Una serie impressionante di convergenze riguarda l'invenzione della scrittura presso Sumeri, Egizi e Greci: la scrittura è un dono da parte di divinità impietosite davanti alle miserabili condizioni di vita degli uomini, costretti a trascorrere la loro esistenza nell'ignoranza, incapaci di capire i segni mandati dal cielo o di inventare i rimedi per guarire le malattie. Lo scriba, custode della memoria, era anche medico e indovino. Per la prima volta un volume tenta di approfondire il ruolo in seno all’amministrazione degli scribi egei responsabili della redazione dei documenti in geroglifico cretese, lineare A e lineare B. L’analisi attenta delle tavolette di Pilo dimostra che lo scriba, lungi dall’essere il capo di un determinato settore della burocrazia palaziale, era invece agli ordini di una aristocrazia di corte che gestiva le risorse dello Stato. Il suo ruolo era identico a quello degli scribi egizi che «nel Nuovo Regno rappresentavano una élite intermediaria che prendeva ordini dagli alti dignitari e li ripercuoteva sulla massa dei lavoratori di cui controllava le attività». Accanto ai documenti di archivio su argilla, ai testi votivi su pietra e alle iscrizioni vascolari, lo scriba egeo utilizzava anche come supporto della scrittura il papiro e la pergamena. Il numero impressionante di impronte di sigilli, stampate sulle cordicelle che avvolgevano i rotoli distrutti negli incendi dei palazzi, non lascia dubbi circa l’esistenza di una letteratura egea scomparsa che rappresentava l’essenziale della produzione letteraria dei «custodi della memoria» dell’Egeo dell’Età del bronzo.
«Con il suo sguardo di eternità, illuminato dagli occhi di cristallo e di quarzo, lo scriba del museo del Louvre, seduto, le gambe incrociate, un rotolo di papiro poggiato sulle ginocchia, è diventato l’emblema sublime di questi funzionari che costituivano l’ossatura degli Stati del Medio e Vicino Oriente e della Valle del Nilo. Grazie alle loro stesse testimonianze, sappiamo molto della vita quotidiana degli scribi, delle loro aspirazioni e dei loro sogni, dei rapporti difficili che a volte intrattenevano con il potere, del ruolo che fu loro assegnato dalle amministrazioni delle varie civiltà che per oltre tre millenni (dalla fine del IV al I millennio a.C.) si sono succedute tra il Golfo arabo-persico e il “Paese delle due Terre”, come definivano l’Egitto gli antichi faraoni».
(dal risvolto di copertina di: Louis Godart, "I custodi della memoria. Lo scriba tra Mesopotamia, Egitto ed Egeo". Einaudi, pagg. 296, € 30)
Elogio della scrittura (a mano)
- In un’opera monumentale, l’archeologo Louis Godart ricostruisce mitologie e fatti relativi all’invenzione della parola scritta. Un modo anche per riflettere su un atto solenne il cui fascino perdura anche nell’era dei tablet -
di Giuseppe Lupo
In una delle tante sale del Louvre, nel Dipartimento delle antichità egizie, si può ammirare la statua di un uomo accovacciato a terra, gambe incrociate, mani che reggono un rotolo di papiro e sguardo nel vuoto. È la raffigurazione dello scriba, conosciuto anche come scriba rosso, celebre icona di un’originale maniera d’essere al mondo: dentro il palazzo del potere, nel cuore della Storia, eppure in prospettiva defilata, come si addice a un testimone. Ciò che colpisce di questa scultura non è tanto il perfetto stato di conservazione del colore, nonostante il materiale di cui è composta, il calcare, risalga al III millennio a.C., quanto l’espressione degli occhi, quella ieratica fissità di chi sta in ascolto ed è tutto concentrato nell’immagazzinare informazioni, nell’inventariare dati, nel trascrivere numeri e parole in un luogo dal multiforme valore simbolico, poco conta se sia un rotolo di papiro o una tavoletta ricoperta da cera d’api o una pietra piatta o un foglio di carta bianca o addirittura, con un enorme salto nel postmoderno, un tablet. Lo scriba obbedisce a questo compito: trasferire la parola orale in parola scritta, tradurre (nel significato antico del tradere: trasmettere, affidare, tramandare, riferire, decodificare) la complessità congenita di un testo in maniera da fissare un ordine, una disciplina. «L’immobilità dello scriba è la sua libertà, la sua vittoria sul caos», afferma Leonardo Sinisgalli nel 1960, pensando alle caratteristiche dell’intellettuale nel secolo della modernità.
