lunedì 5 febbraio 2024

Moishe Postone, sulla Rote Armee Fraktion (RAF) e la Palestina…

Stammheim e Tel Zataar: saggio sulla morale e sulla politica
- di Moishe Postone -

- I -
Negli ultimi anni, ho sempre avuto problemi con il modo in cui - pubblicamente a sinistra - è stata discussa la questione della violenza. Da una parte, ci sono coloro che, partendo da una posizione umanista radicale, rifiutano la giustificazione (gesuita o stalinista) di tutti i mezzi, vista nei termini di fine ultimo, e in questo modo arrivano a un rifiuto categorico di ogni uso della violenza. Sottolineano come l'obiettivo di creare un mondo migliore debba essere identificato in maniera chiara in ciascuna fase che porti a tale obiettivo. Anche se, fondamentalmente, mi trovo vicino a questa posizione, ho qualche problema con il modo in cui essa viene spesso difesa, e per me rimane molto astratta. Non critico un tale atteggiamento in quanto sarebbe troppo morale. Anzi, al contrario, trovo che sia sorprendente il fatto che delle persone provenienti da un movimento la cui forza motrice è sempre stata la moralità, l'orrore morale dei nazisti, di ciò che accade in Vietnam e della situazione nel Terzo Mondo, oggi rifiutino una posizione vedendola come se fosse troppo morale e quindi, in un certo qual modo, prendano le distanze da una parte di sé. Mentre il mio problema è invece che, in questa discussione, la questione della violenza viene resa avulsa da ogni contesto politico e storico. Si ha come l'impressione che la violenza debba essere rifiutata da tutti i movimenti e gruppi, e questo indipendentemente dalla loro concreta situazione storica. Ma non è solo questo. Non credo che di per sé, una simile posizione possa essere sufficiente per poter criticare adeguatamente la politica della guerriglia urbana. Respingo la politica dei guerriglieri non solo per ragioni morali, ma anche per ragioni politiche, perché se seguiamo i guerriglieri nel campo che essi hanno creato, allora bisogna portare avanti una discussione politica con loro. I guerriglieri si considerano "realisti", si considerano come "fattore pratico di resistenza", e accusano il resto della sinistra di ingenuità e liberalismo. Vorrei problematizzare questa autovalutazione perché, a mio parere, essa è profondamente apolitica. Cercherò dispiegarlo qui di seguito. Anche la maggior parte delle argomentazioni dei difensori della guerriglia metropolitana sono astratte e morali. Tuttavia, il carattere delle loro argomentazioni è assai diverso da quello di coloro che assumono la posizione "umanista radicale".

Mentre questi ultimi problematizzano il rapporto tra l'obiettivo e i mezzi del cambiamento sociale, i guerriglieri traggono la giustificazione morale della propria violenza, solo esclusivamente dalla violenza sociale esistente, e non dai cambiamenti che devono essere ottenuti attraverso una loro politica. Questo spiega solo le cause della violenza, non i suoi effetti e i suoi obiettivi. Io non critico la loro rabbia; è anche la mia. E conosco anche il desiderio di esprimere questa rabbia, direttamente attraverso la violenza. Ma per quanto la rabbia possa essere la forza motrice per molte azioni politiche, per far sì che un'azione possa diventare politica, dev'essere emotivamente comprensibile per più di un piccolo gruppo. Se attuarla o meno, va discusso, e non solo in termini di giustificazione morale, ma anche in termini di quali sono i suoi effetti. Negli Stati Uniti, la prima protesta contro la guerra nel sud-est asiatico a cui ho partecipato avvenne nel 1963. Eravamo in dieci. I passanti ci sputavano addosso. Eravamo a conoscenza degli orrori che si stavano verificando lì, volevamo porvi fine, ma eravamo isolati in un oceano di patrioti americani reazionari. Cosa sarebbe accaduto se, a causa della nostra rabbia e del nostro isolamento, avessimo fatto ricorso a degli atti di sabotaggio? Sarebbe stato moralmente giustificabile, ma avremmo anche distrutto la possibilità di un'opposizione generalizzata alla guerra. Noi - e insieme a noi tutte le posizioni contrarie alla guerra - saremmo stati condannati dall'opinione pubblica e visti come traditori e nemici del popolo americano. Saremmo stati usati per mobilitare ancora di più sostegno alla guerra. Ma tutto ciò non fu più così facile quando, nel 1967, dopo una lunga agitazione 300.000 persone marciarono in direzione del Pentagono, e quando, nel 1970, a protestare a Washington c'era un milione di persone, e quando, sempre in quello stesso anno, nel corso di uno sciopero nazionale degli studenti contro l'invasione della Cambogia e per la liberazione di Bobby Seale, vennero paralizzate contemporaneamente più di 1.000 università. Quel che emerse, fu un ampio movimento che, nel fermare il governo degli Stati Uniti, si rivelò più efficace di qualsiasi forma di sabotaggio. Tra il voler scaricare immediatamente la rabbia - rimanendo in tal modo moralmente puri - e voler cambiare o distruggere la fonte di quella rabbia, c'è una differenza. Il linguaggio di chi difende la posizione guerrigliera assomiglia al linguaggio degli avvocati che giustificano, rendendolo comprensibile, e spiegano le azioni dei loro clienti; ma non è il linguaggio degli attori politici, che vedono la violenza come un mezzo per raggiungere dei fini politici. E non può essere diversamente. Quale argomentazione ragionevolmente "realistica" potrebbe aprire la strada a un possibile successo della guerriglia in questo paese? Qui non si tratta di giustificare la rabbia, né si tratta della brutalità dello Stato e della società, non è questione di stabilire, ai fini della repressione, se i guerriglieri siano o meno da biasimare; la domanda è: che cosa è stato ottenuto con questo? Oppure, che cosa si potrebbe ottenere in una metropoli come questa? Niente.

