mercoledì 31 luglio 2019

La Grande Inversione

LA CENTRALIZZAZIONE DEL CAPITALE E LA CADUTA DEL SAGGIO DI PROFITTO
- Il peso del capitale fittizio a partire dalle evidenze empiriche del McKinsey Global Institute -
di Giordano Sivini

L’economia mainstream considera il sistema finanziario come creatore di ricchezza. Stavros Mayroudeas, economista greco, osserva che anche una parte degli economisti marxisti sono contagiati da questa tesi, e che il contagio viene espresso con molte sfumature slegando il profitto dal rapporto con la valorizzazione. « La tesi di base è che il capitalismo moderno ha subito una trasformazione radicale negli ultimi trent’anni. Il sistema finanziario, attraverso una serie di meccanismi innovativi, ha conquistato le posizioni di comando del capitalismo. È diventato indipendente dal capitale produttivo ed ha trasformato l’intero sistema secondo le proprie logiche » [*1].
Questa tesi porta a concentrare l’analisi sul rapporto D-D’, dimenticando che, in qualsiasi interpretazione che si richiami al marxismo, il capitalismo non può che essere identificato con la produzione di plusvalore, risultato della relazione D-M-D’. La centralità dei processi di valorizzazione è essenziale, sia quando si intende, con Harvey, che il capitale si trasforma indefinitamente, sia quando, a partire da Kurz, si sostiene che si è arrestata la sua capacità di produrre valore. Da qui muove l'interpretazione del passaggio dalla valorizzazione alla finanziarizzazione come risultato di una crisi del capitale produttivo di merce che provoca l’inversione del suo rapporto con il capitale produttivo di interesse. Questo, non potendo accrescersi nel circuito D-M-D’, si riversa su D-D’ e produce capitale fittizio [*2].
L’attuale inversione non è riconducibile alla teoria delle crisi segnate da temporanee inversioni nelle quali il credito contribuisce a riattivare il movimento di un capitale che continuamente si ridefinisce. Fino a quando di questa riattivazione non emergono almeno i sintomi, non si può scartare l’ipotesi che la crisi attuale vada collocata nella fase terminale del tempo lungo della caduta del tasso di profitto, una volta esaurita la capacità del capitale di produrre controtendenze. A stimolare una riflessione in proposito arrivano i dati di un rapporto del McKinsey Global Institute (MGI) [*3], multinazionale di consulenza manageriale che monitora il movimento del capitale globale. Presenta i risultati economici comparati delle più grandi società madri del mondo nel 2014-16 e nel 1995-97. La rielaborazione di questi dati, dei quali si dà conto più avanti, mette in evidenza che è in atto nell’ultimo ventennio un processo crescente che MGI definisce di “distruzione di valore” le cui cause vengono attribuite al capitale finanziario. Una interpretazione basata su categorie marxiane del rapporto di MGI porta a conclusioni fondate empiricamente. Il capitale fittizio, a fronte del credito anticipato per la valorizzazione, obbliga il capitale produttivo di merce (inteso come insieme delle più grandi società mondiali), a trasferire a chi lo detiene una quantità sorprendentemente alta di rendimenti che riduce drasticamente il profitto. La centralizzazione viene accelerata perché gli effetti sulla realizzazione delle merci sono selettivi. La dinamica competitiva spinge le società con margini di ricavo più alti verso posizioni oligopolistiche e le altre verso condizioni zombie che rimangono in vita fino a che il capitale fittizio trova modo di appropriarsi del valore che a fatica producono.
 
Grande inversione e caduta del tasso di profitto
Nello schema marxiano dell’accumulazione il capitale produttivo di merce è denaro che si accresce attraverso il plusvalore, prodotto dal lavoro vivo, appropriato privatamente per essere realizzato nella forma della merce e generare profitto. Il capitale produttivo di interesse è invece denaro che si accresce con una parte di quel profitto, come interesse eccedente il rimborso del credito anticipato al capitale produttivo di merce affinché si riproduca in maniera allargata. Si tratta di due forme di capitale prodotte dalla valorizzazione, che alimentano il processo di accumulazione, entrando in relazione all’interno del circuito industriale in cui si muove il capitale nelle sue forme di denaro e di merce. Quando la relazione viene formalizzata, il capitale produttivo di interesse ottiene un titolo di credito in base al quale il capitale produttivo di merce si impegna con il profitto risultante dalla valorizzazione a pagare interessi e a rimborsare il debito. Se, invece di erogare credito, il capitale produttivo di interesse entra in compartecipazione con il capitale produttivo di merce, questo emette un titolo azionario impegnandosi a versargli parte dei profitti come dividendi. Gli accordi avvengono nel circuito industriale, i titoli si generano nel circuito finanziario, nel quale entrano anche i titoli pubblici che lo Stato emette facendo gravare gli oneri degli interessi e del debito sul bilancio pubblico.
I titoli sono definiti da Marx capitale fittizio in quanto, a differenza delle merci, non sono frutto di un processo di produzione che attribuisce loro un contenuto di valore. Sono emanazione del capitale produttivo di merce, al quale restano legati in quanto ‘attività sottostante’ che li remunera. Si muovono nel circuito finanziario come strumenti per incanalare verso chi li detiene il denaro proveniente dal settore industriale nella forma di rendimenti (interessi, dividendi) e di plusvalenze generate da variazioni del loro prezzo negli scambi.
La relazione D-D’ è incardinata nel circuito industriale, in quanto D’ è la quantità di denaro, comprendente il rimborso del credito e degli interessi, al quale deve far fronte il capitale produttivo di merce con parte del profitto. L’incremento ?D, costituito dal denaro corrispondente ai rendimenti, passa dal circuito industriale ai detentori del capitale fittizio. Se la valorizzazione momentaneamente si blocca e il profitto non viene realizzato, la relazione col capitale produttivo di interesse resta aperta e deve essere rinegoziata. Quando invece viene realizzato il profitto, ma la parte che resta dopo la liquidazione del debito non trova occasioni di reinvestimento produttivo, il relativo denaro si riversa nel circuito finanziario per l’acquisto di titoli e per attività speculative. I titoli sono dunque lo strumento del trasferimento della quantità di denaro ?D, che esiste nella forma di ricchezza reale nel circuito industriale, a coloro che ne detengono la proprietà in forza del credito che hanno anticipato o dell’acquisto del titolo sul mercato finanziario. Se questo denaro viene investito nel percorso D-M-D’ nella forma di capitale produttivo di interesse, come credito che origina titoli e rendimenti, oppure nel percorso D-D’ come ricchezza per acquistare altri titoli, dipende dalla prospettiva di maggiori ricavi a parità di rischio.
Gli economisti marxisti citati da Mayroudeas definiscono il risultato ?D del processo D-D’ come profitto senza accorgersi che consiste in una sottrazione di valore. Profiting without producing, è l’espressione più evidente della confusione tra incremento di denaro nel circuito finanziario e in quello industriale [*4].
Il processo di accumulazione è soggetto a ricorrenti crisi, che nell’interpretazione di Harvey sono definite di sovra accumulazione. Sono dovute ad un blocco del movimento del capitale che viene superato con l’intervento del capitale produttivo di interesse, previa svalutazione di ciò che lo genera. « Il capitale detenuto sotto forma di denaro può essere svalutato dall’inflazione; la forza lavoro può essere svalutata dalla disoccupazione e dalla caduta dei salari reali; le merci detenute in forma finita o parzialmente finita vengono vendute in perdita; il valore incorporato nel capitale fisso può essere perso perché giace inattivo. I meccanismi sono diversi in ciascun caso e gli impatti variano a seconda del tipo di svalutazione » [*5]. Ogni crisi fa storia a sé, dal momento che, secondo Harvey, al suo superamento il capitale si ridefinisce. « Ritengo », scrive invece Bellofiore, « che un’interpretazione marxiana della crisi non possa essere sganciata dalla caduta tendenziale del saggio di profitto (...) interpretata come una sorta di meta-teoria delle crisi, che ingloba al suo interno le altre diverse teorie della crisi che si possono trovare o derivare dal Capitale » [*6].
Il saggio di profitto esprime il grado di valorizzazione dell’intero capitale anticipato, risultando dal rapporto tra plusvalore e capitale costante più capitale variabile. Marx ritiene che la caduta sia determinata dal processo storico non lineare ma cumulativo della crescita incessante della produttività costretta dalla concorrenza. Cambia la composizione tecnica del capitale in quanto il lavoro viene sostituito da macchine, e cambia anche la sua composizione organica, poiché il rapporto in valore tra capitale costante e capitale variabile si modifica in favore del primo. Poiché solo la parte variabile, nella forma del lavoro vivo, crea valore, la sua riduzione si ripercuote negativamente sul plusvalore e sul profitto.
Se la riduzione del profitto limita la capacità di riproduzione del capitale produttivo di merce, il capitale produttivo di interesse interviene con il credito per colmare il deficit di investimento. L’inversione provvisoria del suo rapporto con il capitale produttivo di merce rimette quest’ultimo in movimento con le proprie gambe realizzando una controtendenza rispetto alla caduta del saggio di profitto. La ripresa della produzione di plusvalore può dipendere dal contenimento dei costi del capitale costante o dalla espansione del commercio. Ma risulta soprattutto dall’indebolimento della forza contrattuale o della forza strutturale del lavoro, che consente il prolungamento e l’intensificazione del tempo lavorativo, la compressione del salario al di sotto del valore dei beni di sussistenza, l’aumento dell’esercito di riserva. Si aggiunge come controtendenza, secondo una recente letteratura, la finanziarizzazione, quando mitiga le conseguenze della riduzione dei redditi dei lavoratori con il loro indebitamento, e quando mobilita risorse a disposizione del capitale produttivo di merce per investimenti profittevoli su beni messi sul mercato dallo Stato. « In questo modo essa ha rallentato – e per alcuni anni invertito – la tendenza alla caduta del saggio di profitto » [*7].
La grande inversione tra capitale produttivo di merce e capitale produttivo di interesse sembra prospettare per il modo di produzione capitalistico la resa dei conti. Tutti i fattori che nel passato hanno stimolato processi di controtendenza rispetto alla caduta del saggio di profitto si rivelano inefficaci per rilanciare l’accumulazione allargata. Su questa resa dei conti si sviluppa nel marxismo una divaricazione interpretativa che trova fondamento teorico nella diversa concettualizzazione del capitale, come rapporto antagonistico tra capitale e lavoro oppure come soggetto automatico. Entrambi i fronti incontrano difficoltà ad elaborare una prassi adeguata alla situazione. In continuità con la storia dal movimento operaio, si postula la riattivazione del conflitto di classe pur senza individuare il terreno in cui far emergere la classe come soggetto. Per imboccare una qualche via che porti a una qualche forma di socialismo sarebbero necessarie nuove mediazioni con il capitale e con lo Stato. All’opposto, viene sostenuto un atteggiamento intransigente verso tutte le forme di cui si nutre un capitale, in esplicita rottura con il movimento operaio in quanto soggetto storico che ha accompagnato lo sviluppo del capitalismo rinunciando all’obiettivo del suo superamento, Manca però una strategia di mobilitazione per resistere alla compressione inarrestabile delle condizioni di vita. La ricerca della classe incontra i frammenti del lavoro salariato e del terzomondismo. La lotta al capitale sembra esprimersi con la precaria insorgenza dei gilet gialli che faticano a liberarsi delle categorie storiche legate al lavoro.
 
