L'estetica della modernizzazione
- Dalla scissione all'integrazione negativa dell'arte -
di Robert Kurz
La separazione tra la vita e l'arte è un vecchio tema della modernità. Tutti gli artisti che desiderano esprimere la verità - e che si logorano esistenzialmente nelle loro creazioni - finiscono sempre per soffrire di tale separazione. Sia che esibisca la bellezza che l'estetica del brutto, che eserciti la critica radicale o vada alla ricerca della ricchezza delle forme della natura, che abbia un orientamento realista o fantastico: a separare l'arte dalla società ci sarà sempre un muro, che potrà anche essere di vetro trasparente, ma che rimarrà impenetrabile. I suoi artefatti, che non siano mai stati osservati prima, oppure che siano stati celebrati da subito in tutto il mondo, come oggetti morti e da museo. L'artista si presenta come se fosse una figura della tragedia antica: proprio come l'acqua e i frutti si sottraevano a Tantalo, allo stesso modo a lui sfugge la vira; proprio allo stesso modo in cui il re Mida doveva patire la fame, poiché al suo tocco tutto diventava oro, così anche l'artista, in quanto essere sociale, vive morendo di fame, poiché il suo tocco trasforma tutto in pura esposizione. Ed egli, come Sisifo, fa rotolare invano il suo masso - la sua opera continua ad essere senza alcuna mediazione con il mondo.
Tutti i tentativi che ha fatto l'arte, per infrangere il suo ghetto di vetro, sono stati inutili. Arti plastiche montate come se fossero delle costruzioni industriali, così come i quadri appesi alle pareti degli uffici, rimangono sempre dei corpi estranei. Letture di opere letterarie nelle chiese o nelle scuole non riescono mai ad andare oltre quello che è il loro carattere di obbligatorietà. Quando i dadaisti assumevano il dubbio come un mezzo di provocazione, piazzando tubi arrugginiti ed orinatoi nei saloni consacrati all'arte per farsi gioco della borghesia, una simile proposta venne presa ferocemente sul serio come si trattasse di oggetti estetici, e vennero catalogati come le sculture di Michelangelo o come i quadri di Picasso. La definizione tautologica è: arte è tutto quello che la società percepisce a priori come parte di un serbatoio separato denominato «arte», che in tale condizione può essere perciò collezionato, senza alcun riguardo per il suo contenuto, il quale può essere costituito di francobolli o di coleotteri infilzati. Importa poco che cosa l'arte stessa pretenda di essere e come si presenti: ogni cosa smette di essere affilata e diventa innocua. Per le élite capitaliste l'artista non è più nemmeno il giullare, ma piuttosto - e nel migliore dei casi - una sorta di fornitore speciale, come lo è il mercante di liquori o il pasticciere. Insomma, qualcuno da cui non si comprerebbe mai un'auto usata e che non si vorrebbe mai come genero. È questo, in ogni caso, il suo status nella modernità classica.
La società moderna tende a considerare quello che è il proprio modo di esistenza e le sue categorie come se fossero sovra-storiche e generalmente umane. Se in questo sistema c'è davvero qualcosa di marcio e di veramente insopportabile, questo qualcosa non deve mai essere un problema storico che può essere superato a partire dalla critica, ma deve sempre essere una condizione semplicemente ineliminabile dell'esistenza, con la quale l'umanità deve sfortunatamente vivere. È attraverso la lente di una tale ontologizzazione che la modernità percepisce quello che è anche il dilemma della separazione tra arte e vita. Ad esempio, tutto quanto viene visto come se nell'antica Grecia l'artista fosse stato, come oggi, un venditore delle proprie possibilità, e come se gli antichi egizi esponessero i loro dipinti che raffiguravano gli dei in gallerie e musei, oppure in case d'asta, con i loro cartellini del prezzo.
Ma le civiltà antiche non avevano né «arte» né «cultura», viste nel modo in cui le intendiamo oggi. Questo significa che la struttura moderna - costituita da sfere separate ed indipendenti fra di esse, e determinate fra l'altro dal nostro linguaggio e dal nostro pensiero - è totalmente estranea alle società antiche. Sebbene anche esse avessero dei difetti umani e delle mancanze, dei problemi e delle relazioni di dominio sociale, la loro esistenza non era scomposta in aree funzionali separate. La moderna teoria dei sistemi considera questo come se fosse una mancanza di «differenziazione», per mezzo della quale viene insinuato un indicatore di primitivismo: quanto più è integrata la società, anche quella più primitiva; e quanto più «differenziata» tanto più «sviluppata» è la società e tanto maggiore è il numero di opportunità che essa offre - così come afferma il sistema di pensiero tardo borghese. Come sempre è avvenuto a partire dall'Illuminismo, la modernità capitalistica appare come il coronamento della storia, sebbene ci sia qualcosa di deplorevole nel vedere in essa la più alta ed insuperabile acquisizione di evoluzione sociale, in cui l'uomo ridotto funzionalmente si presenta solamente in quanto punto di intersezione tra le strutture sistemiche.
