Ci hanno sempre ripetuto che il lavoro è ciò che ci definisce, il fondamento della nostra dignità di esseri umani. E allora perché, in tutto il mondo, sempre più persone si dimettono? Negli ultimi anni abbiamo avuto diverse occasioni per chiederci se la vita che stiamo vivendo è quella che vogliamo vivere. Per molti la risposta è stata no. Questo perché è cresciuta l'indisponibilità a sottostare a regole tossiche e vessatorie che numerosi contesti lavorativi impongono. A partire dal vissuto delle lavoratrici e dei lavoratori – soprattutto in Italia – Francesca Coin analizza le ragioni della crescita di una tendenza del tutto inattesa, e mostra come oggi dimettersi significhi non solo impedire alle condizioni di sfruttamento di deteriorare la nostra salute e le nostre relazioni, ma anche riconquistare tempo per noi stessi e per la nostra vita.
(dal risvolto di copertina di: Francesca Coin, "Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita". Einaudi, pagg. 288, € 17,50)
Great Resignation
- Se lasciare il lavoro diventa un paradigma -
di Alberto Orioli
«Che senso ha lavorare per pagare l’auto per andare a lavorare?». È la scritta su un muro di Roma Sud che Francesca Coin, sociologa docente a Lugano, ripropone nel suo “Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il modo di riprenderci la vita”. E come spesso capita agli slogan di popolo coglie il punto. Il Covid ha portato la grande strage di anziani, le guerre ideologiche sui vaccini ma anche alcune «epifanie pandemiche» (Anthony Klotz) tra cui la principale è la percezione nuova del valore del tempo per sé e la famiglia. Diventato improvvisamente superiore a quello del tempo dedicato al lavoro. Da qui le grandi dimissioni. Da qui una sorta di nuova lotta di classe disegnata da Francesca Coin tra chi sta mettendo in atto, con gli abbandoni del lavoro, una sorta di sciopero generale non formalizzato preferendo il tempo della propria vita (suggestione raccontata dall’ex ministro di Bill Clinton, Robert Reich) e chi vorrebbe mantenere lo schema del lavoro soggiogato alla «trappola della passione» slegata da dinamiche salariali conseguenti. E sarebbero soprattutto le banche centrali e la loro strategia di stretta monetaria contro l’inflazione, legata alla tradizionale paura della spirale prezzi-salari-prezzi, che oggi però è semmai (nella interpretazione di Reich e Coin che trova però anche qualche voce nella Bce non colta nel libro) legata alla spirale prezzi-profitti.
Coin analizza con dovizia di dati e con moltissime interviste sul campo il fenomeno della Great Resignation. E ciò che più colpisce è che quasi il 50% di chi abbandona il lavoro non ha una immediata alternativa. Tuttavia le storie che raccontano le imprese nei territori italiani dove c’è piena occupazione (e non a caso i picchi di grandi dimissioni sono lì) dicono anche che l’alto tasso di turnover è legato a continui passaggi di azienda da parte di lavoratori che, a ogni cambio, aumentano le loro retribuzioni. È interessante l’esplorazione del sentimento di frustrazione e di inutilità rispetto a lavori sottopagati o troppo stressanti (che è l’oggetto principale del volume) ma è poco analizzata la consapevolezza del proprio valore come capitale umano presente in larghe fasce di lavoratori (a partire dalle qualifiche operaie) che sfrutta il mercato per migliorare la propria posizione. Così come resta poco esplorato il nuovo paradigma della rendita che, soprattutto nelle fasce più giovani, diventa potenzialmente alternativo al lavoro tradizionalmente inteso. Perché i giovani sono sempre meno e sono sempre di più i patrimoni familiari che entrano nelle loro disponibilità. E creano una rendita sufficiente a consentire di scartare i lavori non ritenuti adatti. Senza contare che esiste anche un fenomeno di aumento di disponibilità della terra (di cui parla pure Coin) che sposta il lavoro in una nuova dimensione imprenditoriale e agricola.
Per l’autrice il tema delle grandi dimissioni sembra «l’incarnazione di un cambiamento culturale e antropologico, teso a rimodulare gli stili di vita e a mettere in discussione uno dei pilastri del mondo in cui viviamo: la relazione salariale». Lasciare il lavoro anche senza un altro lavoro perché si prende coscienza dello sfruttamento, della desertificazione della vita privata, del lavoro fondato sulla devozione che diventa trappola esistenziale. Però nelle stesse ricerche citate da Coin uno dei grandi binomi dirompenti è lavoro-povertà, perché i salari non bastano a far superare le soglie di sopravvivenza materiale. Quindi sembra poco realistico immaginare che l’alternativa a questa situazione tragica sia il suo ulteriore peggioramento rinunciando a quel salario seppur basso. La lettura di Coin è un’altra: «È dunque lecito ipotizzare che la paura di perdere il lavoro sia proporzionale a ciò che il lavoro da. E se il lavoro paga poco, per chi lo lascia ci sarà poco da perdere». A meno che non intervengano misure di assistenza , come è stato il reddito di cittadinanza, o situazioni di lavoro in nero, altro campo difficile da esplorare (e non esplorato nel libro se non nella parte relativa alla ristorazione). Coin confuta questa obiezione: «L’aumento del turnover volontario non ha niente a che fare con il reddito di cittadinanza. Ha piuttosto a che vedere con una cultura del lavoro tossica, fatta di salari bassi e turni massacranti, di mobbing e di bullismo, di scarsa sicurezza».
Sia come sia, il rifiuto del lavoro è una novità di cui dobbiamo prendere atto per comprenderla e gestirla (magari, là dove sia possibile, con il lavoro su quattro giorni) perché, come scrive Coin, «è un fenomeno ambivalente e contraddittorio». E ci pone di fronte a un modello pieno di antinomie che la pandemia ha fatto esplodere. «Dalle fabbriche ai supermercati, dai rider alla logistica, era semplice in quei mesi vedere le storture di un modello produttivo che funziona grazie all’operato delle persone meno pagate e meno tutelate, soprattutto donne e migranti». Ma le storie raccolte da Coin sono soprattutto «storie di persone che lavorano nell’accoglienza e nella ristorazione, nei musei o nei servizi alle imprese, nella logistica o nelle pulizie, nei servizi sociali o nelle cooperative, nelle agenzie immobiliari o nelle società di consulenza, nel marketing, nella comunicazione, rider e operai, art director e social media manager, grafici e grafiche, archeologhe e archeologi, architette e architetti, che a partire da questa decisione hanno provato a ridefinire il proprio rapporto con il lavoro e con la vita». Non c’è la manifattura, l’industria. Dove i modelli produttivi sono più avanzati e dove il fenomeno del Big Quit non è rilevante o è legato a dinamiche salariali di mercato. E mantenere le distinzioni è importante anche per garantire l’accuratezza dell’analisi. Le provocazioni del libro di Coin ci avvertono che serve un nuovo paradigma sociale, ma anche una nuova fantasia allocativa delle risorse pubbliche e private. Perché alla fine «la vita non è una merce».
Alberto Orioli - Pubblicato su Domenica del 1° ottobre 2023 -
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