Caduta del tasso di profitto e centralizzazione del capitale
Sulle sorti del capitalismo possono far luce alcune dinamiche del capitale produttivo di merce, sul quale il capitale fittizio è radicato. La centralizzazione del capitale è un processo legato all’andamento storico non lineare del tasso di profitto. Marx definisce la caduta del tasso di profitto come una minaccia per lo sviluppo dell’accumulazione e come leva della centralizzazione del capitale. A questa concorre il capitale produttivo di interesse, il quale, come credito e come capitale fittizio, è definito da Marx “immane meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali” utilizzato dal capitale produttivo di merce nella “espropriazione del capitalista ad opera del capitalista” e nella “trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi”. Tra i diversi modi in cui viene definita la centralizzazione del capitale due sono prevalenti. Uno registra il livello di controllo di pochi soggetti su consistenti insiemi di grandi capitali individuali. L’altro analizza la dinamica che rafforza alcuni grandi capitali a spese di altri. In un recente articolo è stata rilevata la mancanza di studi, e in particolare di studi accademici empirici, sulla relazione tra centralizzazione e crisi economica. « Ne consegue che l’esistenza o meno di una tendenza globale del capitale a centralizzare in poche mani, e le relative complesse dinamiche economiche strutturali che possono implicare, rimangono un mistero irrisolto » [*8].
Il contributo conoscitivo che viene dato da questo articolo riguarda la convergenza della proprietà azionaria relativa ad un insieme di 2750 società che nel mondo hanno una capitalizzazione superiore al miliardo di dollari, e la sua dinamica tra il 2001 e il 2016. Riprendendo una metodologia adottata da altri studiosi limitatamente al 2007 [*9], è stata costruita una “rete globale di controllo” sulle società costituita da nodi di relazioni tra grandi investitori. È stato constatato che un piccolo gruppo, non superiore al 2 per cento, è presente in un insieme di società monitorate, alle quali fa capo l’80 per cento del valore economico globale, e che nel periodo considerato c’è una tendenza all’aumento della concentrazione. Lo studio citato non ne indaga le cause. Indicazioni in proposito emergono invece dal citato rapporto del McKinsey Global Institute, che tuttavia non affronta il problema del controllo proprietario. Si occupa della ‘creazione di valore’, intesa come ‘profitto economico’, cioè profitto al netto dei costi finanziari [*10] delle società madri che nel mondo realizzano un fatturato medio annuo superiore al miliardo di dollari nei trienni 2014-16 e 1995-97. Per il 2014-16 sono prese in considerazione 5750 società, sia quotate in borsa sia a capitale privato, di cui il 20 per cento nel settore finanziario e nei servizi. Realizzano i due terzi dell’attività economica societaria globale con 10.7 triliardi di ricavi lordi medi annui sui 15.9 triliardi di tutte le grandi e piccole società [*11]. Stanno nella fascia più alta di un insieme di 33 mila società madri che hanno un fatturato superiore a 200 milioni di dollari, comprese a loro volta in una base dati di 600 mila società monitorate.

La loro distribuzione in decili secondo profitti economici (tabella 1) mette in evidenza che l’81 per cento del totale, pari a 1355 miliardi di dollari, sono centralizzati nelle 575 società del primo decile; il resto si distribuisce in misura decrescente tra il secondo e il quinto decile; mentre in quelli successivi ricadono società che non realizzano profitti economici, che cioè, nei termini del rapporto MGI, ‘distruggono valore’. Il risultato complessivo delle 5750 società madri è negativo per - 345 miliardi.
Una comparazione tra primo e ultimo decile sulla base di indicatori relativi alla struttura e alla dinamica societaria (tabella 2) mostra che la consistente produzione di profitti economici del primo decile e l’altrettanta consistente distruzione di valore dell’ultimo decile fanno capo a due aggregati di società divergenti quanto a dinamiche produttive.

Tra ricavi medi annui e numero di dipendenti c’è un modesto scarto tra i decili estremi, ma marcatamente più elevato rispetto alle società che ricadono nei decili intermedi. La dinamica positiva del primo decile è data, rispetto all’ultimo decile, da un rendimento sul capitale (ROIC) quasi 5 volte più elevato, e da ricavi dalla produzione al netto dei costi finanziari, delle imposte e degli ammortamenti (EBIT) di 3 volte superiore, conseguenza di una struttura molto meno gravata da capitale fisso utilizzato in maniera 3 volte più produttiva; da investimenti in R&D molto più alti; da una maggiore apertura al mercato estero [*12].
Le società dell’ultimo decile si distinguono per capitale fisso alto con risultati produttivi molto scarsi a fronte di una alta produttività del lavoro, bassi ritorni sul capitale investito, bassi investimenti in R&S. La mancata capacità di creare profitto è conseguenza di una struttura che non si rinnova. Il rapporto aggiunge che un quinto di queste società ricade nella categoria delle imprese zombie, aumentate dopo la crisi finanziaria, che stanno sul mercato competendo sui salari e sui prezzi, senza essere in grado di far fronte a tutti gli interessi sul debito [*13]. Tra i due decili estremi si colloca il 60 per cento di società con profitti economici che si aggirano attorno allo zero, molto più piccole in termini di struttura produttiva (capitale fisso e dipendenti) e ricavi. Nel complesso sono un po’ più dinamiche rispetto alle società dell’ultimo decile quanto ad investimenti in R&D, margini operativi e ritorni sul capitale investito, tuttavia hanno più bassa apertura all’estero e soprattutto la più bassa produttività del lavoro. I dati del 2014-15 messi a confronto con quelli relativi a 2450 società madri (il 30 per cento delle quali appartiene al settore finanziario e dei servizi) che nel 1995-97 hanno un fatturato medio annuo superiore al miliardo di dollari (tabella 3) indicano che, nell’assetto societario complessivo monitorato da MGI, si verificano nel ventennio due movimenti di centralizzazione, a livello complessivo e a livello societario: il numero delle grandi società aumenta di 2,4 volte, i profitti del primo decile di 1,6 volte, la distruzione complessiva di valore di 1,7 volte (nel 2014-16 il risultato negativo complessivo delle 5750 società è di -341 miliardi di dollari rispetto ai -205 delle 2450 società di venti anni prima).

La crescita dei profitti economici della fascia societaria più alta, che si rispecchia nelle perdite economiche crescenti della fascia più bassa, suggerisce, secondo il rapporto, « che oltre alle dinamiche specifiche delle società, potrebbe operare una dinamica macroeconomica più generale » [*14]. Questa osservazione, riferibile al processo di concentrazione, non viene tuttavia sviluppata. Anzi nel rapporto, al di là delle osservazioni relative ai decili, non si tirano neppure le somme del profitto economico totale nei due periodi, trascurando la persistente e crescente complessiva distruzione di valore.
Un’altra equipe di MGI fornisce però alcune indicazioni in una pubblicazione rivolta ai manager [*15]. Con ricchezza di riferimenti a situazioni societarie concrete vengono esaminati i risultati delle 2393 più grandi società non finanziarie del mondo dal 2010 al 2014. « Hanno avuto ciascuna un profitto operativo medio annuo di 920 milioni di dollari. Per realizzarlo hanno investito circa 9,3 miliardi di capitale, acquisizioni incluse. Dividendo una cifra per l'altra si ha un ritorno sul capitale investito del 9,9 percento. Ma gli investitori e i prestatori per compensare l'uso dei loro fondi hanno richiesto un rendimento di 8.0% (costo medio ponderato del capitale), pari quindi ai primi 740 milioni di profitti. Restano dunque 180 milioni di profitto economico » [*16].
Questi dati si riferiscono ad una società media, « ma il mercato intacca continuamente i profitti di ciascuna società » e provoca un andamento differenziato tra quintili che « sta diventando più ripido nel tempo » [*17]. Il primo quintile aveva un profitto economico annuo di 186 miliardi nel 2000-4 e dieci anni dopo di 684 (3.7 volte); l’ultimo quintile un risultato negativo di 61 miliardi aumentato a 321 (5,3 volte).
 
Conclusioni
Il rapporto MGI non analizza la distribuzione societaria del profitto netto realizzato con il capitale investito, ma quella del profitto economico, che risulta detraendo dal profitto netto il costo annuo di questo capitale, costituito sostanzialmente da interessi e dividendi destinati a chi lo ha anticipato. Già si è visto, per la società media non finanziaria nell’analisi per quintili, che il capitale complessivo di 9.3 miliardi di dollari costa annualmente 740 milioni tra interessi e dividendi, i quali vanno dedotti dal profitto operativo netto annuo di 920 milioni di dollari, così che il profitto economico è di soli 180 milioni, pari al 20 per cento del profitto netto. Il restante 80 per cento, secondo MGI, va ad alimentare il capitale finanziario [*18].
Per estendere l’esame alle società analizzate da MGI secondo decili si può fare riferimento all’indicatore EBIT della tabella 3, che esprime, in percentuale rispetto al profitto operativo netto, il risultato societario prima delle imposte, degli oneri finanziari e degli ammortamenti. Le società del primo decile hanno un EBIT di 10.1, quelle dell’ultimo di 3.3, e per quelle dei decili mediani 3.8. Posto 100 il profitto operativo, ciò che gli viene sottratto da oneri finanziari, imposte e ammortamenti è pari rispettivamente a 89.1, 96.7 e 96.2 per cento. Si ricorderà che secondo MGI solo le società del primo decile realizzano un profitto economico positivo, quelle mediane si aggirano attorno allo zero; quelle dell’ultimo decile distruggono valore. La distruzione complessiva di valore in aumento nell’ultimo ventennio è dunque dovuta all’appropriazione del ricavato delle attività produttive da parte del capitale finanziario.
Al fine di una sintesi basata su categorie marxiane si può assumere che le informazioni fornite da MGI siano tutte riferite a società non finanziarie, dal momento che queste ultime, non separabili dalle altre, costituiscono solo il 30 per cento del totale nel 1995-97 e il 20 nel 2014-16.
Nel processo produttivo – si sa – il capitale variabile produce valore come lavoro vivo; il capitale costante trasmette invece al prodotto il valore che già incorpora. L’uno e l’altro realizzano valore e plusvalore se ne vengono anticipati i costi: il capitale costante in quanto materie prime e mezzi di lavoro, il capitale variabile in quanto salari. Il costo del capitale costante è determinato dal mercato; quello del capitale variabile può essere compresso a seconda della forza contrattuale e strutturale del lavoro.
L’anticipazione dei loro costi viene fatta dal capitale produttivo di interesse dietro emissione di titoli che esigono rendimenti i quali aumentano questi stessi costi. I titoli si incuneano dunque tra il plusvalore e il profitto riducendo quest’ultimo, che è eguale al plusvalore una volta detratti i costi di produzione. Si riduce anche il saggio di profitto in quanto costituito dal rapporto tra plusvalore e costi di produzione.
Naturalmente per realizzare il plusvalore e il profitto è necessario che siano vendute le merci prodotte. Il trasferimento sui loro prezzi dei maggiori costi di produzione dipende da diversi fattori. Per definirli è utile distinguere in seno al capitale produttivo di merce tra le società che si trovano ai decili estremi della distribuzione MGI per profitto economico.
Quelle collocate nel primo decile cedono mediamente l’89 per cento dei ricavi al capitale fittizio. Realizzano però una alta redditività dal credito anticipato, che consente loro di contenere il trasferimento sul prezzo delle merci di tutti gli oneri che il debito comporta. Dispongono anche di risorse aggiuntive per svilupparsi dinamicamente rispetto alle imprese concorrenti. Si muovono verso posizioni oligopolistiche o le hanno raggiunte. Per esempio, « Apple e Samsung insieme, le due società produttrici top di smartphone, realizzano tutto il profitto economico del settore, mentre gli altri produttori distruggono valore » [*19]. Queste società investono in R&S per aumentare la sua produttività e ridurre gli immobilizzi in capitale fisso e quindi i costi del capitale costante e i sovra costi delle anticipazioni creditizie. Si allargano nel mercato, si espandono con fusioni e acquisizioni e probabilmente traggono ricavi da attività di credito al consumo e da investimenti speculativi in titoli. Distribuendo dividendi 2,4 volte più alti delle società dell’ultimo 60 per cento, vengono premiate dagli investitori « perché offrono ritorni in grado di battere il mercato » [*20]. Guidano il processo di centralizzazione del capitale produttivo di merce.
Le società che in varia misura hanno invece un peso di capitale fittizio tanto alto da non disporre di risorse per innovare, continuano a produrre valore riproducendosi in maniera non contingente. Si basano su una alta produttività di un ristretto numero di dipendenti fissi per ricavare ritorni economici scarsi da una quantità enorme di capitale fisso. L’OCSE lamenta che le imprese zombie, pur con persistenti difficoltà nel pagamento degli interessi, non scompaiono. Sono la manifestazione empiricamente eclatante della parte di capitale produttivo di merce che arranca, tenuto in piedi dal capitale fittizio che succhia valore fin che c’è. Mantiene l’ancoramento all’attività sottostante in maniera flessibile, allungando le scadenze dei rendimenti, rinnovandone le condizioni, moltiplicando i titoli.
Nella grande inversione il capitale fittizio spinge ad innalzare la produzione di plusvalore e di profitto oltre la soglia della sua remunerazione. Il capitale produttivo di merce può così disporre delle risorse necessarie per realizzare in maniera competitiva il valore prodotto nel percorso oligopolistico competitivo che lo centralizza, riproducendo su scala allargata solo la parte che le utilizza in maniera efficace. Condizione di competitività è l’aumento incessante della produttività del lavoro rispetto al capitale costante selettivamente investito per aumentare la massa di merci in un processo produttivo che riduce il lavoro vivo. Questo processo di centralizzazione, diversamente dal passato, non elimina le sopravvivenze della parte di capitale produttivo di merce gravato da elevati immobilizzi fissi, che danno scarsi ritorni economici nonostante l’alta produttività del lavoro. Le trascina invece fino a quando il capitale fittizio può nutrirsi del loro valore.

