Insurrezione e Comunizzazione
- Ripensare l'emancipazione sociale radicale in una nuova era di catastrofi -
di Pablo Jiménez Cea
Viviamo in un'epoca di catastrofi che presto faranno impallidire quelle del XX secolo, dal momento che la civiltà del Capitale è sprofondata in una tale debacle socio-ecologica che ora sta manifestando in varie regioni del pianeta qual è il vero carattere di questa nuova era di catastrofi. A Gaza viene messo in atto un genocidio dove le forme più precise di distruzione di esseri umani, garantite dalla tecnologia iper-moderna, si intrecciano con i metodi più atavici del terrore: il più moderno, è anche il più arcaico, ha detto giustamente Guy Debord. Ma il fuoco del collasso della civiltà capitalistica si sta diffondendo, non solo sotto forma di guerra neo-imperialista e squadroni della morte della droga trasformatisi in potenze transnazionali, ma anche sotto una vera e propria combustione delle foreste, che viene attuata nel contesto dell'aggravamento del riscaldamento globale, il quale ha origine nella distruzione accelerata della natura da parte della produzione capitalistica di merci. Per questo si dice a ragione che Gaza è il mondo, dal momento che è lì che si incontrano, convergono e si giustappongono tutti gli elementi delle crisi multiple dello sfacelo capitalistico, mostrando così, in un punto ben definito del pianeta-capitale, qual è l'immagine esatta del sempre più vicino futuro collasso di questo modo di vita socialmente alienato. Ed è proprio per questo che non è affatto un caso che il 2023 si sia chiuso essendo stato, simultaneamente, tanto l'anno più caldo mai registrato quanto anche l'anno più violento dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. In realtà, è tutto il mondo che sta sprofondando in una violenza sempre più esacerbata. Le deboli barriere, che la stessa civiltà borghese aveva posto, davanti a sé, alla violenza scatenatasi dopo due guerre mondiali e dopo i processi di decolonizzazione, sono state alla fine abbattute, di nuovo, a Gaza. D'ora in poi, il vuoto discorso sulla democrazia e sui diritti umani, brandito dalle potenze centrali del neoimperialismo occidentale, avrà perso anche quel poco di senso propagandistico che poteva avere, e nemmeno i suoi sicofanti più entusiasti riescono più difenderlo. Ciò implica che finalmente è stata aperta la strada alla guerra globale totale; a una guerra mondiale, vera ed efficace, nel contesto della crisi della tarda civiltà industriale, a una guerra planetaria neo-imperialista tra i grandi blocchi di potenze capitaliste che oggi si confrontano, sempre più apertamente, nelle diverse regioni del pianeta. Ma non è tutto, laddove la sovranità dello Stato capitalista [*1] arretra, o tende a crollare come nel caso della Somalia, del Congo o di Haiti, ciò che viene raggiunta non è l'emancipazione, ma assistiamo a che il vuoto dello Stato venga ora occupato dalle nuove mafie transnazionali e dai loro squadroni della morte.
Ragion per cui, possiamo tranquillamente riformulare la famosa frase del prologo del Capitale; e dire pertanto che le regioni periferiche mostrano alle nazioni industriali avanzate quale sarà l'immagine del loro terribile avvenire. I casi dell'Ecuador - recentemente scosso dalla guerra tra il racket statale e quello parastatale - e del Messico, dove il narcotraffico si intreccia a tutti i livelli del tessuto sociale e diventa una potenza transnazionale, così come di tutta l'America Latina, sono in questo senso paradigmatici; ma lo è anche El Salvador con il suo nuovo modello di Principe che emerge nel corso di questa crisi: Nayib Bukele. Non dovrebbe perciò sorprendere che una crisi globale che, in condizioni capitalistiche, spinge centinaia di milioni di persone al limite della sopravvivenza, contestualmente alla più schiacciante accumulazione di ricchezza, ci spinga anche nelle braccia di un nuovo tipo di autoritarismo, il quale non promette ai suoi miseri cittadini di evitare la fame, bensì di evitare di essere uccisi a colpi di pistola. Dopo tutto, la variante progressista della sinistra ha fallito in tutto il mondo nella gestione del capitale e da nessuna parte appare un orizzonte emancipatorio che offra una reale alternativa alla catastrofe capitalistica. Probabilmente, da questo punto di vista, nessuno meglio di Walter Benjamin ha capito il modo in cui - nel corso del suo sviluppo storico - la rete della socializzazione capitalistica finisca per essere sempre più caratterizzata dalla disperazione e dalla catastrofe. E che, quindi, l'emancipazione sociale radicale non può consistere altro che nell'attivazione di quel freno di emergenza che possa fermare l'avanzata del movimento del capitale verso il completo auto-annientamento.