Ma le società pre-moderne non erano, in realtà, primitive, ma bensì altamente differenziate; e quel che avviene è che questo tipo di differenziazione non corrisponde ala concetto moderno. Le società antiche, prevalentemente agrarie, non avevano una cultura, ma esse erano una cultura. Ciò viene espresso nel nostro uso scientifico del linguaggio, nella maggior parte dello volte senza pensarci: semmai parliamo della «cultura» dell'Antico Egitto, della Mesopotamia e dell'Antichità, volendo con questo, di regola, riferirci sia ai particolari speciali artefatti sia alle rappresentazioni artistiche (di scultura, pittura, letteratura ecc.) quanto, dall'altro lato, alla rispettiva società vista come un tutto ed alla sua struttura sociale. Quando, però, parliamo di «cultura moderna», vogliamo sempre riferirci ad un aspetto specifico delle forme di espressione, e mai al sistema sociale visto nel suo complesso. Ragion per cui, «sappiamo» automaticamente ed inconsciamente che la «cultura» è già stato un tutto, e non una sfera funzionalmente separata dedicata all'edificazione del museo domenicale degli uomini guadagnatori di denaro. In realtà, il senso della parola latina «cultus», che ha dato origine al concetto, è legato sia a «piantagione», «agricoltura» sia che a «servizio divino», «socialità», «formazione» e in certe occasioni perfino «vestimenti». Questa concettualizzazione multi-stratificata indica il carattere di integrazione delle vecchie società agrarie. I contenuti e le forme differenziate come il «metabolismo con la natura» (Karl Marx), così come le relazioni sociali e l'estetica non si separano fra di loro in quanto «sottosistemi»con una «logica propria, ma sono sempre l'espressione di un modo di esistenza culturale unico e coerente. In termini moderni, la descrizione di questa esistenza culturale dovrebbe somigliare più o meno confusamente a: la produzione era estetica, l'estetica era religiosa, la religione era politica, la politica era culturale, la cultura era sociale e così via. In altre parole, gli attributi sociali che oggi distinguiamo erano incorporati gli uni negli altri, ciascun momento della vita era in qualche modo contenuto negli altri.
Si potrebbe forse cercare di parlare di una costituzione religiosa di queste culture agrarie, perché apparentemente la religione si presenta come se fosse il momento di integrazione più forte della «società in quanto cultura». Com'è noto, non solo tutti i tipi di oggetti artigianali, ma anche il teatro e le competizioni sportive appaiono in qualche maniera come azioni culturali, vale a dire, come integrate nel culto. Per essere più precisi, erano azioni culturali di un tipo particolare. Anche i compiti del tutto comuni del quotidiano avevano alla base il carattere di culto; anche l'umorismo e l'ironia erano associati al culto. Tuttavia, sarebbe un errore elevale «la religione» a movimento sistemico determinante di tali società, poiché vorrebbe dire che in tal modo stiamo pensando di nuovo secondo quello che è il nostro concetto funzionale moderno di sfere separate. Anche la religione non era una religione in senso moderno, non era puramente «credenza», «fede», e non era neppure un'occasione limitata ad un pensiero trascendente, ed era ancor meno una «questione privata».
Non possiamo, pertanto, pensare il carattere religioso delle culture antiche semplicemente come una relazione coercitiva limitante ed irrazionale. Il religioso era anche il pubblico, era perciò la cosiddetta politica, era la forma del dibattito. Non a caso la parola latina «privatus»
ha un significato negativo e peggiorativo, che per noi diventa ancora più chiaro a partire dal concetto greco antico corrispondente: colui che non partecipa alla vita quotidiana e, pertanto, pubblica l'idiota. Ma se il religioso è allo stesso tempo la forma del pubblico che comprende il quotidiano, ciò non vuol necessariamente dire che in questo si riveli la limitazione di quella società, come pretende l'ideologia apologetica dell'auto-legittimazione moderna. Anzi, al contrario, si può anche dire che una simile società-cultura avrebbe molto più vita pubblica e più dibattito del sistema moderno. Allo stesso modo in cui rigiriamo e distorciamo i fatti, con la nostra auto-comprensione moderna, non siamo in grado di concepire una società culturalmente integrata. Manchiamo dei concetti per farlo.