- Giordano Sivini - Pubblicato il 14 giugno 2019 su Palermo*Grad. La crisi vista dal sud -

NOTE:

[1] Mavroudeas S.T., The Financialisation Hypothesis and Marxism: a Positive Contribution or a Trojan Horse? Counterpunch, May 11, 2018.

[2] Sivini G., La grande inversione: dalla valorizzazione alla finanziarizzazione, Palermograd, 18 e 25 gennaio 2019.

[3] McKinsey Global Institute, Superstars. The dinamics of firms, sectors, and cities leading the global economy, Discussion Paper, October 2018.

[4] Lapavitsas C., Profiting without producing, London, Verso, 2013. Per legittimare nella prospettiva di Marx il termine profitto come risultato di operazioni finanziarie Lapavitsas fa incredibili contorsioni: cfr. pp. 141-144.

[5] Harvey D., Limits to capital, London, Verso, 2006,  p. 196

[6] Bellofiore R., La crisi capitalistica, la barbarie che avanza, Trieste, Asterios, 2012, p. 14.

[7] Giacché V., La caduta tendenziale del saggio di profitto e la crisi attuale, in Ponzi M. (a cura di), Karl Marx e la crisi, Macerata, Quodlibet, 2017.

[8] Brancaccio E., Giammetti R., Lopreite M., Puliga M., Centralization of capital and financial crisis: a global network analysis. Structural Change and Economic Dynamics, 45, 2018.

[9] Vitali S., Glattfelder J.B., Battiston S., The Network of Global Corporate Control. PLoS ONE, 6, 10, 2011.

[10] Il profitto economico eguale al profitto operativo netto sottratti i costi finanziari per remunerare investitori, azionisti e debitori.

[11] McKinsey Global Institute, Superstars. cit, p. 7.

[12] Ivi. p. 26.

[13] McGowan M.A., Andrews D., Millot V., The Walking Dead? Zombie Firms and Productivity Performance in OECD Countries, OECD Economic Department Working Papers 1372, 2017.

[14] Ivi, p. 2.

[15] Bradley C., Hirt M., Smit S., Strategy beyond the hockey stick: People, probabilities, and big moves to beat the odds, Hoboken, Wiley, February 2018.

[16] Ivi, p. 41

[17] Ivi, p. 47.

[18] Tecnicamente si tratta del WACC (Weighted Average Cost of Capital), costo ponderato dei rendimenti di tutte le fonti del capitale (azioni, obbligazioni e ogni altro tipo di debito a lungo termine).

[19] Ivi, p. 57.

[20] Ivi, p. 41.

fonte: Palermo*Grad. La crisi vista dal sud




lunedì 29 luglio 2019

Magia

L'opera di William Butler Yeats – l'ultimo dei romantici, l'artista che ha drenato e rivivificato i fermenti della décadence, il primo, in più di un senso, dei moderni – si sviluppa aggiogata con estro e piglio unici a una ricerca interiore strettamente collegata alla tradizione ermetica. Alchimia, occultismo, astrologia, folklore, miti e leggende: nulla di ciò che è arcano gli è estraneo, e dietro l'ostensione conclamata delle dispute amorose, delle lotte politiche, delle battaglie teatrali, dell'inesausto certame poetico, una vena esoterica innerva quasi ogni suo testo e più di un gesto. Con candore inaudito, Yeats ha osato prospettare una lega di arte e vita, una pietra filosofale dell'arte. Perno della compagine sono i saggi qui proposti, che concepì – e battezzò – come «mitologie»: con la veemenza, lo smalto e l'irrisione che caratterizzano i suoi versi, esprimono il cimento di un artista che non teme di mettersi alla prova «alle Termopili». E il lettore incontrerà alcuni capisaldi di uno spericolato modus operandi: la via del camaleonte, la dottrina delle maschere, la disciplina eroica dello specchio. Così, in pagine narrativo-speculative ineguagliate per forza, forma e contenuto, è dato ancora leggere la prosa inglese ritmica più bella dall'antichità, «una prosa a diamanti scheggiati che con l'andar degli anni accresce la sua luce» (Elémire Zolla).

(dal risvolto di copertina di: W.B. Yeats, "Magia". Adelphi)

Yeats, la poesia è una rosa alchemica: sono gli spiriti a dettarci i versi
- di Paolo Bertinetti -

Nel 1923 il Premio Nobel per la letteratura fu conferito a W. B. Yeats per «la sua poesia sempre ispirata, che esprime lo spirito di un’intera nazione». Altrettanto «ispirati» sono gli scritti che Ottavio Fatica ha raccolto e curato nel volume intitolato Magia , chiudendolo con un suo splendido saggio in cui percorre gli aspetti cruciali dell'atteggiamento di Yeats nei confronti della creazione poetica e del suo interesse per il soprannaturale. Il giovane Yeats (era nato nel 1865) aveva aderito nel 1890 alla società segreta magico-iniziatica dell'Ordine Ermetico dell'Alba Dorata: e la natura di questa sua adesione, determinante per molti aspetti della sua produzione poetica, sta alla base dei saggi raccolti in questo volume.
Yeats è ricordato soprattutto per le sue poesie, che anche di recente sono state riprese per le occasioni più diverse, soprattutto in campo musicale; mentre "Easter 1916", la sua lirica dedicata alla rivolta irlandese della Pasqua 1916, campeggia in ogni antologia della letteratura inglese del Novecento. A molti, tuttavia, gli scritti in prosa di Yeats sono del tutto sconosciuti, tranne forse "Rosa alchemica", pubblicata, tra l'altro, nella collana «Centopagine» dell'Einaudi per la traduzione di Renato Oliva.
"Magia", il saggio con cui si apre il volume, è uno degli esempi più alti del fascino della prosa di Yeats (e della sua passione per il soprannaturale). L'inicipit contiene la sua dichiarazione di fede: «Ho finito per credere a così tante cose strane, per esperienza, che non vedo la ragione di mettere in dubbio la verità di molte cose che esulano dalla mia esperienza; e magari ci sono esseri che vigilano su quell'antico segreto, come afferma tutta la tradizione, e non tollerano, e fors'anche puniscono, discorsi troppo disinvolti. [...] Più di una volta durante la stesura di questo saggio mi sono sentito a disagio e ho stralciato un paragrafo, non per ragion letterarie, bensì perché un episodio o un simbolo che forse non avrebbe significato niente per il lettore mi era parso, chissà mai perché, rientrare tra le cose occulte». Dopo di che, così indirizzato, il lettore potrà immergersi nella lettura di "Rosa alchemica", che racconta l'avventurosa iniziazione del poeta, tra effluvi di incenso, notti misteriose, sogni e risvegli, riti di tipo massonico e danze sufi al rallentatore, con fuga finale del narratore dalla torre dell'iniziazione inseguito da una piccola folla di pescatori. È soprattutto qui, oltre che nelle altre pagine del volume, che, come scrive Ottavio Fatica, è dato leggere la prosa inglese ritmica più bella dall'antichità: «una prosa a diamanti scheggiati che con l'andar degli anni accresce la sua luce», nell'estimo corretto e consonante di Elémire Zolla.
Questa sua attrazione per il soprannaturale e lo spiritismo, per altro molto diffusa sul finire dell'Ottocento e primo Novecento (seppure in modo non così morboso), ai nostri occhi può sembrare piuttosto ridicolo. O molto ridicolo. Il fatto è che per Yeats la magia non era tanto un tipo di poesia, quanto la poesia una forma di magia. E il suo ricorrere al commercio con gli spiriti, fa notare Ottavio Fatica, «produceva» poesia: «è incontrovertibile come ogni frangente della vita non facesse che alimentare e convogliare alla bisogna le forze spirituali così spesso invocate, o evocate». È pur vero però, che più avanti negli anni, a un giovane intenzionato a recarsi a Fontainebleau presso la comunità esoterica di Gurdjieff, Yeats consigliò di non andarvici, perché, in base alla propria esperienza, sapeva che sette di quel genere «cadono in mano ai ciarlatani». Accanto al fascino per il sovrannaturale, l'altra «ossessione» di Yeats era il nazionalismo irlandese, che si propose di servire, utilizzando i miti e le leggende popolari a lui care, attraverso i testi teatrali che scrisse e mise in scena allo Abbey Theatre di Dublino nei primi anni del Novecento. I gesti degli eroi e delle divinità gaeliche che dimoravano nel passato assoluto (quello dell'epica, per dirla con Hegel) avrebbero dovuto rafforzare, o almeno risvegliare, il senso d'identità del popolo irlandese. In più di un'occasione ne risvegliarono il provincialismo bigotto. Yeats, più irritato che deluso, cercò altre strade, seguendo il suggerimento di Ezra Pound che lo aveva introdotto al linguaggio del teatro Nò.
Nel saggio intitolato "Certi nobili drammi del Giappone", scritto nel 1916,  Yeats raccontava di avere composto «un breve dramma che si può rappresentare in una stanza», senza scenografie e con tre musicanti ad accompagnare l'azione. «Ho inventato una forma di dramma raffinato, indiretto e simbolico, che non ha bisogno né del volgo né della stampa per coprir le spese: una forma aristocratica». E si proponeva di scriverne altri di questi brevi drammi, dando così vita a una «nobile forma» di teatro da camera. Che tuttavia non è teatro, perché il teatro ha bisogno del «volgo», cioè degli spettatori che, seduti in sala, partecipano a quella che (oggi come allora) è la «più sociale» delle arti.
Questo chiudersi di Yeats nella torre d'avorio della raffinatezza preclusa ai comuni mortali ebbe poi anche un risvolto politico pateticamente reazionario, che affiora nelle pagine finali dell'ultimo saggio qui raccolto. Meglio dimenticarle e ricordare le sue ultime splendide liriche e questa sua prosa «a diamanti scheggiati che con l'andar degli anni accresce la sua luce».

- Paolo Bertinetti - Pubblicato sulla Stampa del 15/6/2019 -

venerdì 26 luglio 2019

Pseudonimi!

Servendosi di documenti e dichiarazioni, Carlo Zanda ricostruisce il tortuoso percorso che ha portato uno dei più influenti scrittori italiani del Novecento a scegliere la strada dell'anonimato per la pubblicazione di un'opera in cui credeva molto e che desiderava firmare con il proprio nome. Un mistero che ad oggi non è mai stato risolto. C'è un avvenimento nella vita di Primo Levi, quando per pubblicare un libro a cui teneva molto, il terzo, dovette rinunciare al suo nome in copertina e procurarsene un altro di facciata, che non è mai riuscito a conquistare l'interesse dei biografi e che forse, invece, merita un po' più di considerazione, perché costituisce un crocevia esistenziale nella sua avventura umana. Non sappiamo in base a quali strategie personali Levi ritenne più giusto sostenere in pubblico di essere lui il responsabile dello «sbaglio», così lui stesso lo definiva, fatto con le "Storie naturali" decidendo di firmarle con un nome fasullo. Lo fece però contro ogni evidenza, in contrasto con la logica dei suoi interessi, dal momento che desiderava firmarlo, e smentendo l'evidenza di documenti scritti e le nitide testimonianze degli amici.  Nelle biografie di Primo Levi manca un capitolo, il capitolo dello pseudonimo. Era l’estate del 1966 e Levi, dopo i successi di Se questo è un uomo e La tregua, si trovò all’improvviso di fronte alla necessità di inventarsi un nome fasullo per poter pubblicare il suo terzo libro, giudicato troppo leggero. Glielo chiedeva il suo editore. Alla fine Levi accettò e scelse di firmare Storie naturali con il nome che campeggiava sull’insegna di un elettrauto di corso Giulio Cesare, a Torino. In “Quando Primo Levi diventò il signor Malabaila“ Carlo Zanda racconta questo capitolo mancante, restituendo il giusto rilievo a uno snodo esistenziale cruciale, e non soltanto per ciò che comporta la rinuncia alla propria identità per qualsiasi uomo. Vediamo allora Levi recarsi ogni mattina al lavoro di chimico, rintanarsi la notte nello studio per evadere dal tran tran quotidiano, muoversi come un marziano in un mondo, l’editoria, che lo considera un intruso. In questa vicenda convergono alcuni dei motivi più significativi della biografia umana e letteraria dell’autore de I sommersi e i salvati: il bisogno di non restare chiuso nel ruolo di testimone della Shoah; il conseguente progetto coltivato con tenacia di diventare uno scrittore vero, riconosciuto come tale, capace di inventare storie e personaggi; infine, l’applicazione della dottrina appresa ad Auschwitz, che diventerà la sua regola di vita da individuo libero, per cui «il primo ufficio dell’uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga». Sullo sfondo, l’ombra dei ripetuti rifiuti (affettivi, razziali, sentimentali…) subìti sin da ragazzo da chi del nome era stato privato ad Auschwitz, come indelebilmente testimoniava il numero tatuato sull’avambraccio sinistro.