Il fatto che la fine logica del dispiegamento storico del capitale sia il completo auto-annullamento dell'umanità, è una conclusione terribile a cui si può arrivare, non solo comprendendo criticamente le dinamiche fondamentali del movimento del denaro in quanto capitale, ma anche esaminando attentamente le condizioni di esistenza che contraddistinguono la storia di questa civiltà. Ma cos'è questo freno di emergenza e come può permetterci di ripensare l'emancipazione sociale radicale? Qui di seguito sosterrò che la Teoria della Comunizzazione costituisce una preziosa autoriflessione teorica sulle possibilità radicali che emergono nelle lotte sociali contemporanee. Infatti, come vedremo, sono proprio le dinamiche contraddittorie delle forme sociali capitalistiche a permettere non solo la loro critica in senso teorico, ma anche la loro negazione pratica. La teoria della comunizzazione è quindi un'espressione della negatività presente nell'intero tessuto sociale capitalista. Ciò che mi interessa qui non è quindi fare un'apologia acritica di una particolare teoria - la teoria della comunizzazione - ma innanzitutto contribuire allo sforzo, ancora frammentario, di elaborare una teoria critica radicale a carattere autoriflessivo. Solo in un simile quadro, cioè in quello di una critica sociale radicale che intende sé stessa in quanto possibilità della medesima società da cui emerge, il dialogo con la teoria della comunizzazione ha senso. In tal senso, ciò che mi interessa qui è far luce sul carattere concreto dell'abolizione del valore - che costituisce, di fatto, la grande questione della teoria rivoluzionaria contemporanea - e, altresì, far luce sulla possibilità che emerga una pratica consapevolmente orientata alla soppressione delle forme sociali capitalistiche. In altre parole, il dialogo critico con la teoria della comunizzazione che intendo avviare in questa sede ha lo scopo di riflettere sulla possibilità di una critica pratica della socializzazione capitalistica. Ovviamente, un simile approccio implica che la teoria della comunizzazione non può essere considerata come il carattere definitivo dell'emancipazione umana, ma piuttosto come un momento frammentario di chiarimento sulle possibilità pratiche che si agitano all'interno dell'attuale fase storica della civiltà capitalistica. È soprattutto un'espressione delle reali potenzialità delle lotte contemporanee, ma non coincide di per sé con l'emancipazione sociale, quanto piuttosto rappresenta un momento della formazione contemporanea di una critica sociale radicale ancora allo stato frammentario. Ora, come si può già intuire, la possibilità di una critica pratica del capitale [*2] non è, ovviamente, il risultato di qualche teoria particolarmente brillante né della capacità analitica di menti particolarmente geniali - anche se la teoria come approfondimento presuppone lo sviluppo di alcune potenzialità soggettive [*3] - quanto piuttosto il risultato delle trasformazioni materiali e storiche della civiltà capitalistica avanzata e del conseguente sconvolgimento dell'intero tessuto della socializzazione. Come ogni persona interessata può scoprire da sé, la teoria della comunizzazione nasce proprio dopo le rivolte globali del 1968 e dopo l'emergere di una nuova qualità della lotta di classe rispetto alla quale si presupponeva la crisi, e il successivo crollo, del vecchio movimento operaio e di quella particolare configurazione del quadro di socializzazione capitalistica di cui quel movimento era parte integrante, fattore di modernizzazione, e al contempo possibilità di una sua critica immanente e di un suo superamento. La teoria della comunizzazione, ed è questo un aspetto che la rende una corrente di particolare importanza per la critica radicale contemporanea, si configura come una teoria autocosciente della propria determinazione storico-sociale: essa concepisce se stessa come un bilancio critico del fallimento dell'ondata rivoluzionaria del 1968-77 [*4], al contempo anche come costituzione di un nuovo paradigma della lotta di classe e dell'emancipazione sociale [*5]. Non entrerò nel merito delle divergenze teoriche che ho con la teoria della comunizzazione, in particolare la sua comprensione della storia della civiltà capitalista, la sua teoria dell'ideologia - specificatamente la Théorie Communiste - o il suo dialogo spesso tronco con le cosiddette "nuove letture di Marx", perché credo che il suo merito sia quello di insistere sul carattere pratico del movimento per l'abolizione del valore in quanto processo di auto-trasformazione della società che prevede la soppressione del proletariato. Nonostante il suo linguaggio necessariamente esoterico, la teoria della comunizzazione può e deve essere considerata a pieno titolo come una nuova lettura di Marx che generalmente sfugge all'ambito accademico, ma che condivide punti di convergenza fondamentali con diversi sforzi teorici sparsi per il mondo che hanno come orientamento primario la costituzione di una critica sociale radicale capace di diventare una forza materiale e storica finalizzata alla soppressione/superamento del quadro di socializzazione capitalista. Di conseguenza, non intendo qui fornire un riassunto dettagliato delle principali proposte della teoria della comunizzazione - essa stessa frammentaria, composta da vari collettivi e individualità aventi prospettive spesso divergenti - quanto piuttosto sottolineare la possibilità reale di un'insurrezione contro la forma dei relazioni sociali capitalistiche, un'insurrezione finalizzata a minare le forme sociali fondamentali che sostengono l'intero edificio della socializzazione capitalista. Inoltre, sosterrò che questa possibilità, lungi dall'essere un sogno teorico, è presente nello stesso tessuto sociale capitalista e che, di fatto, costituisce la dimensione radicale delle lotte di classe contemporanee, nonché il fondamento materiale dell'esistenza stessa della teoria della comunizzazione. Ciò significa che attuerò qui una riappropriazione critica della teoria della comunizzazione, nel senso di un'auto-chiarificazione resa possibile dalle recenti lotte e dal fallimento del loro potenziale di emancipazione, una riappropriazione che mira a mettere in luce il carattere pratico dell'abolizione del valore e ad orientare la discussione emancipatoria nella direzione della formazione di una forza sociale e storica capace di puntare consapevolmente verso la liquidazione delle forme che sostengono il quadro di socializzazione del capitale.