È da qualche anno. che i compagni della RAF vengono a dirci che viviamo in un paese fascista, e che quindi l'unica linea d'azione è la resistenza armata. Sia come sia. Non intendo dilungarmi oltre, ma se fossimo davvero sotto il fascismo, allora questo articolo, questo giornale e tutte queste aule pubbliche (Teach-in) ormai non esisterebbero più. Ma se il fascismo bussasse davvero alla porta, cos'è che si dovrebbe fare? A mio avviso, dovremmo cercare di evitarlo con tutti i mezzi, e questo si può fare solo allargando il più possibile il movimento antifascista. Il movimento operaio tedesco, nel 1933 non venne sconfitto, ma si arrese senza lottare. Fu la tattica del KPD, che scelse di entrare in clandestinità prima ancora che Hitler salisse al potere, aderendo alla tesi del socialfascismo che descrive questa resa senza che ci fosse alcuna lotta. Poi, la clandestinità venne schiacciata, più o meno rapidamente. E ciò che allora il lavoro clandestino di uno dei più grandi partiti comunisti del mondo non riuscì a realizzare, dovrebbe essere ora possibile per un piccolo gruppo? Le persone che si ricordano della vittoriosa resistenza jugoslava, o di quella francese, non dovrebbero dimenticare l'elemento nazionale nella lotta contro l'occupazione da parte di una potenza straniera. Oggi, la Germania non è occupata da una macchina militare straniera. Nella Repubblica federale tedesca permangono dei problemi di legittimazione, i quali non sono semplicemente diventati dei problemi di paura e di ansia. Il principio fondamentale su cui si basa un fronte antifascista, al di là di tutte le differenze riguardanti la questione positiva degli obiettivi della lotta, consiste nell'avere un avversario comune. Ma i compagni che qui e ora pretendono di combattere il fascismo, non sono evidentemente interessati a un movimento così vasto. Diamo un altro sguardo agli Stati Uniti all'epoca dei grandi processi politici, alla fine degli anni '60, in particolare al processo a Bobby Seale. Il movimento delle Pantere Nere non chiedeva che ci si identificasse con la sua politica, ma cercava piuttosto di essere sostenuto contro gli attacchi da parte dello Stato. Fu su questa base che si creò un ampio fronte, un movimento comune il cui obiettivo - oltre alla liberazione di Bobby Seale - era mettere sotto accusa i metodi brutali e terroristici dello Stato contro le Pantere e il ghetto. Il tema della protesta consisteva nella contraddizione tra le pretese liberali di uno Stato che starebbe agendo in conformità con quelle che erano delle leggi chiaramente definite, da una parte, e ciò che invece veniva realmente messo in atto, dall'altra. Ovviamente, questo tipo di approccio è "liberal", ma tuttavia, nondimeno, veniva visto come il primo passo che portava verso un movimento ampio e sempre più radicalizzato; quanto meno, creare la creazione di questo scudo protettivo liberal ha rappresentato per la sinistra una necessaria linea di difesa. Ogni sinistra ha bisogno di un simile scudo, ha bisogno dello spazio per continuare a vivere. Nel Terzo Mondo, si tratta del sostegno dei contadini, nelle metropoli, si tratta di un forte movimento operaio, e/o di un'opinione pubblica liberal che garantisca alla sinistra tale spazio. Questo margine di manovra è politico, e non viene dato gratis, in anticipo, ma deve essere costruito (e lo "spazio" che l'anonimato urbano fornisce alla guerriglia urbana non lo sostituisce, ma ne costituisce solamente una traduzione reificata di quella che è una costellazione politica tecnica, analoga alla reificazione del concetto di potere politico visto come un'arma). Che cosa ci dice tutto questo? A mio avviso, la RAF rifiutò ogni sostegno contro le leggi di Stammheim [*1] e contro le condizioni di detenzione, se un tale sostegno non era disposto a identificarsi con la politica della RAF. C'erano allora - e ci sono - molti che erano disposti a protestare contro il trattamento dei prigionieri, contro il tentativo di usare la RAF per legittimare la repressione, ma erano molti che volevano farlo senza per questo identificarsi automaticamente con la RAF. Non per paura, non per debolezza, ma semplicemente perché non erano d'accordo con queste politiche. La RAF non consentiva un tale sostegno. Ciò che lo Stato faceva loro, veniva usato come una leva morale. La pressione morale come strumento di reclutamento: un atteggiamento talmente da avanguardia che fa apparire come dei socialisti consiliari persino i bolscevichi prima della rivoluzione. È stata questa, per me, uno dei motivi che negli ultimi anni ha paralizzato molte discussioni sulla RAF; un contributo alla paralisi di una sinistra che era già paralizzata. Naturalmente, ci si chiede quale sia il ragionamento alla base del rifiuto di questo sostegno. Una protesta che - per la prima volta dopo molto tempo si stava mobilitando a partire dalla vicenda delle intercettazioni telefoniche - si è conclusa con l'omicidio di Siegfried Buback. C'è da chiedersi perché la RAF non era interessata ad avere un pubblico più ampio. Ho il sospetto che, conoscendo la brutalità dell'imperialismo e del "capitalismo democratico", abbia equiparato queste forme di governo alla brutalità fascista.