(dal risvolto di copertina di "Quando Primo Levi diventò il signor Malabaila", di Carlo Zanda - Neri Pozza)

Quando l’Einaudi chiese a Primo Levi di cambiare nome
di Simonetta Fiori

Il signor Malabaila bussò alla porta di Primo Levi una mattina d’estate del 1966, il primo agosto. Ad annunciarlo fu una lettera firmata dal direttore commerciale dello Struzzo. Tutto era già pronto in tipografia, le Storie naturali praticamente in stampa, ma all’ultimo momento tra gli einaudiani era circolato un dubbio. O meglio una “perplessità”, per dirla con lo stile felpato di Roberto Cerati: sarà opportuno che il Testimone, il Sopravvissuto, il Guru di Auschwitz metta la sua faccia anche su storielle fantascientifiche che niente hanno a che vedere con la sacralità della Shoah? Non sarebbe meglio, «più simpatico» dice Cerati, più «simpatico e utile» nascondersi dietro uno pseudonimo così da evitare confusioni anche nella strategia di vendita? Non sappiamo quante volte Levi abbia riletto quella missiva. Sappiamo solo che ne fu profondamente rattristato. E sappiamo anche che su questa storia sarebbe calato un inspiegabile silenzio. Un capitolo cruciale della sua avventura esistenziale che è stato ignorato dai biografi, anche i più meticolosi. Solo tre righe su Malabaila, niente di più. Come se l’imposizione di un nom de plume fosse un costume editoriale insignificante, un atto rituale passato senza lasciare alcun segno nel fragile impasto umano di Levi. Come se non si trattasse di una rinnovata richiesta di annullarsi, farsi da parte, nascondersi, dopo una vita costantemente minacciata dalla cancellazione di sé. A rompere il velo di reticenze provvede ora un bel libro di Carlo Zanda, giornalista di lungo corso ed autore di sofisticati libri su vicende letterarie apparentemente laterali. In "Quando Primo Levi diventò il signor Malabaila" (Neri Pozza) viene fatta un'operazione mai tentata prima: raccontare la storia dal punto di vista dello scrittore. Che cosa ha rappresentato il sacrificio della sua vera identità ad opera di quello che all'epoca era il santuario della cultura italiana? Prima crudelmente scippato della sua identità ad Auschwitz, il suo vero nome strappato da un numero tatuato sulla pelle, poi respinto nella veste di inopportuno testimone del lager nella stagione della rinascita, più tardi osteggiato nella legittima aspirazione a uscire dal confine concentrazionario per essere riconosciuto scrittore tout court. Davvero per Levi fu così semplice eclissarsi dietro il signor Malabaila, un nome che campeggiava sull'insegna di un elettrauto, in corso Giulio Cesare a Torino?
Per ricostruire questa storia bisogna rimettere insieme tutti i pezzi che curiosamente erano rimasti sparpagliati, senza un filo che li cucisse in un disegno dal significato inequivocabile. A cominciare dalla lettera di Cerati che ci racconta una storia diversa da quella narrata dallo stesso Levi, pronto ad assumersi la responsabilità della scelta dello pseudonimo «perché sarebbe potuto sembrare un tradimento o una diserzione» verso chi aveva indossato la divisa a righe. A chiedergli di inventarsi un alter ego fu invece la casa editrice, in una lettera di sapore gesuitico ma non priva di immediatezza. «Non le nascondo le mie perplessità circa la legittimazione di paternità», gli scrive Cerati. «Se io fossi Primo Levi lo firmerei con uno pseudonimo», in fondo sarebbe una cosa simpatica e utile, «simpatica perché sottintenderebbe nell'autore un vezzo, un estro, una ritrosia, un gentile pudore». E utile perché «è ben più facile fare leva e presa sul lettore della Tregua con uno pseudonimo-fantascienza che viceversa. Del resto non sarebbe possibile vendere un Levi-fantascienza ammiccando ad un Levi-Tregua. Lei ben lo capisce». In altre parole, se Levi non dovesse tenere conto del suggerimento di marketing, le vendite potrebbero fortemente risentirne. «È solo un consiglio personale», mente Cerati, il quale poi invia la stessa lettera al caporedattore Daniele Ponchiroli con l'aggiunta in inchiostro rosso: «Con il placet di Bollati ho mandato questa lettera a Levi. Vorrei tanto che sortisse l'effetto da tutti desiderato» (la lettera, inclusiva del post scriptum, viene pubblicata per la prima volta integralmente).

Poteva trattarsi di un'alzata di ingegno di Cerati? No di certo.
Tre settimane trascorsero dall'arrivo di quella missiva in casa Levi, al numero 75 di corso Re Umberto, e la risposta data dallo scrittore al civico 1 di via Biancamaro. Ventuno giorni e milleottocento passi che l'autore del libro indaga come successive tappe di una scelta tormentata, seguendo le tracce lasciate da Levi nelle conversazioni con Carlo Fruttero, negli scambi epistolari con Luciana Nissim, nei ricordi degli habitué del mondo culturale torinese. Quella era la prima estate in cui l'autore della Tregua poteva liberarsi dalla camicia di forza del Testimone, da un lutto che non sentiva più. La sua aspirazione era sempre stata di scrivere racconti di finzione, poi la vita aveva preso un'altra direzione - e che direzione! - e ora a 47 anni aveva compiuto il passo decisivo, consegnando allo Struzzo i suoi divertimenti fantascientifici, che poi non erano così distanti dai mostri partoriti dalla Storia. Finalmente avrebbe potuto ottenere il riconoscimento desiderato e imboccare «la sua via di fuga» esistenziale: qualcosa di più di una semplice ambizione culturale. «Se non avessimo successo», confessa alla sua amica Nissim, «per me sarà un guaio e la fine della parantesi letteraria». E invece dal suo editore arriva la richiesta di nascondersi, un'altra volta. In fondo, annota Zanda, c'è una sotterranea analogia con Romain Gary: entrambi costretti a cambiare identità per poter rimanere sé stessi. Passano tre settimane prima che Levi si decida a cedere il passo al signor Damiano Malabaila, perché alla fine era stata questa la lezione appresa al campo: «il primo ufficio dell'uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga».
Centrale in questa ricostruzione appare la testimonianza di Ernesto Ferrero, all'epoca capo dell'ufficio stampa dello Struzzo. È l'unico che non abbia esitato ad ammettere un duplice sbaglio: un errore culturale, attribuito al vizio del «politicamente corretto», e un errore umano che ferì profondamente Levi, intimamente persuaso che «l'umanità sia umanità, sia quando ride sia quando piange». Dice Ferrero: «Siamo stati noi enaudiani a chiedergli questa precauzione superflua. In realtà non avevamo capito allora quello che è diventato chiaro in seguito: che non ci sono due Levi, il memorialista e il libero narratore, ma uno soltanto in cui tutto si tiene. Difatti i "vizi di forma" dei racconti fantascientifici sono in realtà "vizi di sostanza"; le deformità del lager non si esauriscono con la liberazione, cambiano pelle, ce li ritroviamo nella vita di tutti i giorni, perché sono dentro di noi, soggetti fragili, facilmente manipolabili dai regimi autoritari, perfino dai più blandi».
Storie naturali, uscito con lo pseudonimo di Malabaila, non ebbe successo. La strategia messa a punto dalla casa editrice si sarebbe rivelata fallimentare, fino a quando il libro venne ripubblicato nel 1979 con il nome di Levi. Ma l'intento che anima la ricostruzione di questo capitolo finora oscurato non è polemico né contro la Einaudi né contro i biografi distratti, ma puramente risarcitorio: restituire la sua vera voce a un «imperdonabile» - secondo la categoria di Cristina Campo - ossia a uno di quei «cercatori di perfezione stilistica e di pensiero» per i quali la vita è un affare terribilmente complicato. Talvolta troppo complicato da poterla vivere fino in fondo.

- Simonetta Fiori - Pubblicato su Repubblica il 26/6/2019 -

mercoledì 24 luglio 2019

Fame!

Anselm Jappe: «Nessun problema attuale richiede una soluzione tecnica. Si tratta sempre di problemi sociali». - Per il pensatore tedesco Anselm Jappe, il capitalismo narcisista nel quale ci troviamo inseriti ha dato luogo alla società «autofaga» che, come nel mito, quando non c'è più niente in grado di soddisfare il suo appetito, finisce per divorare sé stessa. -

Anselm Jappe (Bonn, Germania, 1962) è un pensatore inclemente e vigoroso, allergico ad ogni argomento consolatorio e ai sotterfugi intellettuali. Da anni, insieme ad altri devianti da quella che è l'ortodossia marxista (Robert Kurz in Germania, Moishe Postone negli Stati Uniti, Luis Andrés Bredlow in Spagna) continua a mettere in discussione gli assiomi di una sinistra che negli ultimi decenni, secondo Jappe, è stata incapace di comprendere le trasformazioni del capitalismo . Per Jappe ed i suoi, il filo di Arianna che bisogna seguire, per poter decifrare lo spirito dell'epoca, è la cosiddetta "critica del valore": «Mentre il marxismo tradizionale si è sempre limitato a chiedere una diversa distribuzione dei frutti di questo modo di produzione, la critica del valore ha cominciato a mettere in discussione il modo stesso di produzione». [...] Il suo ultimo libro - "La Société autophage. Capitalisme, démesure et autodestruction", un esaustivo studio del meccanismo impazzito nel quale il sistema economico si è convertito, e su come il suo funzionamento ci stia portando a fare la fine di Erisittone. il re greco che finì per divorare sé stesso quanto arrivò al punto in cui non c'era più niente in grado di soddisfare il suo appetito - funziona come un'allegoria di una civiltà, la nostra, che, accecata dall'eccesso, si autodistrugge. Anselm Jappe, risponde qui alle domande che El Salto gli ha posto via e-mail:

El Salto: Lei parte dall'idea secondo la quale la "critica del valore" permette di dare un senso a fenomeni sociali, culturali e politici differenti che, a priori, sembrano non avere alcuna relazione fra di loro. Potrebbe spiegare che cos'è la "critica del valore", e perché ritiene che possa essere lo strumento più accurato per poter comprendere la società capitalista?

Anselm Jappe: « La critica del valore è una tendenza internazionale, nata in Germania alla fine degli anni '80 intorno alla rivista Krisis e a Robert Kurz, che propone una critica radicale della società capitalista basata sulle teorie di Marx, ma che prende le distanze dal marxismo tradizionale. La critica del valore pone al centro le categorie della merce, del valore, del denaro e, soprattutto, quella del lavoro astratto, vale a dire, il lavoro considerato solo per la quantità di tempo speso, senza tener conto del suo contenuto. Per la critica del valore, lo sfruttamento e la lotta di classe sono solo una parte del problema: il capitalismo è anche una subordinazione del concreto all'astratto, cosa che rende una società incapace di autoregolarsi, e questo lo vediamo nella crisi ecologica. La critica del valore si oppone alla frammentazione postmoderna del pensiero: la logica della merce e del lavoro astratto crea una teoria capace di pensare la totalità. »

El Salto: Nel libro, oltre la critica del valore, ricorre costantemente la psicoanalisi. Cosa può dirci oggi la psicoanalisi? In che modo integra la critica del valore?