Comunizzazione
Quando Théorie Communiste dice che la rivoluzione è comunizzazione, intende dire che questa può avvenire solo in quanto processo di autotrasformazione materiale del processo sociale, nel cui svolgimento il valore - nella sua forma di relazione sociale - tende a essere praticamente liquidato, e che proprio da questa sua liquidazione il processo ne trae la sua forza. In parole povere, la comunizzazione designa un processo pratico di carattere collettivo attraverso il quale la forma capitalistica delle relazioni sociali viene abolita di fatto, vale a dire, abolendo lo scambio di merci, il valore, il denaro, il lavoro, il capitale e, naturalmente, lo Stato - il cui fondamento è proprio la forma capitalistica delle relazioni sociali - nonché il patriarcato, nella misura in cui le relazioni capitalistiche non sono neutre dal punto di vista del genere, e la loro abolizione costituisce anche l'abolizione del genere, socialmente prodotto da questa civiltà. La teoria della comunizzazione, in tutte le sue varianti, ha sempre insistito sulla possibilità dell'immediatezza del comunismo [*6], ossia sulla possibilità dell'immediata produzione di un modo di vita socialmente emancipato, attuata a partire da una rottura pratica con il sistema di socializzazione capitalista, la quale nasce da quella stessa rete di socializzazione sotto forma della sua critica immanente nei fatti. Evidentemente, il solo fatto di ammettere questa possibilità costituisca di per sé il risultato di un processo storico di civilizzazione capitalistica, una trasformazione materiale della relazione di capitale in cui ora l'emancipazione sociale non avviene più sulla base dell'affermazione del proletariato come classe - cosa che a sua volta implicava anche l'affermazione del capitale [*7] - ma attraverso la sua negazione, la sua messa in discussione proprio in base alla sua stessa azione in quanto classe dentro la socializzazione capitalistica. È vero che il comunismo è stato possibile già fin dal 1848, come diceva Amadeo Bordiga, ma lo è stato sulla base di un'affermazione del proletariato in quanto classe. Con questo, naturalmente, non intendo dire che l'abolizione della società di classe fosse impossibile nell'arco storico in cui la lotta di classe si svolgeva nel quadro della realtà del movimento operaio. Al contrario, intendo sottolineare che l'emancipazione sociale radicale non costituisce una sorta di invariante storica, ma rappresenta piuttosto il risultato di una produzione storica reale che si verifica all'interno del metabolismo sociale capitalistico. Lungi dal costituire un'astrazione immutabile - che esisterebbe al di fuori del movimento reale come se fosse un ideale normativo - l'emancipazione sociale si sviluppa sempre sulla base del dispiegamento storico di una dialettica della merce propria della civiltà capitalista - e quindi della lotta di classe. La lotta di classe del movimento operaio, è stata l'emancipazione possibile in un determinato momento storico della civiltà capitalistica. Il consiglio [il soviet], l'autogestione, lo sciopero generale di massa, la presa del potere, ecc. costituivano la forma pratica di questa possibile emancipazione, e lo erano nella misura in cui, all'interno della relazione di capitale (il rapporto di classe tra capitale e classe salariata che è il fondamento della valorizzazione del valore), l'auto-emancipazione del proletariato poteva avvenire solo nella forma di un'affermazione della classe. Infatti, nel processo storico di transizione dal dominio formale a quello reale del capitale, la lotta della classe operaia ha dovuto necessariamente assumere il contenuto e la forma della sua affermazione come classe di capitale all'interno della socializzazione del capitalista; poiché la sua lotta contro il capitale era determinata dalla riproduzione della classe operaia in quanto momento necessario della riproduzione estesa del capitale. Oggi, nella transizione globale verso la quarta rivoluzione industriale, la situazione è radicalmente diversa, dal momento che la riproduzione della classe operaia globale non è più un presupposto necessario alla riproduzione estesa del capitale, che invece ha politicizzato in maniera scientifica tutto l'intero processo di produzione di merci, e dipende sempre meno dal dispendio immediato di lavoro umano astratto misurato dal tempo; e tutto questo si esprime, tra l'altro, nella produzione di enormi masse di popolazione che sono superflue al capitale, così come nella lumpenizzazione della classe operaia. Ciò equivale a dire che ogni movimento di contestazione sociale radicale all'interno della civiltà capitalistica emerge come una critica immanente di questa forma alienata di interdipendenza sociale, vale a dire, emerge da e in contraddizione con queste forme di socializzazione. Tuttavia, voglio sottolineare che è il carattere contraddittorio di queste forme a costituire una condizione di possibilità per una critica sociale radicale. Se la forma merce fosse la forma ultima della riproduzione sociale, se coincidesse pienamente e identicamente con i soggetti di questa socializzazione - e nella sua ultima fase teorica Jacques Camatte suggerisce esplicitamente, e a torto dal mio punto di vista, che questa identità si è realizzata come Antropomorfosi del capitale [*8] - ecco che allora non sarebbe semplicemente possibile né la critica né la negazione pratica di questa forma storicamente specifica di relazioni sociali. Al contrario, dal momento che invece la forma merce, come forma specifica di ricchezza capitalistica, è di per sé contraddittoria - essa è simultaneamente sia ricchezza materiale che ricchezza astratta [*9] - ecco che pertanto è nel suo stesso dispiegarsi storico che si trova contenuta la possibilità della sua critica e del suo superamento.