Perciò scrivere è un gesto solenne, un compito che contiene il culto della norma (Frank Lloyd Wright definiva il poeta «disconosciuto legislatore del mondo»), un esercizio sacerdotale che non solo conferiva prestigio a chi lo praticava nelle civiltà sorte intorno al Tigri, all’Eufrate, al Nilo, ma restituisce a noi l’archetipo di un rito. All’origine della scrittura agiscono diversi elementi che implicano, da un lato, il rapporto con il sacro e, dall’altro, i legami con la memoria, dunque con il mito del tempo che passa. Louis Godart riferisce due narrazioni provenienti dall’area mesopotamica. La prima racconta di un essere ibrido, di nome Oannés, con il corpo di pesce e la testa di uomo, venuto dal mare per insegnare i segreti delle lettere e dei numeri agli abitanti della Terra. L’altra narra del sovrano di Uruk, Enmerkar, che inviò un messaggero al sovrano di Aratta con un lunghissimo elenco di richieste. Poiché il messaggero non riusciva a tenere a mente ogni cosa, Enmerkar impastò l’argilla, ne fece una tavoletta e sopra incise le parole che – recita la leggenda – avevano la «forma di un chiodo». Tra le due storie, la seconda conserva un significato di gran lunga più emblematico sia perché fa risalire l’invenzione della scrittura a una necessità umana (e non a un dono divino), sia perché postula uno degli argomenti di maggiore fascino in termini di analisi calligrafica.
I filologi e i paleografi definiscono “forma dei segni” la maniera in cui uno scriba attribuisce un’impronta personale al carattere dell’alfabeto nel momento stesso in cui viene tracciato dalle sue mani. Osservare il movimento delle linee, analizzare il loro tortuoso tentennare o la chiarità del tratto, è ritenuto un metodo infallibile attraverso cui risalire alla paternità dell’autore. La grafia è la nostra voce, irripetibile come la nostra identità o i tratti somatici e, per quanto la tecnologia assicuri praticità, immediatezza, utilità rispetto alla scrittura a mano, a nessuno verrebbe in mente di rinunciare alla curva di un ghirigoro o al labirinto di uno scarabocchio, se è vero che proprio nella scrittura a mano è contenuta l’essenza geografica a cui apparteniamo. Per quanto mi riguarda, ho creduto e continuo a credere alla mia maestra delle elementari che metteva in scena il teatrino delle lettere per farcele capire meglio: la a somigliava a una vecchietta con il bastone, la b a una donna con il pancione, la l alle orecchie del cavallo, la t alle antenne sui tetti. Suggestioni più o meno identiche ci vengono da un testo di Giorgio Manganelli che risale a qualche decennio fa: «Vi è qualcosa di fondamentalmente diverso tra la grafia dei nostri libri, che presenta lettere solitarie, tutte accerchiate da una breve e deserta aureola di bianco, e la grafia araba: questa reca dentro le proprie volute il peso, il moto, la voluttà, la concentrazione dello scriba, i suoi estri e i fulminei languori; la grafia occidentale, latina, offre un album di disegni, di esempi, di modelli, di idee alfabetiche, la grafia araba è impensabile al di fuori della mano che la inventa, che la carica del suo specifico amore, ignora l’isolamento delle singole lettere ma trapassa per vie indirette dall’uno all’altro segno, ed ama intricarli, sovrapporli, allacciarli».
Se la grafia araba è un labirinto barocco, quella latina è un teorema razionale. Nel corpo a corpo che la mano dello scriba dovrà ingaggiare tra segno e assenza di segno, cioè tra detto e non detto, si cela un tema ancora più profondo. Omero aveva ratificato questa intuizione al verso 10 dell’Odissea: «Anche a noi di’ qualcosa di queste avventure, o dea, figlia di Zeus» (cito dalla traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi 1989). Chi, meglio di Omero, avrebbe potuto chiedere alla Musa l’opportunità di conoscere tutto di Ulisse e grazie a quel tutto comporre un poema assai più completo ed esaustivo? Invece si accontenta di qualcosa (tón amóthen), pronome indefinito che significa omissione, parzialità. Domandiamoci fino a che punto la Musa ha parlato al poeta e quanto invece, di quel che è entrato nelle orecchie, il poeta ha preferito occultare. L’Odissea diventa paradigma del narrare occidentale non per quel che racconta, ma per quel che tace, per i suoi vuoti e le zone d’ombra, per quell’aureola di bianco di cui parlava Manganelli, che sostituisce il vuoto delle parole rimaste nel sottosuolo. La ricchezza di un testo sta nello stato di sospensione, nelle intercapedini di inchiostro che si aprono, come una voragine o una vertigine, tra una lettera e l’altra di una medesima parola. Nell’ossessione di colmare i buchi, in quella imparagonabile delizia che spinge a combattere l’horror vacui, lo scriba va incontro al suo trionfo, esercitando quell’oscuro e forse imbattibile privilegio di offrire al mondo il diritto a salvarsi. Come Noè con la sua arca, come il contabile di Oskar Schindler che compila la famosa lista battendo sui tasti della macchina per ufficio, l’atto stesso di scrivere protegge da un diluvio altrettanto temibile: chiamiamolo oblio, chiamiamola dimenticanza, è una condanna che nasce dall’usura del tempo e dalle incursioni della Storia. Lo scriba vince perché salva (mai termine del linguaggio informatico poteva esprimere migliore profondità semantica), il suo lavoro costituisce l’ultimo baluardo contro la minaccia della dissolvenza e in questa sua altissima prerogativa, nell’illudersi di sfidare faccia a faccia il nulla della non memoria, si nasconde il segreto della sua arte: conquistare un barlume di eternità con una goccia di inchiostro, affidare un testo a chi verrà dopo e, così facendo, credere nella vita.
- Giuseppe Lupo - Pubblicato su Domenica del 1° ottobre 2023 -
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