Anselm Jappe: « Il feticismo della merce, una categoria critica essenziale di Marx che è stata ripresa dalla critica del valore, si riferisce ad un livello profondo ed inconscio della società. Al di là di quelle che sono i loro intenti coscienti, gli individui si trovano ad eseguire gli imperativi di un sistema sociale anonimo ed impersonale. Marx chiama il valore il «soggetto automatico». Da parte sua, la psicoanalisi è un altro modo di comprendere quel lato inconscio della vita sociale. Entrambi gli approcci sono complementari, ma devono però essere integrati: in generale, la psicoanalisi ha posto l'accento in maniera unilaterale sull'individuo, trascurando la dimensione sociale e la sua evoluzione storica, mentre il marxismo ha trascurato la dimensione psicologica a favore solo del livello economico e politico. Sotto la superficie razionale della ricerca dei propri interessi, il capitalismo rimane una società estremamente irrazionale e controproducente che non può essere spiegato solo mediante le motivazioni consapevoli degli attori sociali. »

El Salto: Perché dice che il '68 è l'anno inaugurale di un nuovo capitalismo, di un capitalismo che può essere chiamato "narcisista" in confronto al suo predecessore, il "capitalismo edipico"?

Anselm Jappe: « Il carattere sociale basato sul duro lavoro, sul risparmio, sulla repressione delle pulsioni, sull'obbedienza all'autorità, ecc., a partire dalla seconda guerra mondiale stava cominciando a non essere più funzionale. I profondi cambiamenti sociali avvenuti a partire dal 1968 non hanno portato, sotto alcun aspetto, al superamento del capitalismo, ma piuttosto alla sua modernizzazione. Molte esigenze di liberazione individuale hanno incontrato la loro pseudo-realizzazione nella società dei consumi. La sottomissione "edipica" ad un'autorità personale - per esempio, un maestro che predica "patria, lavoro e famiglia" - è stata sostituita dall'adesione ad un sistema che apparentemente permette che gli individui possano realizzare le loro proprie aspirazioni... Ma tutto questo a condizione, ovviamente, che ciò avvenga in termini di mercato! Ora, per esempio, gli insegnanti sono diventati degli allenatori che vogliono aiutare i giovani ad essere assunti nel mercato del lavoro e a realizzare i loro "progetti di vita". »

El Salto: Lei scrive che "le vecchie istanze di liberazione oggi sono integrate nell'ideologia del sistema". Anche la sinistra continua a rimanere legata ad una visione del mondo che non ha ancora assimilato tale rottura che lei afferma si sia prodotta nel 1968?

Anselm Jappe: « Di solito è così. C'è una tendenza assai diffusa ad identificare il capitalismo contemporaneo come le sue fasi passate  e a disinteressarsi dell'evoluzione che c'è stata.  Perché? Essenzialmente, perché è molto più facile concepire una visione dicotomica nella quale "noialtri" - il popolo, il proletariato, i lavoratori, il 99% - siamo i "buoni", contro una piccola minoranza che ci opprime. È assai più difficile ammettere fino a che punto tutti noi ci troviamo implicati nel sistema, e rimettere in discussione la nostra adesione personale a molti valori e stili di vita dominanti. »

El Salto: Come fare allora ad affrontare un sistema che, come lei dice, è un meccanismo cieco ed autonomo, del quale nessuno può assumersi la responsabilità e che non è possibile controllare?

Anselm jappe: « È essenziale il fatto che non si tratti di responsabilità personali - le quali, ciò nonostante, esistono; basta pensare alla Monsanto - Bayer e alle sue campagne di disinformazione circa la pericolosità dei loro prodotti come il Roundup - naturalmente, questo non impedisce che possiamo e dobbiamo opporci a qualsiasi deterioramento delle condizioni di vita che venga provocato da  una logica economica scatenata, che si tratti di una miniera o di un aeroporto, di un centro commerciale o di pesticidi, di un'ondata di licenziamenti o dalla chiusura di un ospedale. Tuttavia, allo stesso tempo è necessario cambiare la propria vita e rompere con i valori ufficiali assimilati, come quello di lavorare tanto per poter consumare tanto, e farla finita con gli imperativi della concorrenza, dell'efficienza, della velocità, senza domandarsi al servizio di chi si debba essere efficienti. »

El salto: Al netto dei pericoli che implica la digitalizzazione della vita, l'Intelligenza Artificiale e l'ingegneria genetica, che tipo di mondo ci stanno consegnando queste tecnologie che noi abbracciamo con entusiasmo, come esse fossero la soluzione ai nostri problemi?

Anselm Jappe: « L'opinione pubblica è perplessa e divisa nei confronti di queste tecnologie. I pericoli sono noti. Ma assai spesso vengono evidenziati anche quelli che sono i suoi presunti vantaggi: le piante geneticamente modificate aumentano i rendimenti agricoli, la ricerca genetica combatte le malattie rare, l'intelligenza artificiale gestisce intere città in maniera ecologica, l'utilizzo precoce dei computer serve ad aumentare l'intelligenza dei bambini... Si suppone che in ogni occasione si debbano soppesare vantaggi e svantaggi. Ma il vero problema, la vera questione è un'altra: non esiste alcun problema attuale che richieda una soluzione tecnica. Si tratta sempre di problemi sociali. Perché aumentare la produzione e i rendimenti agricoli per mezzo di colture transgeniche quando buona parte dei raccolti viene gettata in mare per poter mantenere alti i prezzi? Perché mescolare i geni per combattere malattie rare quando ci sono milioni di persone che muoiono per le malattie più comuni, provocate, ad esempio, dall'acqua contaminata? Perché gestire la città per mezzo degli algoritmi di Google, invece di, piuttosto, rinunciare alla plastica, al petrolio, alle automobili, al cemento armato o all'aria condizionata, per poter avere un ambiente più sostenibile? »

El Salto: Lei dice che uno dei grandi problemi della nostra società è quello per cui essa ci condanna a vivere in un'infanzia perpetua, perché il capitalismo, per poter funzionare, ha bisogno che noi restiamo come se fossimo bambini ?

Anselm Jappe: « Da una parte, ogni potere separato richiede sudditi infantili. Per molto tempo, a svolgere questa funzione è stata la religione. Sotto alcuni aspetti, il 19° secolo ha segnato l'inizio di un'emancipazione mentale a livello di massa, rispetto alla quale il 20° secolo rappresenta piuttosto una regressione. Più il consumatore obbedisce ai suoi impulsi immediati, più il mercato e lo Stato approfittano di lui. La tendenza ad un narcisismo generalizzato significa anche una regressione ad uno stadio primitivo dell'infanzia, dove non esiste una vera e propria separazione tra l'Io ed il mondo. Come spiego nel mio libro, questo narcisismo solipsista è legato alla logica del valore e del lavoro astratto, che nega l'autonomia del mondo allo stesso tempo in cui lo riduce ad un'emanazione del soggetto. »

El Salto: Cinquanta pagine del suo libro sono dedicate ad una riflessione sulle nuove forme di crimine e di terrorismo. Quali sono le caratteristiche di questa nuova violenza e di cosa ritiene che siano sintomi?

Anselm Jappe: « Il crimine è diventato altrettanto irrazionale ed autoreferenziale di quanto lo è la logica economica - l'accumulazione tautologica del lavoro, del valore e del denaro - e di quanto lo è la psiche narcisista degli individui. L'"Amok", nelle sue varie forme, è il supremo esempio di un crimine che ormai non obbedisce più alla realizzazione di un interesse, accettandone i rischi, ma è piuttosto, in questo caso, la distruzione e l'autodistruzione che si convertono in fine in sé stesso. L'odio del soggetto della merce per il mondo e per sé stesso, di solito normalmente latente, diventa qui manifesto, ed è per questo che colpisce con tanta forza l'opinione pubblica. E che poi a questo si aggiunga una qualche pseudo-razionalizzazione politica o religiosa, spesso è qualcosa di secondario: nel crimine gratuito, appare evidente quello che è il vuoto fondamentale che abita l'individuo contemporaneo, in quanto dominato da un'economia che è impazzita. »

El Salto: Lei scrive che «un ritorno allo stato sociale non è né possibile né desiderabile»: perché non è possibile, e perché non è neppure desiderabile? In che cosa consistono allora questi «compromessi sopportabili» dei quali si parla alla fine del libro?

Anselm Jappe: « Durante quella che è stata l'ultima grande epoca dell'accumulazione economica, il cosiddetto "miracolo economico del dopoguerra, lo "Stato sociale" è stato finanziabile. Oggi, spesso quest'epoca viene spesso ricordata con nostalgia, soprattutto in Francia, come un'età dell'oro. C'è una parte della sinistra che vorrebbe semplicemente ritornare a quella situazione. Tuttavia, la sua fine non è stata dovuta solamente ad una controffensiva del capitale in epoca neoliberista, ma piuttosto a quella che è stata la diminuzione oggettiva dei benefici come conseguenza della sostituzione del lavoro vivente - unica fonte di valore e di conseguenza del plusvalore e del profitto - con le tecnologie.
La rivoluzione microelettronica degli anni '70 ha intensamente accelerato la sparizione del lavoro vivente, e di conseguenza dei benefici, e infine della possibilità di finanziare lo Stato sociale. Va anche detto, inoltre, che la società degli anni '60 era rigida e noiosa, con un futuro del tutto già definito per i giovani. E fu contro quel modo di vivere che nel 1968 si sollevò la gioventù mondiale. La perenne precarietà, stabilita successivamente dal neoliberismo, è una sinistra parodia della vita avventurosa. Anziché sognare un capitalismo moderato, oggi bisogna spingersi al di là di una società in cui dobbiamo accontentarci delle briciole sotto forma di "protezione sociale".
»

El Salto: Quali sono i punti di forza, e quali le debolezze, che vede nel movimento femminista cresciuto negli ultimi anni?

Anselm Jappe: « Per certi aspetti, il movimento femminista ha avuto un'evoluzione paragonabile a quella del movimento operaio storico: dopo il rifiuto iniziale da parte di tutta la società che produce l'oppressione del gruppo stesso, si è cominciato a sforzarsi di cercare una integrazione migliore - in un caso, quella degli operai; nell'altro caso, quella delle donne - in un sistema che ormai non veniva messo veramente in discussione, e con qualche posizione privilegiata per alcuni portavoce. Gli operai ottennero il diritto al voto e, successivamente, un'automobile ed una piccola casa di proprietà; qualcuno è arrivato a diventare perfino ministro. Le donne, oltre a poter votare, hanno potuto diventare poliziotti, ed alcune di loro anche ministre. Ma la cosa non piace a tutti. Nel campus dell'Universidad Complutense [Madrid, Spagna] c'è un graffito che dice: "Contro il femminismo liberale".
La critica del valore, d'altra parte, si è trasformata in "Critica della scissione-valore", un termine un po' complicato che serve ad affermare che la "scissione" della sfera del non-valore in senso economico, tradizionalmente assegnata alle donne (essenzialmente, quelle che sono le faccende domestiche ed i comportamenti a tali faccende correlati), costituisce un presupposto essenziale della produzione di valore economico. Pertanto, la critica del patriarcato rappresenta una parte fondamentale della critica del valore: il capitalismo è patriarcale per sua natura, e senza l'abolizione del patriarcato non verrà superato.
»

El Salto: Come interpreta, a partire dalla critica del valore, l'ascesa del populismo e dell'estrema destra? Ritiene che il populismo sia trasversale e che abbia poca importanza il fatto che si riferisca a "quelli che stanno in basso" o alla "nazione".

Anselm Jappe: « Le diverse forme di populismo reagiscono ai mali sociali - soprattutto, all'iniqua distribuzione della ricchezza - identificando in questo un gruppo di responsabili personali: i ricchi, i banchieri, i corrotti, gli speculatori. Vengono ignorate le logiche sistemiche r tutto viene ridotto al moralismo ("all'avidità"). Quasi sempre, il populismo santifica il "lavoro onesto" opponendolo ai "parassiti". Pertanto, la differenza tra populismo "di destra" e populismo "di sinistra" non è poi così grande come si crede. Entrambi si basano su un falso anticapitalismo. Non si tratta di una novità assoluta; negli anni '20 e '30 del secolo scorso c'erano già simili fenomeni. Ecco perché l'antisemitismo ne costituiva un aspetto essenziale. Ma questo esiste anche al giorno d'oggi, in forma sotterranea ed a volte apertamente, nella denuncia dello "speculatore". »

El Salto: Nel suo libro sostiene che non viviamo in una società così laica come ci piace pensare che sia, e che Dio è stato sostituito dal Mercato. Possiamo vivere a prescindere dagli idoli e dagli dei?