Di conseguenza, il comunismo non è un ideale normativo e neppure un'essenza invariante che deve essere realizzata, bensì la forma necessaria dell'emancipazione sociale che si produce storicamente [*10]. La critica marxiana dell'economia politica postula la possibilità del comunismo in quanto critica immanente delle relazioni sociali capitalistiche, però tale rottura è essa stessa produzione storica all'interno di questo tessuto di socializzazione. L'emancipazione sociale radicale in quanto comunizzazione implica, pertanto, che oggi le lotte sociali attuali, e pertanto la guerra di classe, abbiano come loro forma necessaria la produzione immediata di relazioni sociali emancipate, una produzione la cui condizione di possibilità risiede nell'enorme tempo storico oggettivato dall'attività produttiva umana sottoposto al regime di saccheggio e di sofferenza proprio della produzione di merci. Ciò significa che la riappropriazione del tempo storico da parte delle masse salariate - che per Marx, nei Grundrisse, non è altro che il contenuto stesso dell'emancipazione radicale - non avviene su un terreno immobile e sempre uguale a sé stesso, ma trova sempre la sua condizione di possibilità nella dinamica storica della produzione capitalistica e, in particolare, della relazione di capitale.In questo senso, quando penso alla comunizzazione alla stregua di una critica pratica dell'economia politica, parlo di un movimento in atto che nega la forma capitalistica della ricchezza sociale per far emergere la ricchezza come tempo disponibile, come emancipazione del tempo di vita rispetto alle relazioni capitalistiche. Tuttavia, ciò non sarebbe possibile se il risultato ultimo della produzione capitalistica, ossia la produzione di plusvalore, non fosse simultaneamente anche la produzione di tempo libero storico il quale viene oggettivato come plusvalore, ma che può esistere come tale, e rimanere tale come tempo libero oggettivato accumulato come capitale, solo nella misura in cui la riproduzione estesa del capitale viene continuamente realizzata; Detto in altri termini, la forma capitalistica della ricchezza - la ricchezza astratta, il valore - può rimanere tale solo nella misura in cui essa viene continuamente ricostituita attraverso un dispiegarsi storico contraddittorio in cui all'interno è contenuta la possibilità della sua negazione. Ciò implica, ovviamente, che per ricostituirsi continuamente, il capitale deve perpetuare il proletariato in quanto tale rinnovando continuamente la scissione dei produttori nei confronti dei mezzi di riproduzione sociale - compresa la terra - ossia rinnovando continuamente la loro dipendenza e condizione di miseria nei confronti del capitale.
Come sempre, una digressione di Marx sulla ricchezza apporta un'enorme chiarezza riguardo la questione:
«Ma, in fact, una volta cancellata la limitata forma borghese, che cosa è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti delle forze produttive, ecc, degli individui, creata nello scambio universale? Che cosa è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato? Nella quale l’uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la propria totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire? Nell’economia politica borghese — nella fase storica di produzione cui essa corrisponde — questa completa estrinsecazione della natura interna dell’uomo si presenta come un completo svuotamento, questa universale oggettivazione come alienazione totale, e la eliminazione di tutti gli scopi determinati unilaterali come sacrificio dello scopo autonomo a uno scopo completamente esterno. Perciò da un lato, l’infantile mondo antico si presenta come qualcosa di più elevato;e dall’altro lato esso lo è in tutto ciò in cui si cerca di ritrovare
un’immagine compiuta, una forma, e una delimitazione oggettiva. Esso è soddisfazione da un punto di vista limitato; laddove il mondo moderno lascia insoddisfatti, o, dove esso appare soddisfatto di se stesso, è volgare.» (Karl Marx, Grundrisse)
In effetti, per comunizzazione si potrebbe intendere il movimento pratico, insurrezionale, nel quale la ricchezza viene spogliata della sua limitata forma borghese. Tuttavia, questa possibilità è racchiusa nella forma stessa della merce, nel duplice carattere di questa forma storicamente specifica della ricchezza e del lavoro che la produce. Certamente, nella misura in cui la merce è al contempo ricchezza materiale e ricchezza astratta, al centro di questa forma e del suo carattere costitutivo si trova la non-identità. In altre parole, se sono possibili la critica della merce e la sua negazione pratica, ciò è dovuto al fatto che la forma merceologica della ricchezza sociale non è identica a tale ricchezza, perché solo in determinate condizioni sociali, materiali e storiche i prodotti della produzione umana assumono la forma del valore, sebbene questa non sia affatto la loro forma ultima. Diversamente, non sarebbe nemmeno possibile pensare al suo superamento.Di conseguenza, se oggi l'emancipazione sociale radicale si presenta come comunizzazione, ciò è dovuto in primo luogo alle trasformazioni reali del contemporaneo dispiegarsi storico della dialettica della merce - la