Il mistero di Georges Simenon
«... Il commissario si sedette accanto alla donna. Nathalie guardava i lungosenna, i ponti, i pedoni, gli autobus e le macchine come se tutto questo appartenesse già a un lontano passato...»
È così che finisce Maigret e il signor Charles, l’ultimo romanzo scritto da Georges Simenon. In quel 1972 in cui usciva un libro che pareva dare l’addio ai lungosenna di Parigi, Simenon segnò su una busta il nome «Victor», annotò i personaggi principali di quello che doveva essere un nuovo libro, e smise di scrivere romanzi per diciassette anni: fino alla morte nel 1989. Perché?
Già dopo il Sessantotto, e poi negli anni Settanta, Parigi cominciò a cambiare freneticamente. Negli anni Settanta gli operai che scavavano Les Halles, che demolivano edifici e ne costruivano di nuovi, facevano tre turni al giorno; la nuova fiscalità distruggeva il piccolo commercio di bottegai e artigiani; Parigi, che era rimasta quasi immutata dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Sessanta, fu investita da un veloce mutamento di classi sociali, costumi, luoghi, mitologie, linguaggi. Simenon non viveva più a Parigi da un’infinità di anni, ma era uno scrittore materialista in sommo grado: aveva bisogno di sentire che da qualche parte ciò che scriveva aveva un corpo, che la borghesia che descriveva era viva, concreta, reale, che il suo mondo, a Parigi come ad Anversa o a Tahiti, era esistente. Ma intorno al 1972 non solo Parigi o New York, ma tutto il mondo aveva cominciato quella accelerazione distruttiva del passato prossimo che non è finita: i sogni romanzeschi di Simenon non corrispondevano più a un mondo vivo, e forse per lui quel mondo che apparteneva «già a un lontano passato» poteva essere ormai solo ricordato, non più reinventato come aveva fatto nella commedia tragicomica di Hôtel del ritorno alla natura, nella feroce ironia di Cargo, nel brillante gioco del caso di Corte d’assise, nell’ambiguità totale di In caso di disgrazia, nel mélo nero e sottile dei Complici, nella grande storia d’amore del Piccolo libraio di Archangelsk, nei brividi di rivolta del Clan dei Mahé, nell’umorismo al vetriolo di Turista da banane, nel lucido buio del Viaggiatore del giorno dei Morti, nell’angoscioso smarrimento delle Finestre di fronte, nella trappola famigliare del Gatto, nella rabbrividente misteriosità del Grande male, nell’esotismo cupo di Colpo di luna, nella ribellione torva dell’Assassino, nella misteriosa metamorfosi della Neve era sporca, nell’impenetrabile verità della Vedova Couderc, nel contropelo ironico fatto a Balzac con Il testamento Donadieu e I Pitard, nell’amour fou o forse amore e basta della Marie del porto, nella straordinaria fuga nel mondo e dentro di sé dell’Uomo che guardava passare i treni: e con altri romanzi che sono variazioni, più o meno acute e segrete, di pochi e ossessivi temi.
Di fatto, dopo la decisione di non scrivere più romanzi, cominciò per Simenon l’epoca dei «dettati»: lo scrittore forse più prolifico e abile della sua epoca si mise a dettare a un magnetofono le sue memorie. E già il magnetofono appariva misterioso: forse Simenon voleva esercitare il minor controllo possibile sul suo inconscio per dire «più verità» di quelle poche e contorte scritte nell’autobiografia-romanzo che era stata Pedigree? Potrebbe darsi, posto che Simenon avesse davvero un inconscio. Poi, a un tratto, spinto dal suicidio a 25 anni di Marie-Jo, la figlia prediletta, lo scrittore abbandonò la promessa di non scrivere: e scrisse, non dettò, le Memorie intime, un libro autobiografico di milleduecento pagine. Forse nel 1972 e dintorni le tensioni che gli venivano dalla vita di Marie-Jo assediavano e deprimevano Simenon? Non voleva più scrivere romanzi perché sentiva quanto fossero mirabili ma falsi i romanzi, persino i suoi, al confronto con il romanzo impossibile tra lui e sua figlia? È difficile entrare nella mente di Simenon, perché a ogni indagine essa appare un teatro di riflessi, e mai qualcosa che ha un suo vero contenuto: la mente di Simenon non appare un «pieno», ma un «vuoto» da cui si irradia un ossessionante potere mimetico. Può darsi che altri motivi contribuissero all’abbandono dei romanzi di invenzione: la stanchezza fisica, la noia, la fine di quella strana ispirazione a comando che lo aveva sorretto per centonovantadue romanzi, e di cui nessuno, anche il meno riuscito, è mancato.
