L’ombra in esilio è il romanzo più radicale di Norman Manea: una riflessione sull’identità e sul senso inconciliabile di sradicamento che avvolge l’esistenza degli esuli del mondo. C’è un uomo di origini ebraiche al centro di questa storia, un sopravvissuto. È sopravvissuto all’Olocausto e al regime di Ceausescu, alla fuga che lo ha portato fortunosamente a Berlino, superando il Muro, e alla perdita di tutti i suoi affetti. Si fa chiamare Nomade Misantropo, perché – come quella del leggendario Ebreo Errante – la sua vita sembra destinata a un esilio senza fine. Nel percorso che lo condurrà a trovare una nuova casa negli Stati Uniti, sul suo volto appariranno i volti delle persone incontrate per la via, la sua voce diventerà un mosaico di quelle attraversate, la sua ombra l’insieme di quelle lasciate dalle luci altrui. L’ombra in esilio è il racconto di questo viaggio in cui si uniscono le storie maggiori e minori del Novecento. Un viaggio che viene vissuto dal Nomade sul piano reale e su quello letterario, intervallando l’orrore dei gulag ai romanzi di Robert Musil, il volto di Thomas Mann a quello della statua di George Washington, l’11 settembre alle poesie di Eugenio Montale. Un «romanzo collage», in cui Manea ripercorre i temi che hanno caratterizzato la sua ricerca narrativa fondendo assieme autobiografia e invenzione, storia e letteratura, la condizione di apolide con la «colpa» dei sopravvissuti, fino a giungere sulla soglia degli interrogativi centrali dell’esistenza umana: ma io, io che ho barattato l’intero mio passato per avere un futuro, io che oggi parlo e scrivo con una lingua diversa da quella che avevo, io chi sono?
(dal risvolto di copertina di: Norman Manea, "L’ombra in esilio. Romanzo collage", Traduzione di Roberto Merlo e Barbara Pavetto. IL SAGGIATORE, Pagine 368, €26)
L’uomo senz’ombra non ha parole
- di Demetrio Paolin -
Leggendo il nuovo, grande, romanzo di Norman Manea, "L’ombra in esilio", tradotto per il Saggiatore da Roberto Merlo e Barbara Pavetto, viene da pensare come la figura retorica dell’antonomasia lo innervi e lo inveri per intero: un’antonomasia particolare, cangiante, multiforme, ellittica, proprio come sono la struttura e la storia contenute in quest’opera dello scrittore romeno. Che non casualmente è definita «romanzo collage». L’antonomasia sta indicare la sostituzione del nome di un personaggio con una perifrasi o appellativo che lo rappresenti, nel caso de L’ombra in esilio noi ignoriamo il nome del protagonista, ne conosciamo via via gli appellativi: l’assonnato, l’addormentato, l’esule, il misantropo, il candidato, il professore, il nomade, il prigioniero eccetera. Lungo il corso delle 360 pagine, che raccontano la storia, mai verremmo sapere quale sia il nome di quest’uomo, professore, che con un colpo di fortuna, e una certa dose di corruzione, riesce a espatriare dalla Romania durante il regime comunista per approdare, dopo varie peripezie, negli Stati Uniti d’America. L’uomo senza nome è un insegnante, un intellettuale, esperto di circo, e ossessionato dalla Storia straordinaria di Peter Schlemihl, il romanzo dell’autore romantico tedesco Adelbert von Chamisso.