quale include, al suo interno, la relazione di classe - una dialettica, questa, che può certamente svilupparsi solo attraverso la continua ricostituzione della riproduzione sociale nella sua forma capitalistica - la quale implica una continua ristrutturazione della relazione di classe. Lungi dall'essere una forma indistruttibile, come ci appare, l'intera rete della socializzazione capitalista è attraversata dalla negatività: la sola esistenza della sofferenza e del dolore irrazionale, che questa forma di relazioni sociali provoca, indica la possibilità, e la necessità, che questo supplizio debba cessare e che sia possibile un'altra forma, non alienata, di interdipendenza sociale. E la necessaria forma storica di questo potenziale è l'insurrezione intesa come comunizzazione, e quindi come abolizione della condizione proletaria [*11]. Il processo di comunizzazione, la produzione diretta di una società senza classi nel corso di un processo di autotrasformazione sociale, non può essere altro che insurrezionale, dal momento che esso rappresenta il movimento pratico che sovverte la dinamica della riproduzione sociale del capitale. La comunizzazione, pertanto, attacca la forma stessa in cui l'accumulazione capitalista si autoriproduce e si perpetua in modo allargato. Ciò significa che la comunizzazione, in quanto movimento insurrezionale, non è solo un movimento volto a sopprimere la forma capitalistica delle relazioni sociali, ma è anche la comparsa materiale di un'altra forma di riproduzione sociale che nasce nella negazione pratica del capitale.
Come può essere possibile tutto questo? Certo, nel capitale tutto è prassi, ma lo è nel senso di una produzione reciproca: della società, da parte dei soggetti, e dei soggetti da parte della società. Il movimento globale del capitale è il movimento globale della prassi alienata, e sempre più autonomizzata, della specie umana, nel quadro di un metabolismo della riproduzione sociale storicamente specifico; una prassi sociale che tende a rendersi sempre più relativamente autonoma rispetto agli esseri umani, e che esercita su quest'ultimi un dominio universalizzante. La comunizzazione diventa possibile, se vista come l'apertura di quella breccia che si produce a partire dalla contraddizione intrinseca alle forme sociali capitaliste i quella che è l'attuale fase di crisi della civiltà del lavoro. Ciò significa che il processo di comunizzazione si origina a partire dalle forme sociali capitalistiche, e in contraddizione con esse. Non mi stancherò mai di sottolineare come, alla catastrofe capitalistica, non esiste alcuna alternativa emancipatrice che dovesse emergere da un'esternalità rispetto a quella forma di socializzazione, o a partire dalla pura volontà: la possibilità di una negazione pratica del capitale è solo il risultato delle brecce che si aprono nel corso del suo stesso movimento contraddittorio.
Ma in cosa consistono questi squarci? Sono i punti di apertura all'interno della relazione di capitale che rendono possibile la rottura con la socializzazione capitalista che emerge all'interno della sua stessa dinamica contraddittoria. La Théorie Communiste ha detto qualcosa di fondamentale a riguardo, perché se il proletariato può agire solo come classe di questo modo di produzione, e agire rigorosamente come classe di capitale per poter esistere come tale, in che modo allora può abolire le classi e produrre emancipazione sociale? Risposta: proprio perché agire rigorosamente come classe mette in discussione la sua stessa riproduzione come classe, ed è proprio questo lo strappo: la messa in discussione della propria condizione di classe agendo come classe. Proprio qui troviamo simultaneamente sia i limiti sia le potenzialità sovversive delle lotte contemporanee, dal momento che in esse vediamo effettivamente aprirsi delle brecce in cui le masse insurrezionali potrebbero potenzialmente rompere con la condizione proletaria, tuttavia rafforzano e ricostituiscono anche la loro condizione di classe attraverso la propria attività pratica e attraverso le rivendicazioni - salariali, tra le altri cose - che ne sono il corollario. Pertanto, il compito di una teoria critica radicale è quello di generare le condizioni di possibilità per lo sviluppo autonomo della stessa pratica collettiva, non tanto dicendo ciò che deve essere fatto, ma mostrando attivamente quali siano in un dato momento i limiti della prassi, così come il risvolto attraverso il quale essa tende a ricostituire le relazioni sociali capitalistiche sconvolte dal movimento sovversivo - tutto ciò, come è ovvio, ci rimanda al terreno di mediazione tra la critica radicale e il movimento reale, vale a dire al problema della prassi materiale che deve essere dotata dei mezzi necessari a renderla efficace. Per inciso, questo significa che le cosiddette "minoranze rivoluzionarie" e le individualità che si dedicano alla critica sociale radicale - con maggiore o minore rigore, occorre dirlo - sono semplicemente espressione delle possibilità emancipative che si annidano nell'oggettività della società capitalistica. Il genio di Karl Marx non è consistito tanto in una mente brillante e particolarmente dotata, quanto nello