Anselm Jappe: « Finora, nella storia un tipo di religione ne ha sempre sostituito un altro. La cosiddetta secolarizzazione non ha avuto luogo; sotto certi aspetti, la merce costituisce una religione più subdola di quella antica, perché ciascuna merce particolare rappresenta un essere fantasmagorico: la quantità di lavoro astratto che l'ha prodotta. »

El Salto: Anche lei crede che, com'è avvenuto per Erisittone, finiremo per autodistruggerci? Oppure saremo capaci di tirare il freno prima della catastrofe definitiva? Il capitalismo finirà andando a sbattere contro i limiti del pianeta, oppure inciamperà prima nelle sue stesse dinamiche?

Anselm Jappe: « Chi può saperlo! Il mio libro vuole essere semplicemente un piccolo contributo per poter evitare questa catastrofe. Può sembrare una fesseria, ma dipende da ciascuno di noi. L'atteggiamento, il comportamento di ciascuno rispetto a quelle che sono le sfide del presente non dipende più tanto dall'appartenenza ad una classe sociale, ad un paese, ad una razza, ad un sesso. Ciascuno di noi è chiamato ad assumere delle posizioni riguardo quelle che sono le molteplici questioni aperte. Le frontiere tradizionali (dominatori/dominati, ricchi/poveri, sud/nord del mondo) oggi appaiono essere un po' confuse, ma questo costituisce anche un'opportunità. Soprattutto è la questione ecologica e climatica quella che può essere alla base di un ampio movimento di contestazione... E che, ciononostante, incontrerà senza dubbio anche dei nemici. »

fonte: El Salto

martedì 23 luglio 2019

Radici

« Il rifiuto del lavoro salariato è un'affermazione dei bisogni radicali di libertà, di piacere, di esperienza ed è comprensione del carattere universale della rivendicazione di libertà dal lavoro di cui era portatrice la classe operaia di fabbrica e, pertanto, è un'implicita violazione delle regole produttive stabilite dal capitale e dalla mediazione sindacale. È il rifiuto più o meno organizzato dell'obbligo di produrre plusvalore. »

(dal risvolto di copertina di: "Il rifiuto del lavoro. Teoria e pratiche nell'autonomia operaia", di Ottone Ovidi. Editore: Bordeaux.)

Il rifiuto del lavoro
- di Ottone Ovidi -

Il rifiuto del lavoro è stato patrimonio dell’autonomia operaia degli anni settanta, intesa sia con la A maiuscola di organizzazione politica sia con la a minuscola di egemonia di pratiche nel movimento di quegli anni [*1].
La prima considerazione da fare riguarda la mancanza di ricerca storiografica sul tema, dal punto di vista della teoria e della prassi messe in campo dagli autonomi. Finora, infatti, l’interesse della gran parte degli storici si è concentrato su altri aspetti quali la violenza e l’illegalità teorizzate e/o praticate dagli stessi [*2]. L’attenzione accordata a questi temi ha messo in ombra quello che invece è stato un nodo centrale attorno a cui si è sviluppata l’autonomia e larghi strati del movimento di quegli anni fornendogli forza e, soprattutto, originalità. La teoria e la pratica, appunto, del rifiuto del lavoro.
Uno studio storico di quella stagione da questo punto di vista comporta una certa difficoltà. Le piccole e grandi realtà nascono e muoiono velocemente, vi è un continuo scambio e ricambio di militanti e mancando una direzione centrale o centralizzata le stesse regole per venire inclusi e autodefinirsi appartenenti a quest’area non sono rigide [*3]. Un ulteriore problema per lo storico consiste nella difficoltà di reperire documenti d’archivio perché il tipo di organizzazione di questi gruppi ha comportato una perdita notevole di materiale. Poi, bisogna ricordare e sottolineare l’effetto distruttivo che hanno avuto le perquisizioni, i sequestri, gli arresti, i processi e la condanna totale con cui tutto l’arco politico, istituzionale e culturale, ha bollato quell’esperienza. Tutto questo si aggraverà con l’imponente operazione giudiziaria nota come Teorema Calogero [*4], datata 7 aprile 1979, consistente nell’ipotizzare una direzione unica di tutti i movimenti rivoluzionari e lottarmatisti italiani, ai cui vertici si sarebbero trovati dirigenti politici dell'autonomia.
Per poter comprendere la portata e gli effetti delle teorizzazioni sul rifiuto del lavoro è necessario partire proprio dal concetto di lavoro. Riguardo a questo è interessante l'analisi svolta da Maria Turchetto che definisce così l’ideologia del lavoro: «Quel modo di pensare, largamente introiettato nella nostra società, che fa dell'attività lavorativa continuativa e retribuita il titolo normale e pressoché esclusivo di partecipazione alla vita associata. […] L'idea che sia il lavoro a conferire pieno diritto di cittadinanza è in effetti ampiamente trasversale, interclassista, condivisa da etiche laiche e religiose. É più di un ideologia: è senso comune, rappresenta cioè una norma di comportamento e di giudizio completamente assimilata e che dunque funziona, proceduralmente, senza passare attraverso un attento esame critico, come dispositivo disciplinare» [*5].
In assoluto gli autonomi non erano i primi a discutere tematiche antilavoriste. Possiamo ricordare che già nel 1887, Paul Lafargue aveva pubblicato il suo Diritto alla pigrizia, recentemente ripubblicato [*6]. Ma queste tematiche non si erano, prima di allora, mai tramutate in programma politico, in azione collettiva che uscisse al di fuori dal comportamento individuale avverso alla pratica lavorativa. Nessun movimento politico organizzato le aveva fatte proprie. Lo stesso Marx nei suoi Lineamenti fondamentali sosteneva bisognasse far si che il tempo di lavoro e il tempo libero smettessero di essere contrapposti, e immaginava uno sviluppo tecnologico tale da poter abbattere il tempo di lavoro a beneficio dello sviluppo culturale, artistico, scientifico degli individui [*7]. Solo l'ambito filosofico sembrava, all'inizio degli anni sessanta, interessarsi, seppur lontanamente, all'essenza di quello che definiamo lavoro, e al rapporto uomo – natura – lavoro [*8].

In Italia, è soprattutto il mondo dell’operaismo che comincia ad accorgersi di alcuni cambiamenti che si stavano verificando nelle grandi concentrazioni industriali [*9]. L’attenzione degli operaisti è attratta dalle pratiche di insubordinazione e sabotaggio che si erano diffuse e radicalizzate nelle fabbriche fino ad esplodere con l'autunno caldo del 1969. E’ allora che queste pratiche spontanee e diffuse vengono concepite come molteplici forme dello stesso rifiuto. E saranno la base su cui si formeranno i primi nuclei dell’autonomia. L’autonomia come progetto politico nasce in maniera simbiotica con il rifiuto del lavoro. L’evoluzione del rifiuto del lavoro come impianto teorico e come applicazione pratica va ricercata nella vita quotidiana dei militanti e non solo, negli espropri, nelle spese proletarie, nelle autoriduzioni delle bollette, degli affitti, nell’occupazione di stabili per motivi abitativi o culturali e/o politici, nel modo di lavorare di chi aveva un lavoro fisso e nelle modalità di vita di chi non lo aveva. Risulta chiaro quanto grande sia stata allora la novità, quanto grande l’impatto di una posizione come quella del rifiuto del lavoro praticata e propagandata dagli autonomi. La storia del rifiuto del lavoro è la storia della fabbrica, concentrato di esperienze storiche, di necessità quotidiane, di insoddisfazione nei riguardi dei sindacati e delle pratiche sindacali, di impegno politico ed ancora di metodi di lotta radicali: come il gatto selvaggio, il salto della scocca, i sabotaggi sulla catena di montaggio, lo sciopero a scacchiera o a singhiozzo, il rifiuto del cottimo [*10]. L’operaismo degli anni ’60 in Italia, al di là della costellazione dei percorsi politici che lo hanno animato, era declinato sulla centralità politica operaia, per cui la classe operaia era il soggetto politico e l’attore principale del cambiamento della società e della rivoluzione. Tuttavia l’operaismo rompe con la tradizione comunista dell’etica del lavoro e introduce l’idea-forza dell’odio degli operai per la propria condizione: « Ho l'impressione che si faccia troppo spesso coincidere la storia dell'idea moderna di lavoro con la storia del movimento operaio organizzato, il quale, se ha certamente almeno in parte interiorizzato tale idea, non ne è tuttavia l'artefice. […] Preferisco […] far risalire anche la genesi del lavoro, che alla modernità certamente appartiene, ai processi di formazione degli stati nazionali che inaugurano le tecniche del “biopotere”. » [*11].
Una volta nata, la figura di quello che verrà chiamato “operaio massa”, diventa portatrice di nuovi bisogni, desideri, comportamenti, istanze conflittuali. In definitiva di un diverso atteggiamento verso il lavoro e il proprio ruolo. Inizialmente la lotta operaia rivendicò l’egualitarismo salariale, indispensabile per coagulare i lavoratori, rompendo la linea di continuità tra mansione e retribuzione e cercando il riconoscimento dell’attività lavorativa in quanto tale, oltre le molteplici frazioni prodotte dal capitale tra categorie e competenze. Da subito, però, il conflitto lavorativo si spostò sui temi della nocività e del rifiuto del lavoro estendendo alle università e al territorio questa sensibilità, aggregando soggetti e generazioni diverse tra loro. Il modello industriale fordista, arrivato anche in Italia, aveva fatto nascere la figura dell’operaio-massa e quest’ultimo fuggiva da quella condizione. Le testimonianze degli operai raccolte in quegli anni, tramite lo strumento dell'inchiesta [*12], ci parlano di un grande malessere:
« Mi sono fatta mettere in malattia: con l'aria condizionata, le luci al neon e i telai c'è da impazzire. Il reparto noi lo chiamiamo Mauthausen.
Io sono entrata in fabbrica a dodici anni, quindici anni fa. Ero contenta di andare a lavorare. Mi trovavo bene. Adesso, ogni mattina che mi alzo, mi sembra di andare a morire.
» [*13].

Questo comportò lo sviluppo politico di pratiche che andavano dall’assenteismo in fabbrica al rifiuto del lavoro su tutti i terreni sociali. Il comportamento spontaneo, di massa, che gli autonomi richiamano è proprio quello del rifiuto del lavoro principalmente come estraneità, anche non cosciente, ai valori della società capitalista. I “nuovi bisogni” e le “nuove aspirazioni sociali” sono la causa di questo rifiuto e, quindi, proprio da questo rifiuto si deve partire per rendere cosciente la “classe” dei motivi del suo malessere. Il giornale raccoglie e rilancia questo programma politico. Nel numero del giugno 1969 il titolo in prima pagina era “Rifiuto del lavoro” e così si dipanava l’articolo:
« La rivoluzione operaia non può significare un nuovo nome per lo sfruttamento del lavoro vivo, può intendersi soltanto come possibilità concreta materiale di liberazione del lavoro vivo dall’intero apparato produttivo organizzato del lavoro morto, come distruzione dei rapporti capitalistici in ogni loro specificazione. » [*14]. Ecco come si esprimeva il Comitato Operaio di Porto Marghera: « Siamo liberi solo di alzarci ogni mattina e di andare a lavorare. Chi non lavora non mangia. È libertà questa? C'è una cosa che impedisce la nostra libertà: il lavoro, e a lavorare in realtà noi siamo obbligati. » [*15].
Per comprendere appieno l'aria che si respirava nelle grandi concentrazioni industriali basta prendere, ad esempio, le statistiche riguardanti l'assenteismo all'interno della sola Fiat: si passa dal 7% sul totale degli occupati nel primo semestre 1970, all'11% del secondo semestre, al 14-15% del 1972 [*16]. A tal proposito è bene ricordare l’occupazione della Fiat Mirafiori avvenuta nelle giornate del 29 e 30 marzo 1973. Un evento individuato come spartiacque tra i militanti dell'epoca [*17], e riconosciuto come importante ancora oggi. La novità fu la partecipazione continua e di massa, l’estraneità totale di figure sindacali di qualsiasi tipo, la completa autorganizzazione degli operai, insomma in quell’occasione si condensarono anni di esperienza di lotta in fabbrica. In questo senso le varie aree dell’autonomia non rivendicarono mai l’invenzione del rifiuto del lavoro, ma sostennero sempre di averlo preso dalla pratica quotidiana dei lavoratori, in particolare degli operai. L’operaio massa veniva interpretato dagli autonomi non solamente come categoria sociale e sociologica, ma, soprattutto, come categoria politica produttrice di lotte. Quindi il mito del “sol dell’avvenire” venne sostituito dall’immanenza delle lotte, dei desideri, del rifiuto del lavoro. L'etica del lavoro non faceva parte della cassetta degli attrezzi. L’errore che non si deve commettere è quello di considerare l’autonomia al pari di un partito (o gruppo extraparlamentare) classico poiché con “autonomo” non si intendeva solamente chi esplicitamente si richiamava all’area politica in questione, ma anche tutti coloro che, a vario titolo, mettevano in atto determinate pratiche, tra cui il rifiuto del lavoro: « L’Autonomia operaia non è soltanto la risposta ad una costrizione, ad una “negatività” imposta alla classe dalla crisi del capitale, ma vuole essere affermazione piena e consapevole della “positività” con cui già oggi il movimento marcia verso un nuovo assetto dell'organizzazione sociale e produttiva. Negli obiettivi, nei bisogni, nella pratica di chi lotta oggi […] ci deve essere già la prefigurazione delle diverse condizioni di vita e dei nuovi rapporti sociali a cui tendiamo e che nella società nuova vogliamo affermare. Nella tematica della riduzione dell'orario di lavoro c'è si la risposta alla cassa integrazione, ai licenziamenti, alla disoccupazione, ma c'è anche l'affermazione di una volontà nuova della liberazione dell'uomo a questo stadio della sua evoluzione e di un nuovo assetto del lavoro e della produzione socialmente utile. » [*18].