Questa cecità moderna relativa al carattere delle relazioni pre-moderne ha prodotto un altro grande fraintendimento. Fondamentalmente, al centro di ciò che chiamiamo «religione», in tutte le culture si trova il problema della deperibilità umana e della morte in quanto processo, come avvenimento e come «fine della vita». La modernità, insieme alla religione ha bandito anche la morte ponendola in una particolare sfera funzionale, separandola - come arte - dalla vita. In questo modo, la moderna secolarizzazione della società non consente che la morte possa essere trattata diversamente, e che si rifletta su di essa, ma la reprime e la ignora. Ciò che la religione significava nelle società antiche non è stato superato, e superato positivamente, ma è stato semplicemente ridotto in maniera funzionale al risposo irrazionale riservato al sentimento privato degli individui astratti. In relazione alla deperibilità corporale, la modernità è andata perfino oltre: così come le persone più vecchie e «inutili» per la riproduzione capitalistica appaiono come se fossero solo un «fardello» per la loro prole, rinchiuse in un ospizio e separate dalla vita normale, anche i morti vengono «eliminati» come se fossero spazzatura e rifiuti industriali.
Dopo aver represso la morte, la modernità non poteva fare altro che comprendere quella che era l'antica integrazione tra la vita e la morte come una spaventosa «relazione con la morte». Il fatto che gli antichi egizi attribuissero grande valore alle loro tombe e all'imbalsamatura dei loro morti, viene comunemente interpretato come un sinistro culto della morte, come se gli egizi non avessero altro di cui occuparsi. Allo stesso modo, l'uomo moderno mostra ripugnanza per l'abitudine dell'età della pietra di sotterrare i resti mortali vicino al focolare, dentro la casa. In realtà, tutti questi esseri umani dovevano avere un'eccezionale disposizione verso la vita - come, infatti, è dimostrato dai diversi punti di vista delle scienze che studiano l'Antichità. L'ovvia integrazione della morte nel quotidiano ci appare strana perché il problema della nostra deperibilità è stato «rimosso» e collocato in un luogo invisibile nella nostra vita ordinaria. Diversi critici della cultura hanno fatto di questa separazione tra la vita e la morte, così come della separazione tra arte e vita nella storia della modernizzazione, un tema sempre più lancinante, senza, tuttavia, aver mai criticato radicalmente la struttura sociale alla base della cosa.
In una «società come cultura», in grado di integrare anche la morte, l'«arte» diventava necessariamente una componente della vita quotidiana, ed in quanto tale del tutto impensabile come espressione di una sfera sterilizzata e morta che sta «dietro un vetro». Ma anche per questo, essa non era arte in quanto arte, ma era piuttosto un dato momento di un contesto sociale integrato. L'«artista» avrebbe potuto, pertanto, essere riconosciuto come tale solo per la sua capacità tecnica e non come un rappresentante sociale dell'«arte». Il problema delle separazioni funzionali, che così tanto investe la modernità, nasce insieme alla modernità e non era mai stato formulato prima. Sarebbe allora il caso di domandarsi anche da dove provenga, nella realtà, una tale differenziazione sistemica.
Il processo di modernizzazione non divide la società in maniera uniforme o secondo valori uniformi. Al contrario, un determinato aspetto della riproduzione umana - la cosiddetta economia - viene scisso da tutti gli altri aspetti, ed in particolar modo dalla vita. Nella stessa forma in cui avviene con l'arte o con la religione, non si può parlare, per quel che riguarda le antiche civiltà agrarie, di un'economia nel senso che diamo oggi a questa parola, anche se il concetto non proviene dagli antichi. Ma nell'antica Grecia, così come in tutte le antiche civiltà pre-moderne, la «oikonomia», così come l'economia domestica integrata in un contesto culturale, era una presupposto materiale ed un mezzo per delle finalità di culto, e quindi, sociali o estetiche. Al contrario, nella modernità l'economia si sviluppa come un assurdo fine in sé e come contenuto centrale della società: il denaro diventato capitale che ritorna a sé stesso, e perciò un «soggetto automatico» cieco (Karl Marx), che viene presupposto in maniera fantasmagorica come il presupposto di tutti gli oggetti umani e culturali.
Nella misura in cui questa «valorizzazione del valore» (Karl Marx), o massimizzazione astratta del guadagno economico imprenditoriale, in quanto fine in sé ed in processo si scinde dalla vita, ecco che comincia ad emergere una «sfera funzionale» separata ed indipendente - come un corpo estraneo alla società - che comincia ad essere centrale e dominante. È a partire dall'esistenza di una tale settore scisso, e allo stesso tempo dominante, che appaiano tutti gli altri restanti aspetti della riproduzione sociale dell'economia capitalistica in quanto «sottosistemi» separati, nei quali ognuno conserva, tuttavia, senza eccezione, un mero significato secondario, che rimane subordinato al fine economico presupposto in sé.