Una simile valutazione morale, che elimina ogni differenziazione, non solo è sbagliata analiticamente, ma è anche fatale politicamente . Nega qualsiasi margine politico di manovra e lo rifiuta in quanto compromesso morale. In tal modo, così si tratta perciò solo di "smascherare" lo Stato in quanto fascista. Evidentemente, ritenevano che se la popolazione se ne fosse resa conto, avrebbe finito per indignarsi moralmente. Supponevano che le loro valutazioni morali fossero la norma e si sarebbero riversate sulla società, come se l'indignazione fosse qualcosa che semplicemente esiste, anziché una cosa che va creata. Oppure rappresentavano la stessa visione del mondo che, negli Stati Uniti, avevano i Weather Underground, vale a dire, la tesi secondo cui Stati Uniti e Germania sono assolutamente malvagi, mentre nel Terzo Mondo i movimenti sono assolutamente buoni; a partire dalla quale la guerriglia metropolitana può essere pertanto vista come se fosse una piccola unità, parte di un movimento di liberazione globale che opera dietro le linee nemiche. Questa visione manichea del mondo, unitamente all'assoluta semplificazione e glorificazione del Terzo Mondo, che era già erronea alla fine degli anni '60, oggi è semplicemente deprecabile. Due cose mi legano alla RAF. Una di queste è il fascino che qualche anno fa ha esercitato su di me l'idea della resistenza armata; soprattutto contro i nazisti. Oggi direi che parte di quel fascino (che non ho affatto superato) consisteva nell'idea che non avrei più vissuto una vita quotidiana. Ogni minuto della mia vita avrebbe avuto un senso solo in quanto sarebbe stato determinato da una lotta moralmente giusta e necessaria, e che, dovendo trovarmi sempre di fronte a una questione di vita o di morte, non avrebbe più avuto niente a che fare con la quotidianità. Riflettendo su questo, mi accorsi che qualsiasi idea di avere una vita quotidiana - che ormai coincideva solo con quella di una  morte lenta e oscura sotto il capitalismo - mi era diventata estranea, e che pertanto avevo un atteggiamento di disprezzo nei confronti delle lotte quotidiane. L'unica idea che avevo della vita coincideva con una morte lenta. Sto dicendo questo, perché a un tratto mi sono reso conto che la mia idea di avere una vita senza una routine significava un flirt con la morte. Desideravo una morte che fosse diversa da una morte oscura. E tuttavia anche la lotta può anche essere caratterizzata da una vita differente. La seconda cosa, ha a che fare con la riconciliazione con il passato. Mi sentivo profondamente ed emotivamente vicino all'antifascismo della RAF; però a volte mi veniva da pensare che, nella loro avversione alla rimozione generale del passato nazista di questa nazione, erano arrivati a voler riprodurre un remake degli anni '30 - '40, la fine di provare a sé stessi che sarebbero stati moralmente migliori dei loro miserabili genitori. A volte ho anch'io fantasie simili a queste, fantasmi con i quali devo fare i conti, poiché la risposta alla repressione generale avvenuta nel passato non dovrebbe consistere nel desiderio di riviverlo. Nonostante queste connessioni, e sebbene possa in una certa misura identificarmi emotivamente con questo atteggiamento, ciò però non significa che io sia d'accordo con la politica della RAF. Innanzitutto, vorrei chiarire come una posizione politica sia determinata soprattutto dalla volontà di cambiamento sociale, e da una discussione su quali devono essere i mezzi da utilizzare per raggiungere tale obiettivo. La maggior parte di noi desidera che il fine corrisponda ai mezzi; molti di noi si sforzano di coniugare vita politica e vita privata. Nella nostra politica, c'è molto esistenzialismo. L'esistenzialismo della guerriglia urbana, tuttavia, mi sembra di tipo diverso da questo, un atteggiamento esistenziale, visto come obiettivo, che prende il posto del cambiamento sociale.Lo sto enfatizzando, a causa della rabbia. Non ho niente contro una condotta esistenzialista non politica. Nessuno può essere obbligato ad essere "politico", e dichiarare che sia questo il più elevato dei valori della vita. Però sono arrabbiato per quello che è accaduto negli ultimi anni. Sono arrabbiato con i militanti della RAF che si dichiarano più politici di tutti, e che pertanto hanno esercitato una tremenda pressione morale su molti di noi, i quali stavano già soffrendo di impotenza e di isolamento; una pressione, la loro, che è arrivata al punto di diffamare - bollandoli come ingenui e apolitici - tutti coloro che non erano d'accordo con la RAF. Il mio obiettivo è quello di mettere in discussione l'autovalutazione della RAF come gruppo politico. Nell'atteggiamento che ho descritto, vedo non solo le ragioni per rifiutare ogni alleanza, ma anche la base per la costruzione di un modello che spiega la propria violenza solo a partire da ciò che è già in atto; e mai a partire da quelli che sono oi suoi propri obiettivi. Questo atteggiamento, non può essere criticato solo moralmente, poiché è esso stesso profondamente morale. Moralmente, il rifiuto dell'omicidio, da parte degli umanisti radicali, si oppone alla necessità di impiegare qualsiasi mezzo per combattere la crudeltà. Una tale morale può anche portare a un atteggiamento che gioca sul numero dei morti, affermando che quattro morti, e la possibilità che ce ne siano altri 86 in più, non sono importanti, se paragonati al numero assai più alto delle vittime dello Stato. A questo punto, nel sommare i morti, l'atteggiamento dei guerriglieri comincia a rispecchiarsi in quello dell'avversario, quanto meno in termini qualitativi, dal momento che le differenze quantitative sono evidenti. Quel che intendo affermare, è qualcosa di più di un rifiuto della politica della RAF. E questo è dovuto al fatto che il loro atteggiamento di base corrisponde a un genere particolare di esistenzialismo, nel quale tutte le questioni relative agli obiettivi diventano confuse e poco chiare. Un tale atteggiamento è ben lontano da tutto ciò che invece pretende di essere, vale a dire, una forma efficace di politica e di resistenza.

- II.
Per maggior chiarezza, vorrei ora ricordare alcune azioni di alcuni gruppi politici del Medio Oriente. Si tratta di organizzazioni alle quali la RAF era legata in maniera disastrosa, ma le cui azioni, a differenza di quelle della RAF, avevano un chiaro obiettivo strategico. I pianificatori del dirottamento del volo per Mogadiscio ne avevano calcolato gli effetti, solo che questi effetti avevano ben poco a che fare con la RAF. Questo, lo sottolineo non solo per mostrare fino a che punto gli altri gruppi vedevano una relazione tra mezzi e fini (anche se in questo caso respingo tale rapporto), ma anche perché credo che essi abbiano usato la RAF per i propri fini. La cosa è stata possibile proprio a causa dell'atteggiamento che la RAF aveva nei confronti della violenza, oltre che a un certo tipo di anti-imperialismo - diffuso a sinistra - che si lega strettamente a quel tipo di atteggiamento. Ma prima, una breve storia: Israele – per delle ragioni di cui parlerò più avanti – è disposta a «fare pace» solo con gli esistenti Stati arabi, e non con i palestinesi. In questo modo, così facendo, sta minando in modo permanente la possibilità di una pace con i palestinesi. Naturalmente, tutti i gruppi palestinesi si oppongono pertanto a qualsiasi tipo di negoziato di pace che li escluda, e che non porti a una sorta di unità nazionale palestinese. Tuttavia, all'interno del movimento palestinese ci sono gruppi come il FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina), oltre a vari gruppi scissionisti che si sono formati da esso e accanto ad esso, che rifiutano qualsiasi accordo di pace con Israele. In questo senso, la loro posizione nei confronti di Israele è complementare a quella di Israele nei confronti dei palestinesi. Indipendentemente da come la si voglia giudicare (ne ho un'opinione negativa, come cercherò di spiegare più avanti), ci sono alcune azioni del FPLP - in particolare il dirottamento di aerei - che possono essere intese solo come un modo per tentare di imporre tale posizione o, quanto meno, per silurare altri tentativi di risoluzione. Ciò significa che l'obiettivo strategico finale di ogni rapimento - pur richiedendo sempre il rilascio di prigionieri politici - rappresentava qualcosa di diverso. Esempi:

