«La libertà di giudizio costa molto cara. Persino accuse di tradimento. Ma è l’unica forza in grado di opporsi al Male.» (Agnes Heller - (Budapest, 12 maggio 1929 – Balatonalmádi, 19 luglio 2019)
Dissento dunque sono - colloquio con Ágnes Heller
di Wlodek Goldkorn
«Se lei è venuto per chiedermi qual è la mia identità, le rispondo: ne ho diverse, sono ungherese, ebrea, donna, filosofa e potrei continuare. Ma se mi chiedesse quale tra queste identità sia la più importante, risponderei: dipende dalla circostanza, da quello che sto facendo e da qual è il compito che mi sono data. Oggi, per me è di primaria importanza la mia identità ungherese; e questo a causa del primo ministro Viktor Orbán. Sono convinta che il suo regime sia estremamente pericoloso per l’Ungheria e per l’Europa».
Sta dicendo che l’importanza dell’identità è determinata dal grado di insofferenza nei confronti degli avversari. Ma quali sono le ragioni per le quali il discorso sull’identità è diventato cruciale in politica, in Europa?
«Per via del nazionalismo etnico, un fenomeno che è causa e al contempo conseguenza del peccato originale del nostro continente: ossia la Prima guerra mondiale. La Grande guerra a sua volta ha generato i regimi totalitari; figli del nazionalismo etnico. Ecco perché si tratta del fenomeno identitario più pericoloso in assoluto».
Tuttavia fino a pochi anni fa, forse fino alla crisi scatenata dal fallimento di Lehman Bros, non molte persone consideravano il loro essere italiano o francese la dimensione più importante della loro identità.
«Non è vero. Guardi i giochi olimpici. La gente tifa per la propria nazione. Forse la questione dell’identità nazionale non era interessante per gli intellettuali, ma in tal caso hanno sbagliato. E sa perché? Perché un intellettuale è legato all’idioma in cui crea e comunica. La lingua nazionale è l’identità del poeta e dello scrittore. E allora la questione è come definisci la tua identità nazionale e non se questa identità esiste».
Dal dopo Auschwitz abbiamo però vissuto nell’idea che il nazionalismo, e quindi il considerare l’identità nazionale come la più importante delle nostre identità, fosse la via maestra verso il razzismo e gli orrori. Può esserci un’identità nazionale non pericolosa?
«I francesi l’hanno creata; è l’idea che la Nazione coincide con la Repubblica, non con l’etnia».
Comunque il populismo avanza.
«Cosa vuol dire populismo? È una parola che viene usata perché abbiamo l’illusione di vivere ancora in una società divisa in classi. E invece la nostra è una società di massa. La gente non vota a seconda dell’interesse di classe, ma per convinzione ideologica. Tutti i partiti politici sono oggi populisti, perché tutti si rivolgono a tutto il popolo, costruendo narrazioni. E queste narrazioni sono ideologie, benevole o malevole. Ci sono narrazioni fondate su verità e narrazioni il cui fondamento è la menzogna. Ma comunque nessuno è in grado di vincere le elezioni sulla base del programma economico come accadeva invece una cinquantina di anni fa. Per parafrasare Spinoza: così come una passione può essere vinta da un’altra passione, la narrazione può essere vinta da un’altra narrazione. E io, francamente, non so per quale motivo il nazionalismo etnico venga chiamato populismo».
Una volta lei disse che la nostra identità è la nostra memoria. Ma si potrebbe obiettare che la memoria è la storia che raccontiamo a noi stessi e ad altri; quindi in parte immaginazione e invenzione. Noi ci ricordiamo quello che vogliamo a seconda del momento e della situazione e di come vogliamo rappresentarci.
«Il modo in cui lei rappresenta la sua memoria ad altri non è il suo passato; ma è invece la narrazione del suo passato. Lei prende tracce di memoria, scampoli di ricordi e li mette insieme creando dei nessi. Ma quella storia non è precisamente la memoria; è appunto solo una storia».
Però un politico può raccontare come vuole la memoria ungherese, italiana, polacca, senza mentire né inventare, ma dando una sua versione, funzionale alla sua ideologia, al suo discorso del potere e quindi manipolata, non condivisa da tutta la nazione.