Sotto la dittatura dell'economia resa indipendente, l'attività produttiva viene trasmutata in «lavoro» astratto; uno spazio funzionale ed estraneo alla vita, che viene regolato solo secondariamente e anche sotto la coazione incontrollabile dei «sistemi legali», attraverso la sfera separata e particolare della politica. Tale «politica», scissa dalla società culturalmente integrata, doveva quindi essere anch'essa sconosciuta alle società pre-moderne, tanto quanto lo era l'«economia svincolata» (Karl Polanyi) del fine in sé capitalista ed il suo rispettivo concetto positivo di «lavoro» astratto, è aliena rispetto ad un contesto di vita integrato. La politica moderna e le rispettive istituzioni di Stato e di Diritto non possono essere paragonate alle istituzioni pre-moderne apparentemente equivalenti che, come la «religione», non avevano il carattere di settori funzionali separati. È stato solamente nel processo di disintegrazione sociale moderna, avvenuto per mezzo dell'«economia svincolata», che è emersa la politica, lo Stato ed il Diritto, nel senso che attribuiamo loro oggi, come «sottosistemi» complementari di second'ordine e conseguentemente come meri servitori (ministri!) dell'economia capitalista, tacita e a priori.
Se il contenuto centrale e l'obiettivo della società diventano un fine in sé, scisso, allora la vita si abbassa ad essere necessariamente quello che rimane, un resto. L'espressione della vita - al di là delle scissioni sistemiche e delle sfere funzionali complementari del mercato e dello Stato, dell'economia e della politica, della concorrenza e del diritto - si trova ad essere degradata a quello che è lo scarto del «tempo libero»; e da qualche parte, relativamente al riposo diffuso, questo riguarda non solo la religione, ma anche l'arte e la cultura, collocate in alcune sfere particolari. Tutte le cose che un tempo sono state decisivamente importanti per gli uomini, tutte le questioni esistenziali, e perciò tutte le finalità e le forme dell'espressione estetica legate a tali questioni, si trasformano in questo insignificante «resto», ed i suoi rappresentanti devono brigare per contendersi le briciole cadute dalla tavola del mostruoso fine-in-sé. La situazione dell'arte e dell'estetica diventa particolarmente assurda. Sebbene, per l'essere umano, ogni aspetto della vita contenga sempre in sé un momento estetico, il capitalismo ha negato questo fatto elementare e ha scisso l'estetica rendendola un luogo separato, proprio come ogni altro momento. Il «lavoro» non è estetico, la politica non è estetica, solo l'estetica è estetica. Come se l'estetica delle cose conducesse una sua esistenza propria, resasi astratta e fantasmagorica, al di fuori e a lato delle cose; esattamente come la socializzazione dei prodotti conduce una sua esistenza particolare astratta accanto ai prodotti sotto la forma astratta del denaro che è diventato fine in sé e insieme a questo anche logica formale astratta, in quanto «denaro dello spirito» (Marx), che sfugge e diventa indipendente dalla logica concreta dei contesti reali. La prigione di vetro dell'artista consiste esattamente in questa scissione strutturale dell'estetica. L'arte si agita impotente al di qua e al di là di questa gabbia, fuori e dentro; essa non è più la forma artistica di un contenuto sociale, bensì una «formalità» scissa, senza forma e senza contenuto, o dotata di un contenuto visto come mera forma. L'arte deve, pertanto, scimmiottare il fine in sé del capitale, che vorrebbe emanciparsi da ogni contenuto materiale nella sua forma astratta e autoreferenziale (denaro), senza mai poter realizzare una simile assurdità. L'«arte per l'arte» non è altro che il culmine dell'arte come caricatura involontaria del capitale, senza mai riuscire a risolvere il dilemma di fondo del sistema capitalistico. Ma se esso è diventato per disgrazia un fine in sé, impazzito e innamorato di sé stesso, tuttavia può, nella sua insuperabile separazione, generare una hibris sociale: anziché concettualizzarsi come il prodotto di un sistema di scissioni, e mobilitare la critica radicale di una tale struttura distruttiva di finalità in sé, l'arte dà inizio a quella che è la sua propria scissione e comincia ad «estetizzare» tutto ciò fa nascere. Non è solamente il suo proprio dilemma a diventare assunto estetico, ma tutta la sua palese schizofrenia capitalista. Quando la struttura capitalista, tuttavia, non è criticata, ma viene estetizzata, i corpi dilaniati dalle granate, le donne violentate, i bambini che muoiono di fame e le oscenità del potere appaiono come se fossero dei semplici oggetti estetici. L'estetica scissa non si rivolge ai contenuti sociali, ma si limita ad illuminarsi attraverso una riflessione cinica. Un'«estetizzazione della politica» che avviene all'interno di un sistema capitalista insuperato non porta all'emancipazione, ma conduce direttamente alla barbarie. La politica inscenata esteticamente è stata il segreto del successo del fascismo, e Hitler il prototipo dell'artista come politico, il quale