1) Settembre 1970: Israele ed Egitto firmano un armistizio che pone fine alla guerra di logoramento nel Canale di Suez. Il Segretario di Stato americano Rogers presenta un piano di "pace" per il Medio Oriente. A quel tempo, i gruppi palestinesi in Giordania erano diventati estremamente forti, quasi uno Stato nello Stato. L'esercito giordano, alla ricerca di un'opportunità per attaccare, stava diventando sempre più irrequieto. In questa situazione, il FPLP dirotta tre aerei; apparentemente al fine di ottenere il rilascio di prigionieri palestinesi. Ovviamente, l'effetto fu l'inizio di una guerra in Giordania. Ed era questo il vero e immediato obiettivo dei rapimenti. Con ogni probabilità, il FPLP pensava che il movimento palestinese potesse sconfiggere l'esercito di re Hussein. E qualora avessero preso il potere in Giordania, i palestinesi non si sarebbero dovuti più preoccupare dei negoziati di pace. In tal modo, il piano di Rogers sarebbe stato compromesso. Nei fatti, la guerra si risolse in un grande massacro di palestinesi; il potere politico e militare dei palestinesi in Giordania venne compromesso. Indipendentemente dal fatto che il FPLP ne abbia o meno tenuto conto, quello che venne raggiunto fu il medesimo obiettivo "finale": vale a dire che tutti i colloqui relativi ai piani di pace vennero esclusi dal tavolo. Era questo l'intento strategico dei rapimenti: la richiesta di rilascio dei prigionieri politici serviva solo da pretesto. Ma c'è anche un'altra cosa che intendo chiarire: quando parlo dei tentativi da parte di alcuni movimenti palestinesi di sabotare possibili piani di pace, dovrebbe essere chiaro che anche Israele persegue lo stesso obiettivo, e lo fa con mezzi ancora più brutali: espropriazione forzata di terre palestinesi, colonizzazione dei territori occupati, attacchi militari ai campi palestinesi, invasioni dei territori vicini. La politica israeliana, di brutale aggressione e di creazione di una situazione, per i palestinesi e i paesi arabi vicini, è una provocazione permanente; ed è questo l'intento di tale politica. Tanto storicamente quanto nell'attualità, le azioni degli israeliani costituiscono il principale ostacolo alla pace. Il motivo per cui mi concentro qui più sui palestinesi, è la loro forte influenza sull'attuale sinistra; sto cercando di sollevare la questione di un processo di apprendimento politico all'interno della sinistra.

2) Estate 1976: guerra civile in Libano. Il lungo e sanguinoso assedio di Tel Zataar – il campo profughi palestinese di Beirut considerato una roccaforte del FPLP – era al suo culmine. L'assedio era stato reso possibile, non solo dal sostegno israeliano ai falangisti cristiani, ma anche dall'ingresso in Libano delle truppe siriane, inteso come un "fattore regolatore". In questo senso, tali truppe sostituivano l'OLP, che aveva svolto questo ruolo ma che ora non poteva più farlo né politicamente né militarmente. Il FPLP aveva visto l'imminente minaccia di una distruzione del campo e, a livello politico, il riavvicinamento de facto tra Israele e Siria. Fino ad allora, la Siria era stata l'unico dei cosiddetti Stati in prima linea che aveva sostenuto con più forza la causa palestinese. Era su tale sfondo che avveniva il dirottamento dell'aereo a Entebbe. Anche stavolta, la richiesta di rilascio dei prigionieri politici serviva a nascondere un altro obiettivo: quello di cercare di impedire il riavvicinamento tra Israele e Siria e, se possibile, ridurre la pressione su Tel Zataar. In che modo? I pianificatori del rapimento sapevano che gli israeliani non avevano mai scambiato prigionieri con ostaggi. Tuttavia, difficilmente si sarebbero aspettati che un'unità di commando israeliana prendesse d'assalto un aeroporto così remoto. Quindi, che genere di reazione si aspettavano dagli israeliani? Credo che stessero ipotizzando un massiccio attacco israeliano al Libano, che non si sarebbe limitato solo alle aree meridionali, implicitamente cedute dalla Siria come sfera di influenza israeliana. Se un tale attacco avesse avuto luogo, la Siria non avrebbe potuto rimanere passiva, né tanto meno mantenere la sua intesa di fatto con Israele. Anche senza una guerra tra Israele e Siria, quanto meno il riavvicinamento tra i due paesi sarebbe stato annullato. I siriani, l'OLP e il FPLP sarebbero stati tutti dalla stessa parte delle barricate, e l'assedio di Tel Zataar avrebbe avuto termine (il prezzo, però, sarebbe stato quello di una distruzione ancora maggiore in Libano). Credo che a spiegare la forma specifica dell'azione sia proprio questo obiettivo. Due giorni dopo l'arrivo dell'aereo dell'Air France a Entebbe, i circa 150 passeggeri non ebrei vennero rilasciati, mentre i circa 100 passeggeri ebrei furono de facto tenuti in ostaggio. E tra coloro che selezionarono i passeggeri, dividendoli tra ebrei e non ebrei (e non tra israeliani e non israeliani, cosa che sarebbe stata già abbastanza grave), c'erano dei giovani tedeschi. Non credo che sia stata una coincidenza, quanto piuttosto un gesto deliberato (e questo sia che i rapitori direttamente coinvolti se ne siano resi conto o meno). L'intento era quello di mettere in atto una provocazione talmente estrema da innescare una risposta israeliana estremamente violenta. Il mondo avrebbe visto, di nuovo, il modo in cui i tedeschi separano gli ebrei e i non ebrei gli uni dagli altri. E fu così che la cosa venne percepita (tranne, forse, da alcune parti della sinistra, ma di questo parlerò più avanti). Dappertutto, ci fu come un'enorme ondata di ricordi traumatici. Tutti i piccoli progressi che erano fatti dagli antisionisti progressisti, nel tentativo di spezzare lo stretto legame esistente tra l'immagine che gli ebrei avevano di sé e il sionismo – una connessione che è si diffusa solo dopo la seconda guerra mondiale – venne come spazzata via. L'intento era quello di creare un fronte unito, di tutti i gruppi palestinesi e arabi, contro tutti gli israeliani e gli ebrei, per ingessare ogni conflitto all'interno dei rispettivi "campi", in modo che ciascuna parte arrivasse così a vedere nell'altra parte i "veri nazisti"; un proposito questo, che non aveva nulla a che fare con un movimento di liberazione progressista.