sviluppo di una teoria auto-riflessiva sul proprio condizionamento socio-storico, sulla sua propria determinazione a essere possibilità dell'oggetto stesso che critica, ovverosia il capitale. È questa la fonte della sua permanente attualità in quanto critica immanente della socializzazione capitalistica, un'attualità che rimarrà valida finché continuerà a esistere l'oggetto della sua critica. Questo vuol dire anche che la prospettiva che qui espongo ha un carattere storicamente determinato e che la sua validità può avere senso solo in quanto possibilità della crisi della civiltà capitalistica, ma non si può in alcun modo estendere al di là di queste circostanze che la determinano. In altre parole, l'emancipazione sociale vista come comunizzazione, ovvero il freno d'emergenza che è simultaneamente sia una critica agli eventi della socializzazione del capitale sia la produzione di un modo di vita socialmente emancipato, rappresenta la forma necessaria di arresto della catastrofe del capitale in questo particolare momento storico, ma non è in alcun modo una garanzia di successo, né tantomeno la forma definitiva dell'emancipazione sociale. Al contrario, come si vedrà nella prossima parte di questo lavoro, oggi le possibilità di critica e di superamento emancipatorio del collasso capitalistico appaiono sempre più compromesse.Tuttavia, risulta necessario approfondire ulteriormente la concretezza del processo di comunizzazione, anche se nel farlo bisogna riconoscere i propri limiti, che sono anche il risultato della rete di ottenebramento prodotta dalla socializzazione capitalistica: non può esistere una ricetta generale da seguire per l'emancipazione umana, in quanto essa ha la sua condizione di possibilità proprio nelle lacune della socializzazione capitalista, le quali sono comunque riscontrabili nell'intera oggettività del tessuto sociale anche se non sono identiche, pur rispondendo agli stessi presupposti, ossia le forme sociali fondamentali della modernità capitalista: il valore, la merce, il lavoro, il denaro, il capitale, ecc.
Innanzitutto, il processo di comunizzazione, per essere tale, deve tendere a sopprimere la condizione proletaria. La valorizzazione del capitale, che costituisce l'obiettivo trainante di tutta la cieca traiettoria storica della produzione capitalistica, può essere realizzata solo per mezzo dell'accumulo di plusvalore, ovvero di tempo di lavoro in eccesso che viene strappato senza alcuno scambio di valore equivalente con la classe operaia globale. Di conseguenza, la merce come forma strutturante di base della civiltà capitalista non può essere compresa senza il plus-lavoro in essa contenuto [*12]. Di fatto, nella produzione capitalista ogni merce è costituita dalla materializzazione del tempo di lavoro in eccesso, del plus-lavoro forzato della classe salariata. In questo modo, la classe operaia è configurata, come dice Theorie Communiste, alla stregua di una merce, come il fondamento reale della riproduzione allargata del capitale. Di conseguenza, la critica concreta della rete di socializzazione del capitale richiede l'interruzione della relazione di capitale, mettendo in discussione la riproduzione della classe salariata in quanto classe salariata, e questo presuppone la necessaria trasformazione della riproduzione sociale su basi non mediate dalle forme sociali capitalistiche - e quindi la libera distribuzione dei beni come prima tappa pratica del processo insurrezionale. In parole povere, questo presuppone che l'insieme delle masse proletarizzate - compresi, ovviamente, i disoccupati, i lumpenizzati, i precari, ecc. – possono riprodurre la loro materialità fisica senza la mediazione del lavoro, del denaro o della forma merce. Come vediamo, tirare il freno d'emergenza non richiede solo la produzione di una rottura - il momento dello scatto insurrezionale della rivolta, del saccheggio, della distruzione dell'infrastruttura del capitale [*13] - bensì richiede il re-indirizzamento di quella che è la riproduzione sociale nella sua forma capitalistica. Pertanto, il processo di comunizzazione è impensabile senza l'appropriazione collettiva dei mezzi di riproduzione sociale,vale a dire, dei cosiddetti mezzi di produzione. Tuttavia, sebbene l'appropriazione e la socializzazione dei mezzi di produzione sia stato un argomento fondamentale del ricettario leninista della rivoluzione, bisogna dire che la semplice appropriazione dei mezzi di produzione, da parte delle masse salariate, non implica necessariamente il superamento del capitalismo in quanto tale. Infatti, come nel caso dell'URSS, il capitalismo può essere ricostituito proprio sulla base dell'appropriazione dei mezzi di produzione da parte delle masse salariate. Ciò che è essenziale, però, è la forma della riproduzione sociale, e la forma capitalistica delle relazioni sociali continua a essere perfettamente compatibile con l'appropriazione proletaria dei mezzi di produzione. Inoltre, i mezzi di produzione esistono attualmente in una forma oggettiva che ci è stata lasciata in eredità dal capitale, una forma che è modellata dall'obiettivo trainante di tutte le dinamiche sociali attualmente esistenti: la valorizzazione del valore.