non reintegra le sfere separate, ma si limita solamente a stilizzarne la loro disintegrazione in quella che è una sanguinosa opera d'arte totale. La situazione precaria dell'arte, nella struttura capitalistica delle scissioni, ha anche un suo lato sessuale. Per far sì che l'«economia svincolata» del fine capitalista in sé potesse stabilirsi e potesse generare la moderna separazione delle sfere, era necessaria una precondizione elementare: tutto ciò che non rientra in questo sistema di scissioni dev'essere, a sua volta, primariamente scisso. E così è stato fatto con tutti i momenti della vita che prima erano culturalmente integrati, ma che ora sono stati assegnati alla donna moderna: famiglia, «lavoro domestico», allevare i bambini, attenzione, "amore" ecc., assieme a quelle che sono tutte le caratteristiche corrispondenti, che apparterrebbero anch'esse ad una presunta speciale ripetitività estetica: la donna, vista come «bellezza naturale», abbellisce sé stessa ed il focolare del suo amore. Questo spazio sociale, che non può essere interamente assorbito dalle strutture capitaliste, rimane nondimeno necessario alla riproduzione umana, appare come una privacy separata di nuovo tipo, in contrasto con la struttura sociale totale del capitale, ed in contrasto con le scissioni interne in essa contenute. Emerge, quindi, una paradossale «scissione del sistema totale delle scissioni» (Roswitha Scholz), che va a formare la propria «retroguardia oscura» e che viene connotata come «femminile», nel momento in cui, inversamente, il sistema ufficiale nel suo complesso viene occupato e dominato dalla forma «maschile».
Una tale comprensione, prodotta dalla critica femminista, di quella che è la scissione elementare dei generi è primaria, e rimanda ad una strana relazione dei generi fra il privato ed il pubblico, che riguarda anche la sfera estetica scissa dell'arte e della cultura. Nelle società pre-moderne culturalmente integrate esistevano infatti dei momenti fortemente patriarcali, ma non nella forma acuta e «differenziata» della modernità. Inoltre, le differenziazioni culturalmente integrate, per cui non abbiamo più concetti, non separavano il «pubblico» e il «privato» nel senso nel quale lo intendiamo oggi. Detto secondo i concetti moderni, molto di quello che oggi viene considerato privato era pubblico - e viceversa; e sebbene il pubblico fosse «maschile», esso era limitato, oppure nel contesto culturale esistevano sfere pubbliche «maschili» e «femminili» simultanee e parallele.
Le forme paradossali di disintegrazione a partire dalla base dell'«economia svincolata» separano in maniera duplice il pubblico ed il privato dal punto di vista dei generi. Da una parte esiste lo spazio intimo della privacy, nel quale «la donna», il cosiddetto gentil sesso, è responsabile del calore del nido, del benessere del padrone di casa, per la dedizione amorosa, ecc. - e proprio per questo viene considerata «inferiore» e «spirito debole». In contrapposizione a questo privacy inferiore, tutto il sistema del capitalismo, con la sua «economia svincolata» appare da subito come la sfera «maschile» del mondo pubblico borghese e come se fosse la società autentica. Tuttavia, dall'altro lato, anche dentro questa struttura «maschile» ufficiale si verifica una seconda scissione interna tra la sfera pubblica e quella privata: l'attività volta al fine in sé senza soggetto del sistema, appare qui, assurdamente, come una privacy «maschile» del soggetto di interesse del capitalismo, l'«homo economicus» ed il guadagnatore di denaro, mentre anche la complementare sfera «maschile» della politica viene definita come sfera pubblica. La sfera scissa dell'estetica, o dell'arte e della cultura, rappresenta così solo un'appendice di questa sfera pubblica interna, dentro lo pseudo universo «maschile» capitalistico.
Per questo, l'«artista» è in linea di principio un maschio dentro la sfera pubblica capitalista, anche se si viene a trovare in un luogo particolarmente precario. In realtà, esistono anche donne artiste, così come esistono politiche, imprenditrici, scienziate, ecc. - ma lo sono innanzitutto come eccezioni che confermano la regola sociologica; ed in secondo luogo adattandosi sempre alle regole del gioco «maschile», che dimostrano che non si tratta di condizioni biologiche, bensì di attribuzioni socio-storiche. L'artista strutturalmente «maschile», nella sua gabbia di vetro dell'estetica scissa, diventa un essere particolarmente schizofrenico: da un lato egli è sempre più «uomo» capitalista e guadagnatore di denaro, che ama cullarsi da protagonista nella privacy borghese, avendo bisogno della «donna», che viene vista come un essere che si dedica, nel retro, a svolgere i compiti minori, come fa qualsiasi venditore di automobili; dall'altro lato, egli stesso però rappresenta all'interno della sfera pubblica borghese «maschile», nell'immagine dell'estetica, un elemento «femminile» scisso, che non appartiene al sistema funzionale, ma che nonostante ciò fa parte della sfera pubblica capitalista.