3) Ottobre 1977: dirottamento di un aereo diretto a Mogadiscio. Anche in questo caso, veniva richiesta la liberazione dei prigionieri politici, sebbene stavolta si trattasse principalmente di prigionieri politici tedeschi. Tuttavia, non credo che fosse questo il vero obiettivo, né che il rapimento fosse stato voluto dalla RAF, ciò perché, anche dal punto di vista della RAF, tutto ciò non aveva molto senso. In primo luogo, l'attacco su larga scala ai cittadini tedeschi coinvolti era in contraddizione con la precedente politica della RAF. In secondo luogo, da un punto di vista tattico, il rapimento sminuiva l'importanza che Hanns-Martin Schleyer aveva in quanto ostaggio, diventando così solo uno degli 87. Credo che la RAF sia stata usata solo come alibi, e che il vero motivo strategico vada invece ricercato nuovamente in Medio Oriente. Nello stesso giorno in cui il GSG 9 venne attaccato a Mogadiscio, ci fu un attentato alla vita di Arafat in Libano. Egli aveva fatto pressioni sul FPLP affinché ritirasse i suoi fedayn dal Libano meridionale. La probabile ragione era che, a causa degli sforzi americani e sovietici per far riconvocare la Conferenza di Ginevra in autunno e dei tentativi israeliani di minare questi sforzi legalizzando nuovi insediamenti in Cisgiordania, ecc., Arafat voleva evitare una situazione che poi sarebbe stata usata come pretesto per ulteriori azioni da parte degli israeliani per impedire la conferenza (nel frattempo, l'8 novembre - come presunta rappresaglia per un attacco missilistico sulla città di Nahariya, nel nord di Israele, che aveva ucciso 3 persone - ci fu un attacco dell'aviazione israeliana e dell'artiglieria che distrusse diversi villaggi e campi nel sud del Libano, uccidendo più di 100 persone). Un altro aspetto della costellazione in cui si è svolta l'azione, è la pressione recentemente esercitata su Israele dalle potenze occidentali, soprattutto europee, affinché accettasse i palestinesi come partner negoziali a Ginevra. Israele si è ostinatamente rifiutata: non intende negoziare con i "terroristi". Così vediamo che in questo contesto, un gruppo palestinese compie un'azione diretta contro lo Stato più potente d'Europa. Il risultato è una protesta in tutto il mondo occidentale contro il "terrorismo internazionale", che viene identificato direttamente con i palestinesi. La posizione di Israele appare in questo modo più comprensibile. Non è una coincidenza. È ancora troppo presto per sapere se questo obiettivo è stato raggiunto. Questo avverrebbe se i principali Stati arabi – ritenendo che i palestinesi rappresentano un peso inaccettabile – avviassero dei negoziati con Israele senza che ci sia una significativa partecipazione palestinese. Naturalmente, ciò costringerebbe tutti i gruppi palestinesi a silurare tali negoziati di pace (la questione di come le rivalità intra-arabe – Libia contro Egitto, Iraq contro Siria – siano mediate nel contesto del conflitto tra i diversi gruppi palestinesi è questione troppo complicata per essere affrontata qui). E' possibile, tuttavia, che il calcolo del FPLP non vada a buon fine, e che gli americani e gli europei continuino a spingere per una presenza palestinese a Ginevra. Ciò indicherebbe solo che le potenze europee e gli Stati Uniti sono ben consapevoli dei propri interessi e che, mentre Israele ha bisogno dell'imperialismo, non è necessariamente vero anche il contrario. Dal 1967, in Medio Oriente l'imperialismo e la sua strategia sono cambiati in modo significativo. Ciò che viene evidenziato a partire da tutti questi esempi, è che, a prescindere da come la si pensi, queste azioni hanno degli obiettivi sia tattici che strategici. E questi obiettivi non sono solo espressioni di rabbia, né sono destinati solo a liberare i prigionieri. Sotto questo aspetto, sono azioni assai diverse da quelle messe in atto dalla RAF nella Repubblica Federale Tedesca, e rivelano come quest'ultima, nonostante la sua "durezza", sia stata piuttosto ingenua. Dal momento che, purtroppo, la RAF non aveva una concezione della politica all'altezza della sua indignazione morale, probabilmente ha creduto agli slogan che venivano proposti, e quindi pensavano che potessero essere utilizzati da altri gruppi per i loro propri fini. Questo, tuttavia, richiede ulteriori spiegazioni. Come hanno potuto i giovani tedeschi di sinistra lasciarsi strumentalizzare in questo modo, per esempio a Entebbe, laddove la loro funzione principale era proprio quella di essere tedeschi? Credo che probabilmente non se ne siano nemmeno resi conto, ma il motivo non può essere ricercato nell'ingenuità individuale. Come ho già detto, penso che tutto questo abbia molto a che fare con l'attitudine che ha la RAF di giustificare la violenza in base alla violenza esistente, ma anche al fatto che ciò si lega a una forma di anti-imperialismo che non si limita solo alla RAF.

- III -
Vorrei  aggiungere qualcosa su questa forma di antiimperialismo, abbastanza diffusa, che è rappresentata anche dalla RAF, prendendo come esempio il Medio Oriente. E discutere inoltre anche la questione dei processi di apprendimento politico in generale, riferendola a questo. Per molti di noi - detto col senno del poi - la più parte dell'esperienza dei comunisti degli anni '30 e '40, appare difficile da capire. Ci risulta difficile posizionarci in maniera soggettiva rispetto ad essa: come potevano, quelle persone – anche di fronte alla minaccia storica mondiale rappresentata dal fascismo – ignorare delle cose così talmente ovvie? Come hanno potuto annullare ogni loro facoltà critica - nonostante gli orrori della collettivizzazione forzata, delle deportazioni di massa, dei processi farsa, della Spagna, del patto Hitler-Stalin, dei campi di lavoro - fino al punto di riuscire a negare la realtà dell'Unione Sovietica? C'è da chiedersi se, anche nella lotta contro il fascismo, fosse necessario "vedere" l'Unione Sovietica come il paradiso della classe operaia, anziché accettarla come il minore dei due mali. E nel dirlo, siamo poi davvero così diversi, anche senza le direttive di un quartier generale moscovita, e senza un'organizzazione gerarchica? Quando diciamo che per essere contro il fascismo non c'era bisogno di liberarsi di tutte le facoltà critiche, e accettare totalmente e glorificare l'Unione Sovietica, nel farlo forse sarebbe meglio guardare più da vicino il nostro atteggiamento nei confronti dei diversi movimenti politici: per continuare ad avere quella posizione antimperialista che nell'ultimo decennio la maggior parte di noi ha adottato, si deve per forza abbracciare in maniera così acritica ogni movimento che si dichiara antimperialista? A colpirmi, per esempio, è stato il fatto che dopo Entebbe non ho più sentito un solo discorso pubblico, da parte della sinistra tedesca, su quello che era accaduto prima dell'attacco israeliano. Quale cecità rispetto a questo, che genere di censura veniva richiesta alla sinistra, la cui socializzazione politica ha avuto inizio a partire dalla sua avversione al nazismo, per far sì che oggi non riconoscesse un'azione nella quale i tedeschi hanno di nuovo selezionato gli ebrei? Ci sono persino state anche delle persone talmente politicamente e moralmente inconsapevoli, da celebrare l'azione. Forse temevano che se avessero messo in discussione l'azione, ad essere messo in discussione sarebbe stato anche il loro antisionismo? Ma tuttavia, non c'è alcuna relazione tra queste due cose. La consapevolezza dei crimini commessi contro un popolo, o contro un gruppo di persone, e il desiderio di cercare di porre fine a tali crimini non dovrebbe necessariamente implicare una solidarietà acritica con qualsiasi ribellione politica contro quell'oppressione, soprattutto se di tipo nazionalista. Semplicemente, voler sottolineare questa oppressione, non giustifica legittimare necessariamente tutte le politiche che la combattono. Questo atteggiamento, non a caso, assomiglia a quello che ho descritto sopra come quello dei difensori della guerriglia urbana, che giustificano la violenza indicandone le cause piuttosto che tenere conto degli effetti. Vorrei condividere un esempio tratto dalla mia esperienza personale.