«Memorie intime» di Georges Simenon
«”Save me Daddy” – I’m dying – I’m lost in the space, the silence of death» aveva scritto, poco prima di morire, Marie-Jo, la venticinquenne figlia minore di Georges Simenon. Il 19 maggio 1978, con un proiettile calibro 22, Marie-Jo si uccide nel suo appartamento di Parigi. È un suicidio annunciato, e del resto più volte tentato: dopo essere stata una bambina «difficile», Marie-Jo era entrata sin dall’adolescenza in un ciclo infernale di cliniche, fughe, ospedali psichiatrici. Conservatore assoluto, Simenon fu affascinato per tutta la vita esattamente dal contrario di ciò che quasi ostentava di essere, un bravo borghese: e fu attratto da quelli che rompono le regole, quelli che escono fuori dal gioco coatto della società per scelta o perché sono stati espulsi. Quest’uomo di cui si crede di sapere tutto, a ogni lettura o rilettura diventa sempre più sfuggente, inafferrabile come l’avventuriero che sognò di essere e fu solo nei libri. Scriveva in stato di trance, così a stretto contatto con i suoi personaggi da sentirsi soffocare dalle sue famiglie meschine, dalle sue madri ossessive e dai suoi borghesi avidi di denaro: e si identificò, lui riuscito socialmente e evaso al fallimento familiare, con tutti i perdenti, i ribelli e le smarrite che popolano le sue storie. Il vero enigma di Simenon sta forse proprio nel fatto che lo si legga, e lo si capisca così bene: vuol dire che siamo ancora esattamente la società gretta e piccolo-borghese che lui descrisse? O forse che ci conforta il suo cercare la verità senza la pretesa di giudicare?
Si direbbe che per Simenon la sola forma di salvezza sia la lucidità su sé e sul mondo, con la stimmata che chi è condannato a comprendere il mondo non può però trasformarlo. Chi ha capito, ha capito solo per sé, e tace: o forse scrive romanzi, maschere di una verità ambigua. Gli uomini “normali” di Simenon diventano spesso da uomini banali degli eroi grandiosamente falliti, che trovano nella sconfitta l’unica forma di libertà concessa dalle convenzioni. Ed è qui che Simenon cattura il suo lettore: chi è soddisfatto della quantità di libertà che gli è toccata in sorte? Nel mondo moderno, in cui la società e il costume sono penetrati nell’anima dell’individuo, nessuno sfugge alla prigionia delle regole. Voglio vivere tutta la mia vita, intera, a qualsiasi prezzo: è questo il grido soffocato che inebria e distrugge gli eroi di Simenon: come in una sorta di tragedia greca senza più dèi, dove «l’inferno sono gli altri» di Sartre è la legge suprema, e dove la ribellione è sacrosanta ma destinata alla sconfitta. Il ribelle di Simenon è un uomo comune, in apparenza il più comune tra tutti, chiuso in un cerchio di riti sociali, incatenato agli atavismi, modellato dall’educazione e sottomesso al clan: vale a dire alla tradizione sempre uguale del “perbene”, del “così si è sempre fatto”, della “saggezza” borghese del giusto mezzo che impedisce la vita stessa: dal momento che la vita è proprio l’errore, la mancanza di saggezza, la crisi dell’ordine sociale. Tutti i libri di questo conservatore traboccano di un perenne invito romantico alla rivolta contro le convenzioni, ma con un romanticismo purgato da ogni niaiserie sentimentale, un romanticismo cupo e nero dove il nero non ha niente a che vedere con il noir. Il racconto noir rappresenta quasi sempre un mondo separato da quello comune, un mondo spesso spettacolare e retto da leggi proprie: in Simenon il nero è nel cuore di tenebra dell’ordine borghese, e il delitto ha una radicale ambiguità: lottare per vivere una vita vera è un crimine? E, più a fondo: chi può giudicare il cuore dell’uomo dove il cuore dell’uomo è stato deturpato da biologia, educazione, lavoro, famiglia, convenzioni, denaro? Tutti i grandi romanzi di Simenon si aggirano dentro queste domande, senza scampo e senza reale redenzione se non la conoscenza delle cose, una conoscenza che è possibile dopo che sugli eroi di Simenon si è abbattuta la febbre: febbre letterale e febbrile desiderio di una vita diversa, febbre ignota anche a se stessa a causa di Eros, e febbrile fuga dai grovigli del rito sociale anche a costo della morte.