Le autoriduzioni, gli espropri, le occupazioni, il contropotere devono essere interpretate a partire da questa positività. Per gli autonomi il rifiuto del lavoro, del lavoro fatica, del lavoro espropriato significava richiesta di conquista di tutto il potere, di appropriazione di tutta la ricchezza sociale. Questo è il senso delle parole d’ordine lanciate all'inizio degli anni settanta dai primi gruppi autonomi: riduzione dell'orario di lavoro, riduzione dei ritmi, rifiuto della nocività, aumento salariale uguale per tutti [*19].
La necessità di espandere al territorio le tematiche sviluppate in fabbrica è conseguenza di questo significato. Per questo si aveva l'esigenza di avviare una ricomposizione della classe e delle lotte contro le divisioni che venivano concepite come strumentali e false nonché utili al capitale: tra lavoratori e disoccupati, precari e non, studenti e lavoratori, uomini e donne. Questa ricomposizione doveva partire essenzialmente dai bisogni comuni a tutto il proletariato, bisogni che ruotavano attorno al perno centrale del rifiuto del lavoro concepito come un momento unificante delle lotte. A questo proposito così scriveva l'Assemblea Autonoma di Porto Marghera:
« Quello che deve contraddistinguere l'Ass. Aut. è l'impostazione completamente nuova della lotta, sviluppando le capacità di generalizzazione delle parole d'ordine e dell'unificazione dei diversi settori di classe; praticando forme nuove di lotta, che contrappongano la capacità organizzativa operaia al padrone, attaccando la sua organizzazione del lavoro […]; portando la lotta sul sociale per ricomporre alla classe operaia i disoccupati, le donne, gli studenti e tutti gli altri proletari, riuscendo ad articolare dalla fabbrica al sociale il programma del salario garantito. » [*20].
Pertanto, negli anni ’70, le espressioni “potere operaio” e “classe operaia” per alcuni avevano mutato significato perché non ci si riferiva solo ad una figura economica o sociologica ma anche e, soprattutto, a quei soggetti, singoli e collettivi, produttori di autonomia e quindi intrinsecamente fuori dalla società del capitale, contro di essa. Riprendendo l'analisi svolta da un operaista come Mario Tronti, gli autonomi teorizzano il concetto di estraneità che caratterizzerebbe la nuova composizione operaia (quell'”operaio sociale” non più legato esclusivamente al lavoro di fabbrica) [*21]. Anche perché forte era il riferimento alla categoria marxista di capitale “sociale”, con cui si intendeva la tendenza del capitalismo ad estendere il dominio che esercitava in fabbrica all’intera società. Cioè l’industria dava ormai il volto e l’essenza a tutta la società capitalistica:
« E allora la coscienza politica di classe non nasce più dalla mera assunzione dell'antagonismo, ma dall'esigenza della liberazione, non semplicemente dalla coscienza della mostruosità del lavoro salariale, ma direttamente dal rifiuto del lavoro, non dalla necessità della produzione, ma dall'urgenza dell'invenzione. Nasce dal distruggere il rapporto salariale come legge della distruzione – ormai completamente irrazionale, non più legata a qualsiasi proporzione di sviluppo – di ogni bisogno proletario, di ogni autonomia di classe. Finalmente la lotta di classe operaia si mostra sempre più come lotta di liberazione. » [*22].

Questo lo spirito con cui veniva letta anche la scuola, definita “fabbrica speciale”. A ribadire che la società era modellata sull’esempio della fabbrica. Questa fabbrica-scuola andava inserita tra gli obiettivi da attaccare in quanto istituzione che riproduce la forza lavoro da sfruttare domani, perché inocula negli studenti l’abitudine al lavoro che altro non è che disponibilità ideologica a subire lo sfruttamento. Pertanto la lotta degli studenti avrebbe dovuto svilupparsi parallelamente a quella della fabbrica e del quartiere e puntare ad abbattere il costo della scuola, il costo dei trasporti, a boicottare la didattica, ottenere la promozione garantita sganciata dal “profitto” e il salario politico a tutti gli studenti [*23]. Lo scambio tra Autonomia e movimento fu talmente stretto e continuo che quest'ultimo venne contagiato dalle teorizzazioni autonome del rifiuto del lavoro. Dopo lo scioglimento delle principali formazioni extraparlamentari l'autonomia esercitò la sua egemonia sul movimento che adottò parole d'ordine da applicare nelle situazioni più disparate, e le mise in pratica nelle maniere più diverse. Il confine non fu mai netto e si espresse in tutta una serie di pratiche di appropriazione e riappropriazione [*24] largamente diffuse anche là dove di Autonomi non ce n'erano. Ma per alcuni militanti ormai il rifiuto del lavoro faceva parte del proprio background culturale e politico: « Per quel che riguarda la mia esperienza, il modo in cui sono entrata nel movimento, quel che mi interessava era la volontà che c’era di esprimere un rifiuto radicale del lavoro, della fatica, di tutte le cose che sono caratteristiche del capitalismo. Cioè non mi battevo perché ci fosse la bandiera rossa davanti alla fabbrica ma poi dentro si lavorasse allo stesso modo di prima. » [*25].
Nel febbraio 1977 comparve sui muri di Bologna un manifesto, vero è proprio sunto politico dell'autonomia, dove centrale risulta l'odio verso la società del lavoro:
« Finalmente il cielo è caduto sulla terra. La rivoluzione è giusta necessaria possibile. Sorprendente non è che gente rubi, ma che chi ha fame non rubi sempre. Sorprendente non è che operai facciano sciopero, ma che chi è sfruttato non scioperi sempre. Hanno tentato di convincerci che questa società fosse l'unica possibile, fosse naturale, un sistema che si fonda sull'espropriazione di tutta la nostra vita, sulla sua trasformazione in valore, un sistema fondato sullo sfruttamento, sul furto organizzato dell'invenzione operaia ci viene presentato come naturale. La lotta continua degli sfruttati per sottrarre il tempo di vita al lavoro, per guadagnare spazi di autonomia è il fondamento della liberazione. […] Chi ha detto che non si può produrre tutto ciò che occorre riducendo l'orario di lavoro e aumentando l'occupazione? Chi ha detto che non si può dare salario a tutti, aumentare i consumi, i servizi e soprattutto il tempo di vita liberato dal lavoro?» [*26]
Antonio Negri che di quella stagione dell’autonomia e del rifiuto del lavoro fu un protagonista così scrive: «Nessuna affermazione comunista, più di quella del rifiuto del lavoro, è stata violentemente e continuamente espulsa, soppressa, mistificata, dalla tradizione e dall'ideologia socialiste. Se vuoi mandare in bestia un socialista o se vuoi scoprirlo quando si copre di demagogia, provocalo sul rifiuto del lavoro. Nessun punto del programma comunista, lungo un secolo, da quando Marx parlava del lavoro come “essenza disumana” è stato tanto combattuto: fino a quando la scomunica del rifiuto del lavoro è divenuta taciuta, surrettizia, implicita, ma non meno potente: l'argomento è stato tolto. Ora, è su questo terreno indiretto che l'astuzia della ragione proletaria ha cominciato a restaurare la centralità del rifiuto del lavoro nel programma comunista. […] Nostro compito è la restaurazione teorica del rifiuto del lavoro nel programma, nella tattica, nella strategia dei comunisti. » [*27]. In definitiva, il movimento, la teoria, la pratica del rifiuto del lavoro si incardinano sul principio che il proletariato per rendersi indipendente, per procedere nel percorso della propria auto-valorizzazione, deve misurarsi con la capacità di trasformare il rifiuto del lavoro in misura del processo di liberazione. L’autonomia, in maniera coerente e più organica seppe interpretare un’esigenza, una sensazione che serpeggiava in tutto il movimento e intorno all’idea-forza del rifiuto del lavoro caratterizzò la sua identità e un modo di leggere l’intera società capitalista. ”Valore d'uso[*28] è la formula con cui gli autonomi descrivevano questo approccio alla vita. La pratica dell’appropriazione divenne il punto di identità più rilevante dell’area politica dell’autonomia: appropriazione di beni, espropri, illegalità di massa, autoriduzione delle tariffe, una diffusione di comportamenti antagonistici. Nella critica della politica in quanto separazione da sé e dalla possibilità stessa di trasformare il reale a partire dalla propria situazione di miseria, è contenuto forse il senso più vero di quello che si configurava come autonomia diffusa ed è ben sintetizzato in questo passaggio: Chi lotta per il lavoro non lotta si adegua […] Il comunismo non è lotta per un altro lavoro, è lotta per l’abolizione del lavoro [*29].

Forse proprio per questo le teorizzazioni sul rifiuto del lavoro hanno avuto una diffusione e un'attenzione anche fuori dall'Italia, soprattutto in alcuni paesi d'Europa e in America Latina. La Germania è forse il paese dove l'attenzione è stata più forte e longeva [*30]. Un esempio può essere il lavoro svolto da Martin Birkner e Robert Foltin, i quali riconoscono il debito teorico verso l'operaismo italiano degli anni sessanta. La loro ricerca si concentra verso i gastarbeiter, o lavoratori ospiti, cioè gli emigrati italiani, portoghesi, spagnoli, similmente a come gli operaisti avevano studiato gli emigrati meridionali che lavoravano nelle grandi fabbriche del nord. La ricerca viene effettuata sul campo, sui treni di periferia e nei quartieri operai, e viene usata l'espressione “lotta contro il lavoro” per classificare alcune pratiche che caratterizzerebbero questi soggetti, soprattutto i più giovani [*31].
Anche altre riviste avevano affrontato il nodo teorico del rifiuto del lavoro. Come“Wildcat”, nata a Karlruhe nel 1979, che usava metodi di ricerca simili all'inchiesta di matrice operaista e si poneva come obiettivo l’elaborazione di forme di resistenza che andavano dal sabotaggio individuale alle assenze per malattia, sulla base di quello che veniva definito “rifiuto del lavoro capitalistico”.
Una delle più importanti pubblicazioni sull'argomento rimane sicuramente Il manifesto contro il lavoro avvenuta in Germania nel 1999.
La traduzione italiana, benché eseguita rapidamente, è rimasta a lungo inedita ed è stata pubblicata da Deriveapprodi nel 2003 [*32]. Il gruppo Krisis, riunito intorno all’omonima rivista, ha sviluppato in Germania una delle analisi più articolate e radicali sul rifiuto del lavoro. Un collettivo non inteso secondo la tradizione italiana, ma un gruppo di intellettuali, di cui l’esponente più noto è Robert Kurz, che utilizza come strumento di lavoro seminari, conferenze ed incontri a cavallo tra università e mondo artistico e culturale. Che siano debitori dell’autonomia operaia lo raccontano loro stessi quando scrivono che “l’ultima onda della tradizionale critica del lavoro giunse negli anni ’70 dall’operaismo italiano[*33]. Nel pamphlet in questione si contesta che il lavoro venga elevato a principio che domina le relazioni sociali senza tener conto dei bisogni e della volontà degli interessati. Non solo la vacanza e il riposo settimanale servono alla riproduzione della forza lavoro, ma perfino quando mangiamo, festeggiamo, proviamo piacere, da qualche parte del cervello il cronometro continua a scandire il tempo del lavoro: quest’ultimo è un fine in sé e realizza la valorizzazione del capitale, l’infinita moltiplicazione del denaro grazie al denaro stesso.
Tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta si chiude in Italia la stagione politica apertasi alla fine del decennio sessanta. La risposta del sistema di potere alle lotte e alle iniziative dell'autonomia è stata presentarle all'opinione pubblica come criminali e presentare la lotta di classe in generale come criminale, scrivendo perciò fascicoli su fascicoli di condanne penali, prefigurando la manipolazione storica successiva, che ha consegnato gli autonomi alla damnatio memoriae, in primis non riconoscendo loro lo status di soggetto politico. In definitiva, il rifiuto del lavoro salariato è un’affermazione dei bisogni radicali di libertà, di piacere, di esperienza e comprensione, del carattere universale della rivendicazione della libertà dal lavoro di cui era portatrice la classe operaia ed è un’implicita violazione delle regole produttive stabilite dal capitale e dalla mediazione sindacale. É, dunque, il rifiuto dell’obbligo di produrre plus-valore.