«In tal caso parliamo di memoria culturale o collettiva, non più individuale. La memoria culturale è testo. Un testo può essere composto in una maniera differente, a seconda delle circostanze. Ovviamente, la natura della memoria nazionale dipende dal testo che si sceglie. Ed è questo che fanno i politici. Del resto sono stati i politici a inventare le feste nazionali; la prima, il 14 luglio francese. Il testo delle feste nazionali è differente da quello delle feste religiose. Nelle feste religiose si ripetono le stesse cose da duemila anni, scritte nei libri sacri. Nelle feste nazionali è il politico che parla di cose successe qualche decennio fa; e quasi sempre a sostegno della propria versione della storia.»
Un esempio: quello che il governo di Budapest oggi racconta del 1956 (la Rivoluzione soppressa).
«Non sbagliava. Però, una cosa la devo dire: la memoria degli sconfitti è importante per chi tra gli sconfitti è vivo. Degli antichi popoli, delle antiche tribù, scomparsi sappiamo poco o niente. Nell’assenza della vita, la memoria si estingue. Resta come tradizione».
Lei come filosofa parla spesso della libertà. L’identità ha a che fare con la libertà? Noi scegliamo la nostra identità, o no?
«La scegliamo, ma fino a un certo punto. Possiamo “ri-scegliere” quello che siamo. Io “ri-scelgo” di essere ebrea e donna. In altre parole: io ho deciso di essere donna ed ebrea. E questa è l’espressione della mia volontà. Ma ci sono altre identità che non scegliamo e in cui siamo nati». Facciamo un provvisorio riassunto. L’identità è sempre stata importante, è plurale, parzialmente la possiamo scegliere, se diventa un discorso etnico è estremamente pericolosa maneggiata dai politici. E tuttavia, nella letteratura, nell’ambito della moda (un linguaggio universale che parla del futuro), tra i giovani va forte una figura che in tedesco si chiama “Doppelgänger”, il doppio; l’ambivalente. Facciamo due esempi: se guarda come sono vestiti i ragazzi nelle nostre metropoli, ha l’impressione che siano androgini, abbiano una doppia identità sessuale. E poi, il successo di un romanzo come “Giuda” di Amos Oz, dove il tradimento è presentato come una necessità e un’ipotesi di azione da persone oneste e perbene. Quella del tradimento è una storia vecchia. Già nella Bibbia Geremia è accusato di essere un traditore (a causa della sua visione geopolitica, ndr). E se parliamo del libro di Oz, è pur sempre fiction».
Sarà fiction, ma c’è un personaggio che ricorda un intellettuale israeliano vero, contrario alla nascita dello Stato.
«Se nel 1947 eri contro la nascita dello Stato ebraico, eri un traditore».
E allora, la stessa domanda riformulata: nel mondo in cui i nazionalisti ci dicono che si può avere una sola identità e che quella identità esclude l’Altro, dobbiamo avere il coraggio di essere traditori?
«Dipende. Dobbiamo averlo, quando è giusto passare per traditori».
Willy Brandt e Marlene Dietrich tradirono, si schierarono con gli alleati contro la loro patria, la Germania.
«Avevano ragione. Come avevano ragione i deputati ungheresi a Strasburgo che hanno votato a favore delle sanzioni contro l’Ungheria di Orbán. La vera domanda però è un’altra: un giudice per farsi accreditare come buon ungherese deve tradire la propria professione?».
Professoressa Heller, quando diventiamo anziani, spesso proviamo bisogno di tornare ai nostri luoghi d’infanzia, per esempio a Budapest; di indagare sui nostri nonni, specie quando non li abbiamo conosciuti (condizione comune per gli ebrei della generazione nata subito dopo la Catastrofe). Perché questo bisogno di tornare alle radici?
«Io non ne ho bisogno e non sono tornata a Budapest per cercare le mie radici. Ma posso parlare dei miei amici e conoscenti. È moda. Specie si si fa parte di un ambiente cosmopolita. Le racconto una storia: tanti anni fa a Roma a Campo de’ Fiori ho chiesto al proprietario del ristorante come andare da un’altra parte della città. Mi rispose: “Non so, non ho mai lasciato questo quartiere”. Poi, sull’aereo per l’Australia una donna mi raccontava di avere un appartamento a Sydney, uno a Hong Kong, un altro a New York. Le ho chiesto dove stava di casa. Mi ha risposto: “La casa è dove sta il gatto”».
