concreta della rete di socializzazione del capitale richiede l'interruzione della relazione di capitale, mettendo in discussione la riproduzione della classe salariata in quanto classe salariata, e questo presuppone la necessaria trasformazione della riproduzione sociale su basi non mediate dalle forme sociali capitalistiche - e quindi la libera distribuzione dei beni come prima tappa pratica del processo insurrezionale. In parole povere, questo presuppone che l'insieme delle masse proletarizzate - compresi, ovviamente, i disoccupati, i lumpenizzati, i precari, ecc. –  possono riprodurre la loro materialità  fisica senza la mediazione del lavoro, del denaro o della forma merce. Come vediamo, tirare il freno d'emergenza non richiede solo la produzione di una rottura - il momento dello scatto insurrezionale della rivolta, del saccheggio, della distruzione dell'infrastruttura del capitale [*13] - bensì richiede il re-indirizzamento di quella che è la riproduzione sociale nella sua forma capitalistica. Pertanto, il processo di comunizzazione è impensabile senza l'appropriazione collettiva dei mezzi di riproduzione sociale,vale a dire, dei cosiddetti mezzi di produzione. Tuttavia, sebbene l'appropriazione e la socializzazione dei mezzi di produzione sia stato un argomento fondamentale del ricettario leninista della rivoluzione, bisogna dire che la semplice appropriazione dei mezzi di produzione, da parte delle masse salariate, non implica necessariamente il superamento del capitalismo in quanto tale. Infatti, come nel caso dell'URSS, il capitalismo può essere ricostituito proprio sulla base dell'appropriazione dei mezzi di produzione da parte delle masse salariate. Ciò che è essenziale, però, è la forma della riproduzione sociale, e la forma capitalistica delle relazioni sociali continua a essere perfettamente compatibile con l'appropriazione proletaria dei mezzi di produzione. Inoltre, i mezzi di produzione esistono attualmente in una forma oggettiva che ci è stata lasciata in eredità dal capitale, una forma che è modellata dall'obiettivo trainante di tutte le dinamiche sociali attualmente esistenti: la valorizzazione del valore.