- Ottone Ovidi - Pubblicato il 21/9/2015 su InfoAut. Informazione di parte -

NOTE:

[*1] - Si veda Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli 2003, pp. 555-577; Marcello Tarì, Il ghiaccio era sottile. Per una storia dell'autonomia, DeriveApprodi, 2012; Nanni Balestrini, Primo Moroni, L'orda d'oro. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale 1968-1977, SugarCo, 1988.

[*2] - Angelo Ventrone (a cura di), I dannati della rivoluzione. Violenza politica e storia d'Italia negli anni sessanta e settanta, Eum, 2010.

[*3] - Mino Monicelli, L'ultrasinistra in Italia 1968-1978, Laterza, 1978, pp. 114-122; G Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa: la violenza politica nell'Italia degli anni sessanta e settanta (1966-1975), Einaudi, 2009; Cesare Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Odradek, 1997.

[*4] -  Dal magistrato padovano Pietro Calogero che, in veste di sostituto procuratore, elaborò l'impianto accusatorio con il quale vennero arrestati importanti leader dell'Autonomia operaia come Antonio Negri, Emilio Vesce, Oreste Scalzone ed altri. Per una ricostruzione di quelle vicende si veda Giacomo Mancini, 7 aprile, Lerici, 1982, Pietro Calogero, Carlo Fumian e Michele Sartori, Terrore rosso. Dall'autonomia al partito armato, Laterza, 2010.

[*5] -  Maria Turchetto, Il lavoro senza fine. Riflessioni su “biopotere”e ideologia del lavoro tra XVII e XX secolo, , n. 3, 2004.

[*6] -  Paul Lafargue, il diritto alla pigrizia. Confutazione del diritto al lavoro, Spartaco, 2004.

[*7] - Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica 1857 – 1858, La Nuova Italia, 1968, pp. 400-401.

[*8] - Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, 2000. Arendt individua tre diverse condizioni dell'esistenza umana, che insieme vanno appunto a comporre la “vita activa”. Queste tre condizioni sono: l'attività del lavoro rappresentata dall'animal laborans; l'insieme degli artefatti materiali di cui l'uomo si circonda per vivere rappresentati dall'homo faber; e infine l'attività dell'agire, intesa come spazio pubblico in cui gli individui interagiscono tramite la parola.

[*9] -  Si veda Guido Borio, Francesca Pozzi e Gigi Roggero, Gli operaisti, DeriveApprodi, 2005. L'esperienza dell'operaismo in Italia nasce nel 1961 con l'uscita del primo numero di . Tra i componenti della redazione Alberto Asor Rosa, Romano Alquati, Antonio Negri, Rita Di Leo, Claudio Greppi, Mario Tronti e altri. In seguito agli eventi di Piazza Statuto del luglio del 1962, alcuni si convinceranno della possibilità di un intervento diretto e più incisivo nelle lotte, e fonderanno il giornale nel 1963. I torinesi invece, raccolti attorno a Renato Panzieri, continueranno sulla linea di pungolo critico per le istituzioni del movimento operaio. Elementi centrali attorno a cui ruotava l'analisi politica degli operaisti erano la fabbrica fordista e l'operaio-massa. Questo era il soggetto guida del proletariato nel processo rivoluzionario.

[*10] -  Nella tipologia a gatto selvaggio lo sciopero viene effettuato in tempi diversi nelle sezioni che dividono il lavoro di una stessa catena di montaggio; nella tipologia a singhiozzo lo sciopero è caratterizzato da interruzioni brevi e continue; nello sciopero a scacchiera i lavoratori di reparti interdipendenti tra loro nel processo produttivo scioperano in tempi diversi e a piccoli gruppi; il salto della scocca è invece una forma di sabotaggio che prevede il mancato montaggio di un pezzo in transito sulla catena di montaggio.

[*11] -  Il lavoro senza fine, cit. Si usa qui “biopotere” nella declinazione sviluppata negli anni sessanta da Michel Foucault in opere quali Sorvegliare e punire, Einaudi, 1976 o La volontà di sapere, Feltrinelli, 1978 . Per Foucault il “biopotere”, o potere sulla vita, è il terreno su cui la rete di poteri gestisce la disciplina dei corpi e la regolazione della popolazione, in funzione dell'utilizzazione di entrambi (il corpo e la popolazione) e del loro controllo. Questo terreno è proprio di un momento storico ben preciso, quello dell'esplosione del capitalismo. Il risultato è il rovesciamento del paradigma classico del potere, legato al “diritto di morte”, in uno nuovo, in cui il potere “garantisce la vita”. Ed è per questo che ora più di prima il potere ha accesso al corpo degli individui e delle popolazioni.

[*12] -  L'inchiesta era il metodo d'indagine privilegiato usato dagli operaisti per studiare la realtà di fabbrica. Un esempio di come fosse impostata si può trovare in Dino De Palma, Vittorio Rieser, Edda Salvadori, L'inchiesta alla Fiat nel 1960-1961, , n. 5, aprile 1965, pp. 252-253. Per una ricostruzione esauriente delle vicende dell'operaismo si veda Giuseppe Trotta, Fabio Milana (a cura di), L'operaismo degli anni sessanta. Da a , DeriveApprodi, 2008.

[*13] -  Liliana Lanzardo e Massimo Vetere, Interventi politici contro la razionalizzazione capitalistica, , n. 6, maggio-dicembre 1965.

[*14] - n. 6, 14 giugno 1969. Il giornale nasce e muore nel giro di pochi mesi nel 1969 in seguito alle vicende del cosiddetto “Autunno caldo”. Si raccolgono attorno a questo giornale alcuni intellettuali che avevano partecipato all'esperienza dell'operaismo negli anni sessanta, come Antonio Negri e Franco Piperno. Il giornale viene considerato una tappa importante nel processo che porterà alla fondazione dell'organizzazione Potere operaio.

[*15] - Comitato operaio di Porto Marghera, Rifiuto del lavoro, , n. 1, 1970.

[*16] -  G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, cit., p. 454.

[*17] - Assemblea Autonoma dell'Alfa Romeo (a cura della), Diario operaio della lotta 1972-1973, Rotografica Fiorentina, 1973, pp. 130-136. Irsifar: fondo Strappini, busta 4/189.

[*18] - Comitati Autonomi Operai di Roma (a cura di), Autonomia Operaia. Nascita, sviluppo e prospettive dell'area dell'autonomia nella prima organica antologia documentaria, Savelli, 1976, p. 12.

[*19] - Collettivo Eni (a cura di), Contro la crisi sciopero generale, Eni - Petrolio e lotta di classe, 1971, p. 37. Irsifar: fondo Strappini, b. 4/189.

[*20] - novembre 1972. Questo giornale viene pubblicato a partire dal dicembre 1971, inizialmente come supplemento a (il cui primo numero risale al settembre 1969). Questo era passato da una scansione settimanale (1970) ad una quindicinale (1971) ad una mensile (1972), e si era sempre più caratterizzato per l'impostazione teorica. chiuderà le sue pubblicazioni nel dicembre 1973. Entrambe le testate sono espressione del gruppo politico Potere operaio.

[*21] - Mario Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, 2006. Tronti sosteneva che sono le lotte e le richieste operaie, anche quando non prendono la forma di scontro frontale, a costringere il capitale a innovarsi continuamente, nel tentativo di riassorbire gli elementi potenzialmente rivoluzionari.

[*22] - Antonio Negri, Proletari e Stato, in Id., I libri del rogo, DeriveApprodi, 2006, p. 164.

[*23] - Comitati Autonomi Romani (a cura di), Contro la scuola, contro i decreti delegati, novembre 1974. Irsifar: fondo Strappini, b. 4/189.

[*24] - La messa in discussione della disciplina sociale e dell'ordine produttivo si riverberava anche al tempo della vita, rifiutata come naturale contenitore del tempo del lavoro e del riposo finalizzato al lavoro. Se l'obiettivo politico era poter vivere senza il “ricatto” del lavoro, l'appropriazione (cioè l'occupare stabili e appartamenti, il rifiuto di pagare le bollette e i biglietti del cinema o dei trasporti, il procurarsi ciò che si desiderava, beni voluttuari e di base, attraverso le spese proletarie) rappresentava il tentativo di una realizzazione immediata della teoria e la critica alla politica come separazione da sé. Contemporaneamente la riappropriazione riassumeva la volontà di sottrarsi all'alienazione di corpo, sapere e tempo tramite la messa a profitto della vita degli individui da parte del capitale.

[*25] - Dadi Mariotti, Compagni del '68, Marsilio, 1975, cit. in Angelo Ventrone, Vogliamo tutto. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 1960–1988, Laterza, 2012, p. 157.

[*26] - Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti, Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, vol. II, DeriveApprodi, 2007, pp. 249-250.

[*27] - Antonio Negri, Il dominio e il sabotaggio, in Id., I libri del rogo, cit., pp. 284-285.

[*28] - Franco Piperno così lo definiva: “Valore d'uso è il disgusto del posto fisso, magari sotto casa: è l'orrore per il mestiere; è mobilità; è fuga dalla prestazione stupidamente irrigidita come resistenza attiva alla merce, a farsi merce, a essere posseduto interamente dai movimenti della merce. […] Valore d'uso è la volontà di sapere nel suo “attraversare calpestando”, con la dolce ottusità dei giovani, il corpo della “madre scuola”; che boccheggia e ansima perché strutturalmente incapace di dare, di rispondere a un bisogno di conoscenza che non si configuri come richiesta di inserimento nei ranghi del lavoro salariato, e se, Dio non voglia, anche qualche rosa viene calpestata, tanto peggio per le rose.”, , supplemento a , n. 0, dicembre 1978. La rivista, primo numero uscito nel giugno 1979, aggregò la parte principale degli ex Potere operaio e autonomi. Collaborarono alla rivista Paolo Virno, Lucio Castellano, F. Piperno, Felix Guattari e altri.

[*29] - n. 16, maggio-giugno 1975. La rivista nasce nel gennaio 1973 in seguito alla svolta in senso movimentista e operaista del Gruppo Gramsci, che già pubblicava una rivista teorica dal titolo . Dopo lo scioglimento del Gruppo, e contemporaneamente anche di Potere operaio, comincia a svolgere il ruolo di raccordo nazionale dell'intera area dell'autonomia. Successive vicende portarono l'area romana ad uscire dalla redazione. Tra il 7 aprile e il 21 dicembre del 1979 la quasi totalità della redazione venne incarcerata. Le pubblicazioni si interruppero nel maggio di quell'anno.

[*30] - Si veda S. Bianchi e L. Caminiti, Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, vol. III, DeriveApprodi, 2008.

[*31] - Martin Birkner e Robert Foltin, Post-operaismus: Vonder arbeiterautonomie zur multitude, Schmetterling verlag gmbh, 2006.

[*32] - Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, DeriveApprodi, 2003.

[*33] - Robert Kurz, Norbert Trenkle, Il superamento del lavoro. Uno sguardo alternativo oltre il capitalismo, in Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, cit., p.104.

fonte: InfoAut