Il protagonista, i cui tratti biografici sono in parte riconducibili a Manea stesso, come ad esempio l’esperienza nel Lager durante la Seconda guerra mondiale (Manea bambino fu deportato in un campo in Transnistria dal regime fascista romeno alleato dei nazisti) e l’insegnamento negli Stati Uniti, vive la sua condizione di esule sradicato, orfano dei genitori, morti nel Lager, sopravvivendo alle storture della dittatura, costruendosi una esistenza fatta di libri — «Non si illudeva di vivere in un Paese, ma in una lingua» — all’ombra di un sentimento ineffabile e indicibile, che è l’amore fisico, incestuoso, per la sorellastra Tamar, anche lei orfana e sopravvissuta al Lager. Mentre Tamar, ribattezzata Agatha, come il personaggio femminile de L’uomo senza qualità di Robert Musil (uno dei testi che fanno da contraltare al romanzo di Manea), ha deciso di accettare la realtà, e in qualche modo di cambiarla, di modificarla, il protagonista soffre di una «fobia della realtà», che neppure l’amico Gunther, personaggio chiassoso e pantagruelico, ossessionato dalla colpa di essere tedesco, riesce a stanare. L’ombra in esilio è un romanzo pieno di sogni, filtrati secondo schemi libreschi e kafkiani, in una di queste visioni è Agatha stessa, o meglio la sua apparizione, a inchiodare il protagonista alla tremenda verità: «Non riesci a staccarti dalla cripta di libri in cui ti sei murato. E da loro che non riesci a staccarti, è da te stesso che non riesci a staccarti! Dalla futilità delle tue mura». Il protagonista vive una sorta di stato d’eccezione; egli non ha patria, ma esiste nei suoi libri, lontano dalla realtà che lo turba e lo porta a soffrire: potremmo definire questa condizione un totale sradicamento, termine che spesso torna nelle pagine de L’ombra in esilio, nel quale il «ramingo» non ha — letteralmente — luogo in cui stare. Il protagonista, date queste premesse romanzesche, non esiste, da qui l’assenza del nome, e il suo muoversi senza meta lo rassomiglia e affianca più ai fantasmi che alle persone reali; la sua vita, quindi, è simile a quella del personaggio di von Chamisso: anche lui non ha l’ombra, e non lascia segno della sua presenza e del suo passaggio sulla terra.
L’ossessione dell’essere esule, lontano e perduto si lega a un silenzio ostinato, inquietante, che perdura per tutto il romanzo, rispetto alla tremenda esperienza vissuta nel Lager. Rispetto alla vicenda nell’universo concentrazionario, che ha segnato l’esistenza futura, che ha alimentato in maniera costante la sua fobia della realtà e pervertito i suoi sentimenti amorosi, il protagonista diventa il taciturno, non dice nulla, al massimo accenna per ellissi. Tale testardo mutismo si riflette sulla sua condizione di costante migrazione, simile a quella dell’Ebreo Errante, condannato a vagare fino al compimento dei tempi. La testimonianza a proposito della deportazione, che ha distrutto la sua vita, quindi rimane monca: solo una volta il silenzioso parla, confessione estorta da un altro personaggio femminile, Eva, che diventerà infine la sua confidente, amante e amica: «Parlava del treno della morte, pieno di gemiti e feci, la Puzza su ruote, di cui aveva sempre evitato di parlare. Ripeteva ancora e ancora: la Puzza su ruote! Una sorta di spasmo». Questo è l’evento, il crinale lungo il quale si muove l’intera narrazione del romanzo, dagli anni Ottanta ai giorni nostri (passando per eventi traumatici come l’11 settembre). Ecco perché il protagonista è come Peter Schlemihl che perde l’ombra, e così facendo si priva del nome e dell’identità; nella favola la rinuncia all’ombra avviene a seguito delle lusinghe dell’Uomo grigio, figurazione di un male subdolo e meschino, un diavolo senza coda e corna: «Un gentiluomo educato, rappresentante della cultura borghese»; un demone grigio e trasparente simile a molti volenterosi carnefici educati e borghesi, che seguirono Hitler, nel privare altri uomini di nome, terra, casa, famiglia e esistenza.
Esilio, erranza e sradicamento sono per Manea l’esito di questa esistenza senza ombra e senza nome. In una pagina mirabile, quasi fossimo nel castello degli spiriti magni di dantesca memoria, vengono evocati gli spiriti di questo eterno fuggire, oltre a Ionesco e Cioran, «il signor Nabokov e sir Joyce e Herr Mann con suo fratello e Herr Brecht e Brodskij, Celan […]. Molti spagnoli, cacciati da Franco, […], la signora Irma, poetessa e musa del poeta italiano, e la brasiliana Lispector dell’Ucraina, Neruda e il vecchio Lampedusa. Seguiti dal turco Hikmet e dall’antico Ovidio». Siamo, infine, al cospetto di un catalogo, eminentemente libresco, di esiliati, perché nel viaggio della vita l’unica fedeltà — che lo «sradicato» mantiene salda — è verso la lingua, flebile ultima occasione di dichiarare al mondo la propria esistenza dicendo, come Abramo padre di tutti gli sradicati, «Hineni/Eccomi».
- Demetrio Paolin - Pubblicato su La Lettura dell'8 ottobre 2023 -
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