Non si tratta di appropriarsi delle industrie e riprodurre lì i rapporti che fanno esistere l'industria in quanto tale, ma di riappropriarsi della prassi sociale materializzata in questi mezzi, e riorientare la riproduzione sociale su nuove basi: la soddisfazione diretta dei bisogni umani, la produzione di tempo libero. Del resto, un'enorme quantità di macchinari e industrie è terribilmente dannosa, inquinante e oggettivamente distruttiva delle condizioni biofisiche della vita sul pianeta, il che implica che un processo insurrezionale di successo dovrà smantellare l'intera infrastruttura di devastazione e allo stesso tempo riuscire a garantire la sopravvivenza delle persone attraverso una nuova riproduzione sociale che abbia come obiettivo una crescente abbondanza di tempo - e quindi di ricchezza materiale. Pertanto, un'appropriazione in senso emancipatorio dei cosiddetti mezzi di produzione, che includa tra l'altro la riappropriazione del nostro rapporto con la terra su una nuova base sociale, richiede necessariamente la rottura con il suo carattere di capitale, e questo presuppone che nel corso del processo insurrezionale la produzione venga reindirizzata verso la soddisfazione diretta dei bisogni umani. Dopo tutto, non si può vivere di saccheggio, dal momento che il saccheggio, nella sua forma capitalistica contemporanea (come appare nelle rivolte degli ultimi due decenni), presuppone una produzione sovrabbondante di merci. Inoltre, nessuno si impegnerà in una rivoluzione che non riesca a mettere il pane in bocca alla gente - basti pensare al clamoroso fallimento del potenziale emancipativo della rivolta del 2019 in Cile - e pertanto un processo insurrezionale che non riesce a riorientare la produzione sociale su altre basi è destinato a essere sconfitto istituzionalmente dal potere inerziale dei rapporti sociali capitalistici, dapprima; e da una violenta contro-insurrezione volta a impedire il riemergere di una rivolta diffusa, poi. In assenza di reali orizzonti alternativi, le masse salariate torneranno a correre tra le braccia dell'istituzionalità del capitale, anzi, vorranno con tutte le loro forze il ritorno alla normalità, la protezione dello Stato, e sputeranno sulla loro recente ribellione. Infatti, qualsiasi ribellione all'interno del capitalismo può trasformarsi rapidamente in una ribellione conformista - in un rafforzamento della socializzazione capitalista - attraverso la violenza di massa. Anche in questo caso, il periodo successivo alla rivolta in Cile è paradigmatico, in quanto le condizioni sociali, oggi, sono ancora peggiori di quelle che hanno dato origine alla rivolta, ma lo spettro sociale sembra essersi spostato verso prospettive reazionarie. Permettere l'emergere e il dispiegarsi del potenziale emancipatorio suscitato dalle lotte sociali contemporanee richiede di sostenere l'apertura dei varchi nella relazione capitalistica, che presuppone necessariamente una prassi orientata alla riappropriazione materiale del tempo alienato e dei mezzi di riproduzione sociale. La rivolta in Cile, come quelle di altri Paesi, ha fallito proprio in questo salto qualitativo dall'insurrezione generalizzata all'emancipazione sociale radicale, e il superamento di questa impasse risiede nella prassi sociale contraddittoria di questi movimenti e nella possibilità di spingere consapevolmente il loro potenziale emancipatorio. Su questo punto, la teoria della comunizzazione ha indicato la necessità delle cosiddette "misure comuniste" [*14], vale a dire, la forma concreta di attività pratica attraverso la quale la socializzazione capitalistica viene soppressa e, insieme a essa, il proletariato in quanto forza lavoro vivente da risucchiare nella carestia del plus-lavoro di cui il capitale si autoalimenta. La produzione di un'altra forma di socializzazione, una forma di interdipendenza umana emancipata, consiste nella moltiplicazione e nella generalizzazione degli atti che, nel corso della lotta, permettono inizialmente di indebolire le forme sociali capitalistiche - e poi di sopprimerle - rendendo possibile l'adesione alla lotta dei diversi gruppi sociali, e minando la forza della reazione  politico-militare organizzata nello Stato e nei suoi agenti. Non si può abolire immediatamente il quadro di socializzazione capitalistica, ma si può avviare una prassi che ne metta immediatamente in discussione i fondamenti. In questo senso, anche se prima ho detto che non può esistere una ricetta generalizzata per la produzione cosciente del comunismo, si potrebbe dire che il motto secondo cui «che nessuno soffra la fame» riassume qual è il contenuto di una misura comunista fondamentale per la continuità dell'insurrezione e in cosa consiste il suo rafforzamento nel corso del suo svolgersi. Solo le misure comuniste concrete che consentono di orientare la riproduzione sociale verso la soddisfazione diretta dei bisogni, e verso la produzione di tempo libero, possono consentire al processo insurrezionale di sostenersi, di espandersi e infine di trionfare.  In questo senso, la massima marxiana «l'insurrezione è un'arte», dovrebbe essere ripresa a partire da una nuova base: nel nostro caso, l'insurrezione è l'arte di far fiorire il tempo emancipato, di liberare il tempo vivente - la prassi sociale vivente dell'umanità - dal suo guscio capitalista.

PS: Questo è il primo di una serie di scritti che sto meditando da tempo. L'obiettivo principale di questi testi è contribuire alla formazione di una critica sociale radicale capace di diventare una forza storica materiale ed efficace. Di per sé, naturalmente, non avranno altro che un valore letterario, e la condizione per il loro successo in senso emancipatorio sarà solo la loro capacità di diventare un dialogo autoriflessivo con il movimento reale. Il prossimo intervento si chiamerà «I limiti e le possibilità della critica», in cui intendo sviluppare la crescente difficoltà, da parte della critica, a diventare prassi sociale emancipatrice, cercando di svelare le possibilità che ha l'emergere di un movimento radicale nel corso del processo catastrofico dello sfacelo socio-ecologico della civiltà capitalista; uno sfacelo che è, naturalmente, anche lo sfacelo dei suoi soggetti. Sebbene, all'interno della corrente che ha aspirazioni radicali, attualmente ci sia un rifiuto di qualsiasi teoria critica della soggettività - e questo proprio perché mette in discussione quelle che sono proprio le sue stesse posizioni - essa rimane come una condizione necessaria per una critica sociale radicale (...)

Pablo Jiménez Cea, Messico/Cile, febbraio 2024.