Nello pseudo universo maschile, il «femminile» può apparire solo nella sua forma di oggettualità artistica separata, sterile e museologica. L'artista è perciò l'uomo capitalista che esibisce alcuni singolari lati femminili, e che eventualmente può perfino essere omosessuale - ma solamente in quanto persona socialmente deviante vista nel contesto di un'estetica narcisisticamente auto-riferita a sé stessa, allo stesso modo in cui ruba dalla «donna» quelli che sono gli attributi a lei attribuiti; ed è proprio in questo modo che diventa così il super-maschile (Übermann) che arriva addirittura a degradare sia il «femminile» incorporato in forma maschile che la «donna» come modello, oggetto o musa, a mero oggetto della bellezza. Allo stesso tempo, la società borghese vede nel maschile quella che è la sua rappresentazione del femminile come se fosse un difetto, e così su di essa pesa l'«inferiorità femminile», in modo tale che viene trattata come se fosse un elemento esotico della società buono per i colleghi venditori di automobili, che non viene in alcun modo preso sul serio.
Ma oggi questa struttura delle scissioni, che costituisce l'essenza della modernità, viene percepita come passato storico. La dinamica capitalista ha fatto esplodere la propria forma sociale ed ha scatenato un processo ancora più sfrenato. La cultura di massa e i nuovi media sembrano appiattire la «differenziazione» sistemica: quello che per mezzo secolo la critica ha denunciato come «industria culturale» (Theodor Adorno), oggi viene festeggiato dai «postmoderni» come una reintegrazione dell'arte nelle vita. La mediatizzazione vale già di per sé come emancipazione dalle coercizioni della realtà capitalista; il mondo si spiega per mezzo del gioco digitale. Dappertutto già fervono «opportunità» che possono essere percepite nel senso di una «democratizzazione» mediatica. E nel solito divertente ballo in maschera dei sessi, il meraviglioso mondo nuovo postmoderno crede di aver superato la divisione tra i sessi. Il travestito è quasi stato proclamato come se fosse un nuovo soggetto rivoluzionario. La retorica delle opportunità relative all'ottimismo professionale culturale postmoderno, perfino quando molte volte è legato al radicalismo di sinistra, ci riporta alla mente, in maniera sospetta, il linguaggio orwelliano degli economisti neoliberisti. Infatti, l'arte non fa il suo rientro nella società come «cultura democratica di massa»; ma, al contrario, il mercato supera i propri limiti e rinnova la sua pretesa totalitaria ancora più vigorosamente di prima. Dopo che l'economia capitalista si è scissa dal contesto culturale della vita, ed i suoi resti sono stati trasformati in sottosistema separati, la sua dinamica non avrebbe potuto certo fermarsi a questo stadio di disintegrazione. Anche se all'inizio i settori dell'arte e della cultura, dello sport, della religione, del «tempo libero» ecc. sembravano essere in grado di affermare una loro propria logica contro il sistema dominante di «economia svincolata», da quel momento in poi sono diventati essi stessi «economicizzati».
Inizialmente, questi campi erano dipendenti e secondari: se il contesto sociale è determinato dal fine in sé scisso del denaro, allora anche il prete, l'atleta e l'artista devono «guadagnare denaro», sia direttamente come venditori sul mercato, sia indirettamente per mezzo dell'assorbimento statale, con il denaro proveniente dai processi di mercato. Ma per lungo tempo questa è stata solo un dipendenza esterna. Fino a che l'arte non ha ceduto nella sua stessa produzione alle leggi economiche del mercato, non ha potuto diventare una merce totalmente capitalista, ma solo qualcosa di supplementare nella circolazione. Ma il fine in sé capitalista è tanto affamato quanto insaziabile, e perciò deve divorare, alla fine, i proprio resti già mutilati della vita: l'arte e la cultura scisse, così come il miserabile «tempo libero»
e la limitata intimità familiare. L'arte ritorna alla vita solo nella misura in cui la vita si dissolve nell'economia. L'arte ora non ha più una sua esistenza propria, ed in quanto sfera non è più nemmeno un'estetica scissa, ma è diventata un oggetto immediatamente economico e perciò la sua produzione ormai si realizza solo sotto i punti di vista del marketing. In generale, proprio nel capitalismo senza limiti della fine del XX secolo, tutti gli oggetti della vita e del mondo hanno smesso di avere qualsiasi valore qualitativo, ma hanno solo quel valore economico che conferisce loro vendibilità.