Quando andavo a scuola, facevo parte del movimento sionista. Mi ci sono voluti molti anni di "osservazione" – sia morale che politica – e di domande prima che potessi abbandonare tale posizione, e sviluppare una critica antisionista; ma perché ero stato sionista, e che cosa significava (e significa) quel movimento, per la maggior parte degli ebrei dopo la seconda guerra mondiale? Prima di allora, a sostenere il sionismo c'era solo una minoranza di ebrei. La maggioranza degli ebrei non ha mai analizzato il sionismo. Per loro, così come nel mio caso, sionismo significa semplicemente autodeterminazione nazionale. E per capire il motivo per cui  l'autodeterminazione nazionale sembrasse così ovvia alla maggioranza degli ebrei, che la vedeva pertanto come una soluzione necessaria, bisogna sapere che  i responsabili dello sterminio di 6 milioni di ebrei, e della distruzione dei centri tradizionali della cultura ebraico-europea nell'Europa orientale non erano stati solo i fascisti tedeschi. Se si trattasse "solo" di una reazione a questo, il nazionalismo non sarebbe così tanto naturale. Ma ho imparare ben presto che, sebbene ad aver dato inizio e diretto la Soluzione Finale, i fascisti tedeschi hanno ricevuto un massiccio sostegno da parte dei non tedeschi. Ad esempio, dai fascisti francesi e rumeni, ma anche fiamminghi, croati, slovacchi, ucraini, lituani e lettoni. Tutti i movimenti che facevano parte del secondo gruppo, provenivano da dei popoli che soffrivano il dominio di un potere centrale, il quale a sua volta era dominato da un altro popolo:  così, i fiamminghi dai valloni, i croati dai serbi, gli slovacchi dai cechi, gli ucraini, i lituani e i lettoni dai russi. In realtà, la questione dell'autonomia e dell'indipendenza regionale è pertanto assai più complicata del modo in cui solitamente viene presentata nell'attuale dibattio. E non sempre, questi movimenti sono dei movimenti progressisti. In Polonia, gli ebrei che erano sopravvissuti alle rivolte dei ghetti e ai campi di concentramento, per il fatto di essere ebrei, spesso vennero uccisi dai partigiani nazionalisti polacchi; I sionisti, vennero spesso uccisi dai comunisti. A tutto questo, oltre al sostegno attivo dei nazisti, si aggiunse anche il sostegno passivo degli Stati Uniti, del Canada e della Gran Bretagna, che si rifiutarono di modificare le loro quote di immigrazione. Quando, dopo la guerra e dopo il 1948, l'antisemitismo cominciò a diffondersi nei paesi comunisti – il processo Slansky a Praga, il "complotto dei medici" a Mosca – ecco che per la maggior parte degli ebrei il cerchio si chiuse. Il sionismo - che la maggior parte delle persone vedeva semplicemente come autodeterminazione nazionale - cominciava ora a essere ampiamente sostenuto. Non "vedevamo" quel che stava succedendo ai palestinesi. E questa "cecità" veniva rafforzata da alcuni altri eventi: che il Mufti di Gerusalemme aveva trascorso a Berlino gli anni della guerra, che in Iraq i tedeschi avevano sostenuto la rivolta anti-britannica di Rashid Ali, e che per le strade del Cairo, quando l'esercito di Rommel si avvicinava all'Egitto, erano apparse bandiere con svastiche. Tutte queste storie, insieme ai discorsi provenienti da dei nazionalisti palestinesi reazionari, come Shukeiry, hanno fatto sì che, nella nostra percezione, i palestinesi apparissero come l'ennesimo nemico che voleva distruggerci. Questa volta, però, avremmo reagito. Non "vedevamo" i palestinesi per quello che erano: contadini e artigiani, piccoli commercianti e operai che venivano espropriati e terrorizzati, persino espulsi, e che - in casi come Deir Yassin – massacrati dai sionisti; e che pertanto cercavano di reagire. Sto qui citando il sionismo come esempio estremo di un movimento che, in termini di cause, cioè in termini di storia della sofferenza di un popolo, appare del tutto comprensibile , ma che tuttavia non può essere giustificato in alcun modo per quanto riguarda i suoi effetti.

