«Il lettore potrà avventurarsi in questo libro sapiente e magnifico assecondando le proprie curiosità, i ricordi o il desiderio di conoscenza, come se visitasse un sito archeologico o una pinacoteca… invitato a confrontarsi con la paradossale presenza di ciò che è scomparso». (Roger Chartier, “Le Monde”)
L’antico Egitto affidò la memoria dei suoi sovrani a giganteschi monumenti e imponenti iscrizioni. Altre società preferirono stringere un patto con il tempo, come i popoli della Mesopotamia che, consapevoli della vulnerabilità dei loro palazzi di mattoni di fango, seppellivano nelle fondamenta le iscrizioni commemorative. I Cinesi dell’antichità e del Medioevo impressero la memoria dei re e dei personaggi illustri in iscrizioni su pietra e bronzo, le cui matrici erano custodite da scrupolosi antiquari. Altri ancora, come i Giapponesi del santuario di Ise, distruggevano per poi ricostruirle identiche, in un ciclo infinito, le loro architetture di legno e paglia. Altrove, in Scandinavia e nel mondo celtico, come in quello arabo-musulmano, sono i poeti o i bardi i responsabili del mantenimento della memoria. Greci e Romani consideravano le rovine un male necessario che bisognava imparare a interpretare per comprenderle. Il mondo medievale occidentale affronterà l’antico patrimonio con un’ammirazione venata di repulsione. Il Rinascimento intraprese invece un ritorno all’antichità diverso, considerandola un modello da imitare ma anche da superare. Infine, l’Illuminismo costruì una coscienza universale delle rovine che si è imposta come «culto moderno dei monumenti»: un dialogo con le vestigia del passato che vuole essere universale e che questo libro testimonia con straordinaria dovizia.
(dal risvolto di copertina di: Alain Schnapp, "Storia universale delle rovine". Einaudi, pp. 936 € 120)
I gioielli più preziosi di una civiltà? Le rovine, con la loro patina di malinconia
- di Giorgio Ieranò -
Ogni epoca ha le sue rovine. Ben prima del culto romantico dei ruderi, già egizi, greci e romani dovevano fare i conti con i monumenti del proprio passato. Alain Schnapp, archeologo insigne, partendo dall'antichità e sconfinando in Cina e nel mondo islamico, mette in discussione l'idea che la nozione di rovine sia essenzialmente moderna ed europea. Chateaubriand scriveva: «Tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine. Questo sentimento dipende dalla fragilità della nostra natura, da una segreta conformità fra i monumenti distrutti e la rapidità della nostra esistenza». Le sue parole esprimono senz'altro una sensibilità preromantica. Eppure, un millennio e mezzo prima, il poeta Ausonio usava accenti analoghi. Osservando un'epigrafe consunta dal tempo si chiedeva: «Dobbiamo meravigliarci che gli uomini muoiano? Si dissolvono i monumenti e la morte arriva anche per le pietre».
«Non c'è civiltà senza memoria né società senza rovine», ha scritto Schnapp in un altro suo saggio. Vale anche per l'Egitto dei Faraoni, dove i monumenti dovevano durare nei secoli e perpetuare la gloria dei sovrani. Un'iscrizione incisa tra le zampe della Sfinge di Giza narra come la Sfinge stessa fosse apparsa in sogno al faraone Tuthmose IV intimandogli di salvarla dal degrado: «Guardami, vedi lo stato in cui sono e come il mio corpo è dolorante. Avanza sopra di me la sabbia del deserto». Per Tuthmose che regnò all'inizio del XIV secolo a.C., la Sfinge, costruita oltre mille anni prima, è già antica. Restaurare o ricostruire gli edifici eretti dai sovrani di un tempo significava anche sancire una continuità del potere. Il presente si ammantava del prestigio del passato. Il re babilonese Nabonide, una sorta i proto-archeologo, si vanterà, in alcune iscrizioni del VI secolo a.C., di essere andato personalmente con pala e piccone a scavare i palazzi in rovina dell'antica Mesopotamia.
Ma se le rovine possono conservare la memoria di un passato lontano e splendido possono anche testimoniarne la malinconica fine. Uno scriba egizio ammoniva che «la vera eternità» non spetta ai costruttori di piramidi ma a chi scrive libri. Alcuni hanno eretto «porte monumentali e cappelle, e sono crollate. I loro altari sono coperti di terra». Sfuggono invece all'oblio coloro che hanno lasciato opere scritte: «Gli insegnamenti sono le loro piramidi: un libro è più prezioso di una lapide incisa». L'orgogliosa affermazione riecheggerà, molto secoli dopo, nelle celebri parole di Orazio, il quale si vanterà appunto di avere eretto con la sua opera poetica «un monumento più duraturo del bronzo e più grande delle piramidi». La meditazione sulla caducità di ogni gloria e potenza umana prende spesso nel mondo antico la forma del lamento sulla devastazione di una gloriosa città. Si va dalla Lamentazione sulla distruzione di Sumer e Ur (2000 a.C.) ai racconti greci sulla caduta di Troia, passando per le profezie bibliche sull'empia città di Edom: «Nei suoi palazzi saliranno le spine, ortiche e cardi sulle sue fortezze; diventerà una tana di sciacalli, un recinto per gli struzzi». Il poeta Properzio piangeva sull'antica Veio, tra i cui ruderi pascolavano i pastori. Mentre, per consolare Cicerone della morte della figlia, l'amico Sulpicio Rufo lo invita a considerare la fragilità delle sorti umane, testimoniata dai molti «cadaveri di città» sparsi per la Grecia. Però quegli stessi ruderi, dirà l'oratore Dione di Prusa, attestano anche lo splendore e la grandezza della Grecia di un tempo.
La suggestione delle rovine, insomma, è sempre ambigua. Il piacere della memoria si combina con la tristezza per la caducità di ogni cosa terrena. Nella tarda antichità, la malinconia suggerita dai ruderi sembra farsi più acuta. Rutilio Namaziano si commuove viaggiando tra le città diroccate di un impero romano ormai al crepuscolo. Eppure negli stessi anni, a Sidonio Apollinare la città di Narbonia sembra ancora più bella proprio per le sue «gloriose rovine». Ma il libro di Schnapp sorprende soprattutto quando racconta che persino in una poesia giavanese del IX secolo d.C. si respirava già un'atmosfera di malinconia quasi romantica: «I templi di pietra giacevano in rovina, così che le loro decorazioni di teste di giganti sembravano piangere attraverso le lacrime di pioggia che scendevano dai loro occhi». Negli stessi decenni alcuni poeti arabi si commuovono visitando le rovine di Ctesifonte, una delle capitali dell'antico impero persiano. Ma altri, come Nabù Nuwas, irridono questa passione: «Parlare di rovine è roba per persone tristi».
Alain Schnapp ci consegna un libro originale e affascinante (e anche riccamente illustrato) che risale alle origini stesse dell'idea di rovina, mentre di solito ci si ferma all'età romantica o al massimo al Rinascimento (con qualche eccezione: per esempio, "Città sepolte e rovine del mondo greco e romano", di Massimiliano Papini, pubblicato nel 2011 da Laterza). Il lettore che cerca le ragioni profonde di quella irresistibile passione per le rovine di cui parlava Chateaubriand troverà in queste pagine molte e talvolta sorprendenti risposte.
- Giogio Ieranò - Pubblicato su Tuttolibri del 23/9/2023 -
Nessun commento:
Posta un commento