Non si tratta di appropriarsi delle industrie e riprodurre lì i rapporti che fanno esistere l'industria in quanto tale, ma di riappropriarsi della prassi sociale materializzata in questi mezzi, e riorientare la riproduzione sociale su nuove basi: la soddisfazione diretta dei bisogni umani, la produzione di tempo libero. Del resto, un'enorme quantità di macchinari e industrie è terribilmente dannosa, inquinante e oggettivamente distruttiva delle condizioni biofisiche della vita sul pianeta, il che implica che un processo insurrezionale di successo dovrà smantellare l'intera infrastruttura di devastazione e allo stesso tempo riuscire a garantire la sopravvivenza delle persone attraverso una nuova riproduzione sociale che abbia come obiettivo una crescente abbondanza di tempo - e quindi di ricchezza materiale. Pertanto, un'appropriazione in senso emancipatorio dei cosiddetti mezzi di produzione, che includa tra l'altro la riappropriazione del nostro rapporto con la terra su una nuova base sociale, richiede necessariamente la rottura con il suo carattere di capitale, e questo presuppone che nel corso del processo insurrezionale la produzione venga reindirizzata verso la soddisfazione diretta dei bisogni umani. Dopo tutto, non si può vivere di saccheggio, dal momento che il saccheggio, nella sua forma capitalistica contemporanea (come appare nelle rivolte degli ultimi due decenni), presuppone una produzione sovrabbondante di merci. Inoltre, nessuno si impegnerà in una rivoluzione che non riesca a mettere il pane in bocca alla gente - basti pensare al clamoroso fallimento del potenziale emancipativo della rivolta del 2019 in Cile - e pertanto un processo insurrezionale che non riesce a riorientare la produzione sociale su altre basi è destinato a essere sconfitto istituzionalmente dal potere inerziale dei rapporti sociali capitalistici, dapprima; e da una violenta contro-insurrezione volta a impedire il riemergere di una rivolta diffusa, poi. In assenza di reali orizzonti alternativi, le masse salariate torneranno a correre tra le braccia dell'istituzionalità del capitale, anzi, vorranno con tutte le loro forze il ritorno alla normalità, la protezione dello Stato, e sputeranno sulla loro recente ribellione. Infatti, qualsiasi ribellione all'interno del capitalismo può trasformarsi rapidamente in una ribellione conformista - in un rafforzamento della socializzazione capitalista - attraverso la violenza di massa. Anche in questo caso, il periodo successivo alla rivolta in Cile è paradigmatico, in quanto le condizioni sociali, oggi, sono ancora peggiori di quelle che hanno dato origine alla rivolta, ma lo spettro sociale sembra essersi spostato verso prospettive reazionarie. Permettere l'emergere e il dispiegarsi del potenziale emancipatorio suscitato dalle lotte sociali contemporanee richiede di sostenere l'apertura dei varchi nella relazione capitalistica, che presuppone necessariamente una prassi orientata alla riappropriazione materiale del tempo alienato e dei mezzi di riproduzione sociale. La rivolta in Cile, come quelle di altri Paesi, ha fallito proprio in questo salto qualitativo dall'insurrezione generalizzata all'emancipazione sociale radicale, e il superamento di questa impasse risiede nella prassi sociale contraddittoria di questi movimenti e nella possibilità di spingere consapevolmente il loro potenziale emancipatorio. Su questo punto, la teoria della comunizzazione ha indicato la necessità delle cosiddette "misure comuniste" [*14], vale a dire, la forma concreta di attività pratica attraverso la quale la socializzazione capitalistica viene soppressa e, insieme a essa, il proletariato in quanto forza lavoro vivente da risucchiare nella carestia del plus-lavoro di cui il capitale si autoalimenta. La produzione di un'altra forma di socializzazione, una forma di interdipendenza umana emancipata, consiste nella moltiplicazione e nella generalizzazione degli atti che, nel corso della lotta, permettono inizialmente di indebolire le forme sociali capitalistiche - e poi di sopprimerle - rendendo possibile l'adesione alla lotta dei diversi gruppi sociali, e minando la forza della reazione politico-militare organizzata nello Stato e nei suoi agenti. Non si può abolire immediatamente il quadro di socializzazione capitalistica, ma si può avviare una prassi che ne metta immediatamente in discussione i fondamenti. In questo senso, anche se prima ho detto che non può esistere una ricetta generalizzata per la produzione cosciente del comunismo, si potrebbe dire che il motto secondo cui «che nessuno soffra la fame» riassume qual è il contenuto di una misura comunista fondamentale per la continuità dell'insurrezione e in cosa consiste il suo rafforzamento nel corso del suo svolgersi. Solo le misure comuniste concrete che consentono di orientare la riproduzione sociale verso la soddisfazione diretta dei bisogni, e verso la produzione di tempo libero, possono consentire al processo insurrezionale di sostenersi, di espandersi e infine di trionfare. In questo senso, la massima marxiana «l'insurrezione è un'arte», dovrebbe essere ripresa a partire da una nuova base: nel nostro caso, l'insurrezione è l'arte di far fiorire il tempo emancipato, di liberare il tempo vivente - la prassi sociale vivente dell'umanità - dal suo guscio capitalista.