Ora, quando dite: "Ma è un movimento reazionario!", avete ragione, ma non è sempre stato così; ed è qui la questione dell'apparenza quella che voglio affrontare. Alla fine degli anni '40, il sionismo si presentava con un'immagine diversa. Veniva salutato come progressista da molti movimenti liberali e di sinistra. La fonte principale di rifornimento di armi proveniva dalla Cecoslovacchia, non dall'Occidente. L'URSS era stato il primo paese a riconoscere formalmente Israele. Alcuni settori del movimento sionista, nelle loro lotte contro gli inglesi, si presentavano come antimperialisti. L'esercito dei sionisti di destra, guidato da Menachem Begin (attualmente primo ministro di Israele) aveva buoni rapporti con l'IRA (il nemico comune erano gli inglesi). I kibbutz vennero salutati come degli esempi di socialismo utopico. Naturalmente, non è decisivo che allora il sionismo sia stato progressista, e ora non lo è più. Al contrario, un movimento, per quanto comprensibile possa essere rispetto alla sua causa, dev'essere compreso nel contesto di un determinato ambito sociale e storico a partire dagli effetti che produce e che potrebbe avere, indipendentemente dalla sua immagine e dall'immagine di sé che hanno i suoi membri. Molti dei sionisti effettivamente attivi, si consideravano dei progressisti, dei socialisti. Ma il desiderio dei sionisti di sinistra di costruire un paese progressista, sostenuto dai lavoratori ebrei dell'industria e dell'agricoltura, divenne ben presto il sistema migliore per creare un'infrastruttura sociale che, nel contesto di un paese già abitato, avrebbe escluso gli originari abitanti palestinesi. Indipendentemente da quali fossero le loro intenzioni soggettive, i sionisti di sinistra crearono un quadro che avrebbe dovuto assicurare il successo della colonizzazione ebraica della Palestina. Non avrebbe mai potuto sopravvivere sulla base della forza lavoro arabo. Ciò non dipende dal fatto che la maggioranza dei sionisti fosse consapevole di questo fatto. Basti dire che, in un tale contesto, la nozione progressista secondo cui non si deve vivere del lavoro altrui ha di fatto avuto un effetto diverso da quello che era nell'intenzione originaria. Nel contesto reale del Medio Oriente, questo movimento non aveva alcuna possibilità di essere progressista. Attraverso il mio confronto con il sionismo, ho imparato a vedere come e quanto fossero separati la causa e l'effetto di un movimento; ho imparato che, per giustificare un movimento, non basta riferirsi all'oppressione del popolo che tale movimento rappresenta. Sono anche arrivato a capire quale sia l'importanza di analizzare un contesto sociale e politico, al fine di riuscire a capire quanto l'intento soggettivo e l'effetto reale possano differire. L'inclusione di fattori "oggettivi", è assolutamente necessaria, e questo non è necessariamente oggettivismo. Dopo aver attraversato un lungo ed emotivamente difficile processo di apprendimento del sionismo, ora non voglio ripetere il medesimo errore per quanto riguarda altri movimenti. Voglio aggrapparmi a ciò che ho imparato, e non limitarmi a riferirlo solo a un movimento, per poi dimenticarmene. Ciò spiega quel che voglio dire ora, riguardo la maggior parte dei movimenti palestinesi. E' ormai moneta comune, affermare che la sofferenza degli ebrei in Europa non giustifica la sofferenza dei palestinesi. Tuttavia, l'altra faccia di questa medaglia è problematica. I palestinesi non sono stati responsabili delle sofferenze degli ebrei, e tuttavia ii palestinesi sono stati espulsi dagli ebrei. Pertanto, i palestinesi hanno il diritto di riprendere possesso della loro patria. Tuttavia, il problema di una simile posizione risiede nel fatto che mentre è comprensibile, e in qualche modo moralmente corretta, i suoi effetti diventano ambigui allorché si considera quale sia il suo contesto sociale e politico. Dopotutto, nel conflitto israelo-palestinese il problema consiste nel fatto che modelli come quello algerino o, ancor meno, quello vietnamita, non funzionano più perché qui la situazione è del tutto diversa. Gli ebrei israeliani, rispetto a una grande maggioranza palestinese, non costituiscono una minoranza. In Israele vivono circa 3 milioni di ebrei, mentre i palestinesi in Medio Oriente sono circa 3 milioni. La peculiarità dell'economia sionista, a differenza della maggior parte delle economie imperialiste, è che essa non dipende principalmente dalla forza lavoro palestinese. Ciò però non significa che i palestinesi abbiano sofferto meno rispetto, ad esempio, agli algerini, ma indica che, in questo contesto (di cui ho descritto solo due caratteristiche particolarmente evidenti), un classico movimento di liberazione nazionale – basato su dei movimenti di guerriglia e/o di sciopero – e volto alla "liberazione" dell'intera Palestina - non ha alcuna possibilità di successo. Solamente nelle aree in cui i palestinesi sono in maggioranza (vale a dire, principalmente nelle aree che gli israeliani hanno occupato dopo il 1967), e insieme ad altri fattori, un movimento palestinese potrebbe diventare abbastanza forte da costringere gli israeliani a ritirarsi. Nella maggior parte delle aree che si trovano all'interno dei confini pre-1967, tuttavia, qualsiasi "liberazione" implicherebbe che venga conquistato un altro popolo – indipendentemente da come quel popolo sia arrivato lì – e non il rovesciamento di un gruppo dominante relativamente piccolo che si basa sul lavoro di contadini, operai e artigiani arabi. E ciò possa avvenire, è altamente improbabile, sia politicamente che militarmente. Contrariamente a tutta la propaganda palestinese e israeliana, i fedayn non hanno mai rappresentato una minaccia per l'esistenza di Israele.


In un tale contesto, la creazione di uno "Stato democratico laico" - che i palestinesi chiedono programmaticamente - potrebbe risultare solo a partire da una lotta multinazionale, e non da una lotta puramente nazionale; ma invece è stata esattamente questa la lotta che finora le organizzazioni guerrigliere palestinesi hanno condotto. Ovviamente, non voglio dire che i palestinesi avrebbero dovuto rinunciare alla loro lotta, e aspettare che gran parte della popolazione israeliana si unisse a loro nella lotta contro il sionismo. Tuttavia, qualsiasi movimento che si ponga come obiettivo uno "stato democratico laico" in cui ebrei, musulmani e cristiani dovrebbero vivere insieme dovrebbe distinguere – anche nella guerriglia – tra quegli israeliani che possono essere possibili alleati e quelli che non lo saranno mai. Non voglio entrare nel merito del fatto che – curiosamente– il programma dell'OLP determini i gruppi in base a delle distinzioni religiose, piuttosto che nazionali, e che gli ebrei ai quali sarebbe permesso di vivere in una futura Palestina sarebbero solo quelli che – a seconda della versione – vivevano lì prima del 1917, o prima del 1948. E questo non è un argomento astratto, nel senso che le lotte multinazionali sarebbero migliori di quelle nazionali. Un movimento palestinese puramente nazionale al massimo sarebbe in grado di liberare solo quelle aree in cui i palestinesi costituiscono la maggioranza della popolazione; e un tentativo nazionalista di "liberare" il resto della Palestina non sarebbe più una guerra nazionale di liberazione, ma una guerra tra due nazioni. Se questa lotta fosse davvero antisionista, anziché essere semplicemente diretta contro gli ebrei che vivono in Palestina, allora questo programma dovrebbe manifestarsi nelle azioni stesse. E ciò non avviene. Le azioni di guerriglia non hanno fatto distinzioni. Questo è valso anche per il Fronte Democratico Popolare per la Liberazione della Palestina (FDPLP), che ha sempre sottolineato la necessità di contatti con elementi progressisti all'interno di Israele e che sperava in una possibile alleanza di classe con gli ebrei "orientali" di Israele. [*2] Nel 1974, il FDPLP attaccò una scuola nella città di Maalot, nel nord di Israele, e prese in ostaggio gli studenti. La popolazione di questa città è composta quasi interamente da ebrei orientali della classe operaia. L'azione non è stata all'altezza del programma. Bisogna vedere quali sono le azioni dei gruppi politici, e non limitarsi solo a leggere il loro programma. Le azioni dei guerriglieri hanno rivelato il nazionalismo che il programma dei fedayn nega. Queste azioni,  agli occhi della maggioranza degli israeliani, finiscono per contribuire a legittimare il sionismo e a far apparire la lotta alle masse palestinesi come una lotta puramente nazionale, senza alcun contenuto sociale. Ciò ha avuto degli effetti politici devastanti anche in relazione alle lotte in Giordania e Libano. A differenza di molte altre lotte, il conflitto israelo-palestinese è caratterizzato dal fatto che la guerra non esaspera le contraddizioni sociali esistenti in entrambe le parti, ma piuttosto le nasconde. Pertanto, mi ponfo delle domande sui possibili effetti di gruppi, come il FPLP, i quali si rifiutano di negoziare con gli israeliani e mirano alla liberazione "militare" di tutta la Palestina (e questo indipendentemente da come i diversi regimi arabi usino i diversi movimenti palestinesi ai fini delle proprie rivalità). L'effetto ottenuto da una simile politica, non è quello di infiammare, bensì di congelare i conflitti sociali in Medio Oriente, o tradurli in categorie nazionali. Ecco perché è così complementare alla politica israeliana: ai sionisti, che sia in atto una lotta nazionale permanente, o la sua minaccia, è necessario tanto per la loro ragion d'essere quanto per la stabilità interna. Questo, in passato negli Stati arabi, ha assolto la funzione di equiparare la "rivoluzione araba" alla "rivoluzione palestinese", e quest'ultima alla riconquista della Palestina. In questo modo, tutti i conflitti sociali rimangono bloccati all'interno dei conflitti nazionali. Chiunque rifiuti una soluzione di pace che includa uno "Stato parziale" palestinese, è assai miope. Ovviamente, una soluzione di pace del genere è nell'interesse immediato dell'imperialismo. E ovviamente uno Stato come questo non potrebbe essere altro che un mini-Stato governato da una borghesia nazionale e dai burocrati dell'OLP, sovvenzionati dal denaro saudita. E altrettanto ovviamente, all'inizio un simile Stato lascerebbe intatta la struttura del sionismo. Ma tuttavia, disinnescando il conflitto nazionale, un tale accordo di pace finirebbe per contribuire, molto più efficacemente rispetto a decenni di guerriglia inefficace, a minare il sionismo. Solo a quel punto, si aprirebbe la possibilità che ci siano delle dispute sociali i grado di trascendere i confini nazionali; dispute che potrebbero portare alla creazione di Stati "democratici laici", non solo in Palestina, ma in tutto il Medio Oriente. È per questo che Israele è pronto a fare la pace con i paesi arabi esistenti, ma non – quanto meno non senza una fortissima pressione esterna – con i palestinesi. Per contrastare il carattere nazionalista dei conflitti in Medio Oriente, la pace con i palestinesi è assolutamente necessaria, ed è esattamente questo, ciò che Israele non vuole, poiché attaccherebbe la legittimità politica del sionismo. Ed è per questo che io sostengo che gruppi come il FDPLP, che ammantano di slogan antimperialisti marxisti-leninisti quello che non è altro che il loro massimalismo nazionalista, stanno facendo esattamente lo stesso gioco degli israeliani. Antimperialismo non può significare solo resistenza contro l'oppressore immediato e contro le potenze che lo sostengono. Deve anche mostrare l'intenzione di costruire una società la cui struttura sia antimperialista. In questo senso, l'antimperialismo del FDPLP, per esempio, ha più cose in comune con quello dei sionisti di destra degli anni '40, che condussero contro gli inglesi una lotta clandestina più incisiva di quella degli altri sionisti, di quanto ne abbia, ad esempio, con quella dei Viet Cong. Il grado di impegno militare in una lotta nazionale, non è necessariamente indice di radicalismo sociale.