Può un immigrato sentirsi a casa in Italia, senza saper l’italiano, senza saper leggere Dante e quindi senza avere una certa conoscenza della tradizione e della cultura cristiana?
«Sinceramente non lo so. Negli Stati nazione l’integrazione significa assimilazione. È quanto è stato chiesto agli ebrei negli Stati etnici, ad esempio in Ungheria. Ma a New York integrazione non significa assimilazione; sei cittadino e basta. Questa è la regola in tutto il mondo nuovo. Ho vissuto in Australia. Dopo tre anni sono diventata cittadina e considerata filosofa australiana. Punto».
Proviamo a parlare di capitalismo e identità e memoria. Il capitale ha memoria?
«Non esiste il capitale, come entità fisica. Marx ha definito il capitale come un rapporto sociale. Un rapporto sociale non può avere memoria».
Ma allora perché con la globalizzazione l’identità nazionale si è rafforzata? In apparenza è un paradosso.
«Farei alcuni distinguo. Intanto, ci sono fenomeni che non possono essere globalizzati. Quello che invece sicuramente si può globalizzare è la cultura. Se lei va alla Biennale di Venezia, vedrà opere di vari Paesi che non si differenziano l’una dall’altra; se va in Cina, la lirica è la Traviata o il Ring wagneriano. Ma se prendiamo in considerazione personaggi come Orbán, Erdogan, Putin, allora parliamo del profitto, della redistribuzione degli utili, in un modo opposto a quello socialdemocratico. Chi serve il tiranno può avere successo e soldi, chi non lo serve è escluso».
Sta dicendo che l’ideologia identitaria è solo una maschera del potere?
«No. Ma perché una simile ideologia vinca occorre che ci sia bisogno di identità e nostalgia per un capo che indichi la strada, dica cosa fare: la sindrome della paura della libertà».
Resta inevasa la domanda sul perché abbiamo bisogno di identità.
«Perché è molto difficile essere umani. Il mondo in cui gli umani crescono è pericoloso, strano, o nel migliore dei casi, difficile. Per combattere la solitudine l’essere umano deve definire se stesso».
Era più più facile essere umani in una società di classi, dove era chiaro chi era il subalterno?
«Era più facile finché esistevano le comunità. Si nasceva, si viveva, si moriva nello stesso luogo. E tutti sapevano a quale luogo e quale classe appartenevano».
Sarebbe di rito una domanda sul futuro della sinistra. Ma invece cito Zygmunt Bauman, che un giorno mi disse: dal momento che non ci sono più modi di vita e quindi identità di classe operaia, è difficile definire la sinistra.
«La divisione tra destra e sinistra appartiene al passato. Esisteva dalla metà dell’Ottocento e fino alla fine del Novecento. Oggi in Europa la linea di divisione passa tra i federalisti e il nazionalismo etnico. La vittoria dei nazionalismi etnici significherebbe la fine dell’Europa. Non è retorica. Non abbiamo più la forza economica né la nostra cultura è particolarmente interessante. Ci resta solo la democrazia liberale. Se rinunciamo a questa, abbiamo chiuso».
Domanda supplementare. Cos’è il Male?
«Sono in totale disaccordo con Hannah Arendt: il Male non è banale né è la mancanza di riflessione. E del resto neanche lei lo poteva pensare seriamente, lo ha detto perché era incapace di tradire il pensiero di Heidegger. Io ho la mia concezione del Male e del Male radicale. In breve, e per citare Thomas Mann, tutti noi violiamo i dieci comandamenti, desideriamo la donna altrui, a volte rubiamo, nell’immaginazione uccidiamo. Ma il Male radicale si ha quando qualcuno dice: devi rubare, devi uccidere, devi far soffrire l’altro. E perché quel Male si manifesti, occorrono certe condizioni sociali e politiche».
E la cosa più importante nella sua vita?
«Dipende dal momento. Ma il momento più bello fu quando vidi il carro armato sovietico entrare nel ghetto dove ero rinchiusa. Quel carro armato significava vita».
Gli stessi carri nel 1956 portarono morte e oppressione.
«La liberazione non sempre significa libertà. Le ho detto che è difficile essere umani».
- Wlodek Goldkorn - Pubblicato sull'Espresso del 30/9/2018 -
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