In realtà, ciò che i postmoderni amano annusare come possibilità di emancipazione dell'arte nella cultura capitalista di massa, è la sua distruzione. Se oggi gli «allegri positivisti» della postmodernità (nei termini di Michael Foucault) vogliono riferire questa profetica visione di Adorno al vicinato del pessimismo culturale conservatore, in tal caso essi allora dimostrano solo di aver incondizionatamente capitolato di fronte all'imperativo economico, e di non essere meno affermativi di quanto lo sono i conservatori apparentemente critici. Mentre il pessimismo culturale conservatore critica la distruzione dell'arte da parte dell'industria culturale capitalista solo dal punto di vista del proprio passato, in quanto esso era un'estetica che aveva il fine in sé nella modernità classica, i postmoderni invece ingannano sé stessi per quel che riguarda l'impulso finale della dissoluzione dell'arte nell'economia, che essi vedono come riappropriazione autentica da parte della società. E se la critica culturale conservatrice rimpiange la famiglia borghese, così come rimpiange i soggetti elitari della vecchia formazione culturale borghese, la postmodernità interpreta la solitaria miseria mediatica del «soggetto decentrato» come primavera di emancipazione. Alcuni hanno aderito al passato capitalista, altri al presenta capitalista, e tutti insieme rinunciano ad una prospettiva per un futuro anticapitalista. In questo senso, oggi, uomini e donne, artisti e concessionari di automobili sono solo identici come se tutti loro avessero adottato la medesima vuota identità del «soggetto automatico» e non più la propria. La «differenziazione» delle soggettività settorialmente scisse dall'economia di mercato prende una brutta piega, fino a che ciascuno diventa una sorta di venditore di automobili, non importa cosa faccia. La fiducia ingenua nella democrazia dei consumatori dell'industria culturale postmoderna svolge un ruolo ridicolo nei confronti della dittatura dell'offerta capitalista. Pertanto, l'industria culturale non dev'essere criticata per la cultura di massa, ma perché essa viene consumata nella forma alienata dell'«economia svincolata». La sua estetica non è l'estetica degli uomini, ma è l'estetica delle merci. Nella democrazia delle merci, gli esseri umani, in quanto uomini, non hanno niente da dire. L'estetica delle merci non integra gli individui disintegrati, ma integra le merci come pseudo-oggetti fantasmagorici.. Essa non è la forma estetica di un contenuto, bensì il «design» dell'astrazione economica. Questo stadio finale dell'estetica moderna può essere descritto facendo uso di diversi piani:
- In primo luogo, si tratta di un'estetica del particolarismo. Contesti e relazioni non vengono presi in considerazione. Viene ignorato il fatto che il tutto è qualcosa anche qualitativamente differente rispetto alla somma delle parti. Il design è estetica scintillante delle merci astratte particolarizzare per il consumo degli individui astratti particolarizzati, mentre tutto il paesaggio, le città e lo spazio sociale vengono trasformati in depositi di rifiuti puzzolenti.
- In secondo luogo, questo design corrisponde ad un'estetica dell'arbitrarietà. La forma ed il contenuto smettono di mantenere una relazione fra di sé, poiché il contenuto viene definito come una forma. Per il capitale, poco importa che esso si valorizzi a partire dalla produzione di carne di maiale, di campi minati o di purganti. Pertanto, anche per l'arte economificata del design diventa indifferente che essa produca solo a partire dalla condizione che si presenti come vendibile e che sia adatta alla messinscena mediatica. Questo elimina qualsiasi standard di misurazione. Mentre in un'integrazione culturale consapevole è sempre necessario sviluppare degli standard di misurazione, anche quando si conosce la loro relatività e la possibilità di alterarli, l'estetica della merce è a priori priva di standard di misurazione - cosa che si adatta perfettamente al «soggetto decentrato» postmoderno, il quale è letteralmente «come tu mi vuoi». Un mondo senza standard di misurazione, in cui ogni cosa è indifferente, tuttavia, può generare solo una cosa: una noia infinita.
- In terzo luogo, l'arte e la cultura degradata del design del mondo delle merci si esibisce come estetica della simulazione. L'idea brilla postmoderna, di una de-realizzazione della realtà attraverso i media (Jean Baudrillard e i suoi compari) adorerebbe credere con piacere all'apparenza del design, dal momento che è stata essa stessa ad averlo prodotto. La simulazione dei media tenta di costruire un mondo parallelo, virtuale dematerializzato, nel quale il capitalismo non deve più far fronte barriere naturali e sociali, e dove la crescita dell'«economia svincolata» può proseguire senza fine. Economicamente, i mondi dell'apparenza virtuale dei media corrispondo al capitalismo da casinò degli ultimi 15 anni: i mercati finanziari svincolati simulano un'accumulazione di capitale, la quale oramai da molto tempo non ha più sotto i piedi alcuna solida base economica. Il capitalismo, per così dire, prosegue la sua corsa per aria, dopo aver acquistato velocità per superare il bordo del canyon. In questo clima economico di «capitale fittizio» (Karl Marx), di «boom" delle azioni, di indebitamento, di gioco d'azzardo e di sociologia del «rischio» (Ulrich Beck), si è sviluppato uno spirito del tempo che tenta di superare l'insopportabilità delle intransigenze del capitalismo attraverso una sorta di «fare come se...». Nella posa simulativa di un'auto-estetizzazione mediatica, gli individui agiscono «come se» fossero competenti, avessero successo, belli e visibili, mentre le loro relazioni sociali reali collassano.