PS: Questo è il primo di una serie di scritti che sto meditando da tempo. L'obiettivo principale di questi testi è contribuire alla formazione di una critica sociale radicale capace di diventare una forza storica materiale ed efficace. Di per sé, naturalmente, non avranno altro che un valore letterario, e la condizione per il loro successo in senso emancipatorio sarà solo la loro capacità di diventare un dialogo autoriflessivo con il movimento reale. Il prossimo intervento si chiamerà «I limiti e le possibilità della critica», in cui intendo sviluppare la crescente difficoltà, da parte della critica, a diventare prassi sociale emancipatrice, cercando di svelare le possibilità che ha l'emergere di un movimento radicale nel corso del processo catastrofico dello sfacelo socio-ecologico della civiltà capitalista; uno sfacelo che è, naturalmente, anche lo sfacelo dei suoi soggetti. Sebbene, all'interno della corrente che ha aspirazioni radicali, attualmente ci sia un rifiuto di qualsiasi teoria critica della soggettività - e questo proprio perché mette in discussione quelle che sono proprio le sue stesse posizioni - essa rimane come una condizione necessaria per una critica sociale radicale (...)
Pablo Jiménez Cea, Messico/Cile, febbraio 2024.
Note
[1] Andrebbe detto semplicemente che ogni Stato è capitalista, ma in questi tempi di offuscamento l'esigenza della precisione nel discorso non viene mai enfatizzata abbastanza: anche queste sono armi nella lotta per l'emancipazione sociale radicale.
[2] Il concetto di critica pratica del capitale o dell'economia politica, è stato ripreso da un breve paragrafo de "La sostanza del capitale", di Robert Kurz: «I libri di testo dell'ex blocco "socialista" continuano a riferirsi, seriamente e senza compromessi, a una "economia politica del capitalismo" e a una "economia politica del socialismo", anziché concepire e adottare il socialismo come critica pratica dell'economia politica in quanto tale» (p. 59). Tuttavia, questo paragrafo non è stato sviluppato, e nel resto del libro non c'è nessun altro ulteriore riferimento a tale problema. Del resto, la prospettiva di una critica pratica dei rapporti sociali era già stata avanzata dall'Internazionale Situazionista, e in particolare da Guy Debord ne "La società dello spettacolo".
[3] «La teoria è la forza dell'Io», direbbe Adorno.
[4] Cfr. Jasper Bernes, "Some Stories About Communization": https://translatoriac.noblogs.org/jasper-bernes-algunos-relatos-sobre-la-comunizacion_01/
[5] Su questo, si veda "Dall'Ultra-sinistra alla teoria della Comunizzazione" di Théorie Communiste, al seguente link: https://drive.google.com/drive/folders/1NtviJ3AikLVd1qHPcssbcZnQun6Dvac8
[6] Qui, intendo il "comunismo" visto in maniera negativa, vale a dire, come un modo di vita sociale e di interdipendenza umana nel quale sono state abolite le classi sociali, i rapporti sociali capitalistici e lo Stato. Per quanto si siano viste intere nazioni, e persino superpotenze mondiali come l'URSS, dichiararsi "comuniste"; si è sempre trattato, piuttosto, di rami alternativi della modernità capitalistica guidati dal movimento operaio e dalla sua controrivoluzione storica.
[7] È questa determinazione materiale e storica della prassi del movimento operaio - in quanto emancipazione sociale, resa possibile dall'affermazione del proletariato come classe - ad aver simultaneamente costituito anche il fondamento della controrivoluzione globale che lo ha liquidato. In realtà, che la controrivoluzione sia venuta dalle organizzazioni stesse del proletariato, e che le nazioni capitaliste siano emerse dalla lotta di classe rivoluzionaria, si basa sul fatto che l'affermazione del proletariato in quanto classe doveva necessariamente implicare anche l'affermazione del capitale, e quindi il quadro della socializzazione capitalistica poteva essere ricostituito solo proprio da quelle stesse organizzazioni operaie.
[8] Di Camatte, si veda "Wandering of Mankind" al seguente link: https://archivesautonomies.org/IMG/pdf/gauchecommuniste/gauchescommunistes-ap1952/invariance/espanol/errancia-humanidad-1973.pdf
[9] Sul carattere non identico della forma merce, non c'è riferimento migliore di quello al primo capitolo del Capitale. Su questo duplice carattere della merce e del lavoro produttore di merci, Marx dirà che proprio nell'apprendere tale non-identità sta «tutto il segreto della concezione critica» (Lettera di Marx a Engels, Manchester, 1868).
[10] Per una critica delle prospettive normative dell'emancipazione sociale, si veda: https://endnotes.org.uk/translations/theorie-communiste-historia-normativa-y-esencia-comunista-del-proletariado
[11] Il che equivale a dire che l'abolizione della società di classe (nella misura in cui tutte le altre classi sociali del sistema di produzione capitalistico sostengono la sua riproduzione grazie al plus-tempo del lavoro oggettivato come plus-prodotto; plus-prodotto che poi si converte in capitale) è il risultato del saccheggio del plus-tempo attuato da parte della classe salariata globale.
[12] Su questo, si veda Il Capitale. Libro VI (inedito). "Risultati immediati del processo di produzione capitalista", p. 109.
[13] Di questo ne parlerò nel III scritto di questa serie di documenti.
[14] Si vedano le "Misure comuniste" di Leòn de Mattis al seguente link: https://colectivobrumario.wordpress.com/2015/12/22/las-medidas-comunistas-leon-de-mattis/
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