Note

[1] Andrebbe detto semplicemente che ogni Stato è capitalista, ma in questi tempi di offuscamento l'esigenza della precisione nel discorso non viene mai enfatizzata abbastanza: anche queste sono armi nella lotta per l'emancipazione sociale radicale.

[2] Il concetto di critica pratica del capitale o dell'economia politica, è stato ripreso da un breve paragrafo de "La sostanza del capitale", di Robert Kurz: «I libri di testo dell'ex blocco "socialista" continuano a riferirsi, seriamente e senza compromessi, a una "economia politica del capitalismo" e a una "economia politica del socialismo", anziché concepire e adottare il socialismo come critica pratica dell'economia politica in quanto tale» (p. 59). Tuttavia, questo paragrafo non è stato sviluppato, e nel resto del libro non c'è nessun altro ulteriore riferimento a tale problema. Del resto, la prospettiva di una critica pratica dei rapporti sociali era già stata avanzata dall'Internazionale Situazionista, e in particolare da Guy Debord ne "La società dello spettacolo".

[3] «La teoria è la forza dell'Io», direbbe Adorno.

[4] Cfr. Jasper Bernes, "Some Stories About Communization": https://translatoriac.noblogs.org/jasper-bernes-algunos-relatos-sobre-la-comunizacion_01/

[5] Su questo, si veda "Dall'Ultra-sinistra alla teoria della Comunizzazione" di Théorie Communiste, al seguente link: https://drive.google.com/drive/folders/1NtviJ3AikLVd1qHPcssbcZnQun6Dvac8

[6] Qui, intendo il "comunismo" visto in maniera negativa, vale a dire, come un modo di vita sociale e di interdipendenza umana nel quale sono state abolite le classi sociali, i rapporti sociali capitalistici e lo Stato. Per quanto si siano viste intere nazioni, e persino superpotenze mondiali come l'URSS, dichiararsi "comuniste"; si è sempre trattato, piuttosto, di rami alternativi della modernità capitalistica guidati dal movimento operaio e dalla sua controrivoluzione storica.

[7] È questa determinazione materiale e storica della prassi del movimento operaio - in quanto emancipazione sociale, resa possibile dall'affermazione del proletariato come classe - ad aver simultaneamente costituito anche il fondamento della controrivoluzione globale che lo ha liquidato. In realtà, che la controrivoluzione sia venuta dalle organizzazioni stesse del proletariato, e che le nazioni capitaliste siano emerse dalla lotta di classe rivoluzionaria, si basa sul fatto che l'affermazione del proletariato in quanto classe doveva necessariamente implicare anche l'affermazione del capitale, e quindi il quadro della socializzazione capitalistica poteva essere ricostituito solo proprio da quelle stesse organizzazioni operaie.

[8] Di Camatte, si veda "Wandering of Mankind" al seguente link: https://archivesautonomies.org/IMG/pdf/gauchecommuniste/gauchescommunistes-ap1952/invariance/espanol/errancia-humanidad-1973.pdf

[9] Sul carattere non identico della forma merce, non c'è riferimento migliore di quello al primo capitolo del Capitale. Su questo duplice carattere della merce e del lavoro produttore di merci, Marx dirà che proprio nell'apprendere tale non-identità sta «tutto il segreto della concezione critica» (Lettera di Marx a Engels, Manchester, 1868).

[10] Per una critica delle prospettive normative dell'emancipazione sociale, si veda: https://endnotes.org.uk/translations/theorie-communiste-historia-normativa-y-esencia-comunista-del-proletariado

[11] Il che equivale a dire che l'abolizione della società di classe (nella misura in cui tutte le altre classi sociali del sistema di produzione capitalistico sostengono la sua riproduzione grazie al plus-tempo del lavoro oggettivato come plus-prodotto; plus-prodotto che poi si converte in capitale)  è il risultato del saccheggio del plus-tempo attuato da parte della classe salariata globale.

[12] Su questo, si veda Il Capitale. Libro VI (inedito). "Risultati immediati del processo di produzione capitalista", p. 109.

[13] Di questo ne parlerò nel III scritto di questa serie di documenti.

[14] Si vedano le "Misure comuniste" di Leòn de Mattis al seguente link: https://colectivobrumario.wordpress.com/2015/12/22/las-medidas-comunistas-leon-de-mattis/


fonte: Nec Plus Ultra