Il particolarismo, l'arbitrarietà e la simulazione denunciano che l'arte, distrutta dalla sua mutazione in estetica delle merci, può integrarsi nella vita sociale solo negativamente; e che in essa non c'è più vita. Il vecchio problema della separazione tra arte e vita non è risolto, ma diventa inesistente, senza oggetto (gegenstandslos), poiché è lo stesso uomo sociale ad essere stato disoggettivato (gegenstandslos). Ma anche questa disoggettivazione si rivela come mera apparenza, nella quale il «soggetto automatico», nella testa degli uomini, in un certo qual modo, si fa delle illusioni riguardo sé stesso. La realtà capitalista dev'essere dis-effettuata, dal momento che è arrivata, senza via di uscita, a quella che è la fine assoluta del suo sviluppo, senza che gli uomini, condizionati sistemicamente, siano disposti ad ammettere una tale crisi storica. Ma dietro il puro design dell'estetica delle merci, quello che si mostra inesorabilmente è la loro reale esistenza negativa. Gli uomini non possono sfuggire alla loro sofferenza reale, nemmeno quando cercano di realizzare la loro propria dis-effettuazione mediatica. L'«economia svincolata» può integrarsi solo tautologicamente in sé stessa, ma la sua pretesa di totalizzazione senza attriti è condannata al fallimento, dal momento che rende veramente negativa la vita reale e sensibile, ma non può assorbirla nel proprio mondo surreale fatto di astrazioni indipendenti, ragion per cui è incapace di «de-realizzare», o di abolire, la morte. Il rimosso non ritorna, rimane sempre lì dov'è. Solo alla superficie del design, il sistema delle scissioni appare come dissolto nell'economizzazione del mondo. Dietro quest'apparenza, tuttavia, il mondo reale disintegrato diventa insopportabile. Così come la scissione dei generi non scompare nei travestiti, tuttavia, anche «l'inselvaggimento postmoderno del patriarcato» (Roswitha Scholz), a livello primordiale, dopo la decomposizione della famiglia borghese, scarica sulle spalle delle donne il peso della crisi sociale, e allo stesso modo la miseria estetica del mondo funzionalmente orientato non scompare nel design dell'estetica delle merci, ma si limita solo ad apparire più rozzamente nella desolazione dello spazio pubblico economificato.
Se la crisi reale non può più essere repressa, la de-realizzazione che viene fatta attraverso i media riesce ad «estetizzare» la miseria non superata e dolorosamente percepita, anche quando questa estetizzazione della crisi non assume più le forme politiche degli anni '30, ma appare addirittura perfino «economificata» nella stessa politica. Tuttavia, a partire dalla medializzazione commerciale ed estetico-mercantile della povertà, della violenza e dell'inselvaggimento delle relazioni tra i generi, quelli che si aprono sono i falsi sorrisi delle motivazioni del fascismo. L'estetica della de-realizzazione attuata dai media e attraverso l'arbitrarietà senza standard di misurazione, corrisponde all'estetica della guerra civile e della barbarie, dal momento che essa, in definitiva, elimina quelli che sono i freni della civiltà. Oggi, un ritorno alla modernità classica è altrettanto poco possibile di quanto lo sia un ritorno alle forme agrarie di una società culturalmente integrata. Ma la sopravvivenza nella disintegrazione capitalistica è altrettanto poco possibile. Perfino l'arte stessa può essere superata positivamente solo quando diventa consapevolmente momento di un nuovo movimento sociale che trascenda il vecchio marxismo del movimento operaio e renda evidenti e visibili a tutti quali sono le radici che hanno prodotto il sistema delle scissioni e delle separazioni funzionali. Un'integrazione culturale della società, a nuovi e più elevati gradi di sviluppo, sarà possibile solo quando sarà stato distrutto il fine in sé dell'economia, e superata la scissione di base tra i sessi. Oggi, la legittima difesa contro l'economificazione capitalista del mondo è il presupposto di un nuovo dibattito sull'emancipazione .
- Robert Kurz - Gennaio 2002 -
fonte: exit!
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