Tutto questo non vuole essere affatto un atto d'accusa contro i palestinesi. Il loro nazionalismo è del tutto comprensibile, non solo moralmente, ma anche materialmente. Quale altro atteggiamento sarebbe possibile per delle persone che sono state sfollate, e che da allora hanno sempre vissuto al di fuori di qualsiasi struttura sociale reale, e per più di una generazione in dei campi profughi che sono stati permanentemente presi di mira dai brutali attacchi israeliani, e che sono stati usati dagli stati arabi, nei loro conflitti tra di loro, come se fossero delle pedine? Naturalmente, rivogliono indietro il loro paese. Tutto. Tuttavia, ci sono delle importanti differenze tra i palestinesi che vivono nei campi profughi, e quelli che vivono nei territori occupati. In questa sede non voglio fare accuse, ma cercare piuttosto di fare una valutazione, in modo da poter essere in grado di determinare fino a che punto io - come antisionista - sono disposto a dare solidarietà attiva ai vari gruppi palestinesi. Tuttavia, esiste ancora un'accusa a un certo livello, per quanto non sia rivolta contro i palestinesi. Ma contro la sinistra locale, la quale ha difficoltà a fare politica antimperialista analizzando e valutando una situazione, e che potrebbe invece arrivare a sostenere criticamente i movimenti antimperialisti; un atteggiamento questo, che richiederebbe un continuo processo di apprendimento politico. Invece, di solito sia assiste solo a un'identificazione acritica con questi movimenti. Se non vediamo questi movimenti con occhi aperti, corriamo il rischio di rimanere delusi, o disillusi in un secondo momento, senza imparare nulla, scegliendo solo quello che sarà il prossimo oggetto di identificazione. Questo antimperialismo a quello che è  l'atteggiamento della RAF nei confronti della violenza: i movimenti hanno una causa giustificata, ma questa giustificazione non vale per quelli che sono i loro effetti politici. Può darsi che il segreto che sta dietro molti tra quelli che sono di sinistra, sta nel fatto che sono dei nazionalisti a rovescio? Nazionalisti la cui patria si trova altrove? E nel caso in non è, ovviamente e dogmaticamente, a Mosca o a Pechino, allora si trova alternativamente in Algeria, Vietnam, Cuba, Palestina, Portogallo? Abbiamo bisogno di controbilanciare il senso di impotenza e di inettitudine, in patria, identificandoci acriticamente con i movimenti e i regimi di altri paesi? I partiti comunisti occidentali che sono rimasti più fedeli a Mosca sono quelli più deboli: il DKP  in Germania e il PC-USA. È una coincidenza che siano proprio quei settori della sinistra che hanno rotto i legami con Mosca o con Pechino che si sono mostrati, nel loro senso di impotenza, i più inclini a glorificare la lotta armata all'estero? Non siamo in grado stare in piedi da soli? Quando ricadiamo in questo schema di identificazione, rinunciamo a qualcosa che originariamente ci ha reso di sinistra: le nostre riflessioni critiche sulle nostre esperienze e la loro mediazione rispetto alla società in cui viviamo. Siamo diventati di sinistra, perché ci siamo rifiutati di lasciare che questa società continuasse a instupidirci. È stata proprio la nostra impotenza a esporci e a renderci disponibili a nuove forme di istupidimento.

- Moishe Postone - Pubblicato originariamente con lo pseudonimo di M. Lubetsky nel Vol. 10 di Autonomie. Materialien gegen die Fabrikgesellschaft. Francoforte, 1977/78 -

NOTE:

[*1] - Il riferimento è alle leggi antiterrorismo adottate durante il processo ai membri della RAF.

[*2] - Gli ebrei orientali sono quelli emigrati dai paesi arabi dopo il 1948, e che oggi costituiscono la maggioranza della classe operaia israeliana, circa il 60% della popolazione israeliana.

fonte: História e Desamparo

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