Negli anni in cui Simenon abbandona il romanzo, la cronaca della sua vita esteriore dice che, il 19 maggio 1978, sua figlia Marie-Jo si suicida con un colpo di pistola, e due anni dopo un quasi ottantenne Simenon scrive le Memorie intime, che si concludono con una serie di poesie, lettere, pagine di diario e canzoni scritte dalla figlia: un gigantesco omaggio al fallimento artistico di Marie-Jo che avrebbe voluto scrivere romanzi e non ci riuscì? Una riparazione postuma per una innominabile colpa di omissione d’amore? O un ambiguo atto d’amore per la carne della sua carne? Il cuore del libro si apre verso la fine, quando a un Simenon per niente stupito o sorpreso la figlia, irritata con il padre perché vive con Teresa, la governante-amante succeduta alla seconda moglie, gli confessa di amarlo, e di amarlo come donna: «“Perché lei e non io?” “Ma non capisci, bambina?” “Cosa devo capire?” Indico il letto. “Teresa divide tutto della mia vita.” “E allora?” Ho sempre temuto quello che improvvisamente mi appare chiaro. Mi fai vedere l’anello d’oro che mi hai chiesto quando avevi otto anni, che hai fatto allargare via via e che porti ancora... “Tutto quello che lei ha fatto per te, posso farlo io, no?”». Era a questo luogo di verità d’amore incestuoso, con il finale voler essere cremata di Marie-Jo con l’anellino nuziale regalatole dal padre, che convergevano le quasi mille pagine precedenti: con le loro storie di divorzi, di enormi case di campagna in cui Simenon gioca al contadino, di viaggi irrequieti e maniacali, di donne desiderate come doppioni di un insoddisfatto desiderio segreto, di ritratti folgoranti e notizie stucchevoli su figli e nipoti e cameriere, di libri scritti in una settimana tra infelicità familiari e avvocati e mogli in cliniche psichiatriche e grandi alberghi e ville con piscine e domestici. Le Memorie intime non svelano solo il segreto di una passione impossibile, ma sfiorano anche il segreto della scrittura: il fatto che i luoghi meno riusciti di queste memorie siano quelli dove Simenon descrive, più o meno sinceramente, le cose come davvero sono accadute è certamente un sipario levato su quel segreto. Alla fine degli anni Settanta è ricco, ha trovato la donna-madre felliniana che inseguiva, è sazio. Perché scrivere? E smette: la sua vita sembra bastargli. Ma la morte della figlia rompe l’equilibrio, va a urtare l’egoismo accanito con cui lo scrittore si è difeso da sempre, e allora come un grafomane Simenon comincia a raccontare: per non dissolversi, per curarsi con lo scrivere, per far fronte ancora una volta al buco nero: buco di vita, buco di amore, buco di non-conoscenza di sé: il buco nero da riempire e il vuoto affamato che da sempre lo spingono a scrivere. Simenon non vuole conoscersi o conoscere, ma raccontare le apparenze del mondo e di sé, perché questa è la sola cosa che lo fa sentire reale. Sì, sente il bisogno di parlare alla figlia, di spiegare e spiegarsi, ma sotto tutte le motivazioni coscienti, vuole soprattutto affermare che lui è vivo: e il giubilo della creatività che fluisce inarrestabile e felice per l’atto stesso di quella scrittura che copre la realtà con un’altra realtà, non può che essere crudele: come è crudele servirsi da scrittore del fallimento di una figlia. L’uso di una figlia-carne che è forse l’unico amore della sua vita se è vero che ogni grande amore è sempre un incesto differito, l’affermarsi come grande scrittore ancora una volta con le Memorie intime e sia pure nel disastro, l’andare avanti nel piacere delle parole che non somiglia a nessun altro piacere: tutto questo appare a tratti nelle Memorie intime così spontaneamente egoistico da essere ripugnante, e i tanti «cara» e «piccolina mia» rivolti a Marie-Jo prendono il tono equivoco e narcisista del piacere appagato.
Nelle prime pagine Simenon scrive: «Quando risalgo indietro nel tempo e nei ricordi, trovo sempre una fame mai saziata di conoscere tutto ciò che è vivo e ciò che non lo è – ma non è forse vero che tutto è vivo, come sarei tentato di credere?». Pur fiorendo dalla morte, i ricordi di Simenon non sono altro che un esaltare la vita a dispetto di tutto: come un Whitman del romanzo, Simenon non cerca sé nel mondo, ma vuole ridire il mondo, e dentro questo corpo enorme e pulsante dell’esistenza, installarsi felice al di fuori della Storia e della Ragione. Le Memorie in time sono ancora una volta un romanzo, vero quando trasforma nell’immaginazione la realtà, falso quando crede di riferire i fatti della realtà come sarebbero veramente accaduti: in qualche modo oscuro, con questo fiume di scrittura Simenon non solo sopravvisse alla figlia, ma la divorò, si congiunse con lei e la riassorbì in sé. E le domande che potrebbero urgere: è giusto che dall’infelicità nasca il piacere? è bene che da una vita spezzata si ricavi una vita piena? gli scrittori hanno forse il diritto di far questo? Queste domande sono condannate a restare sospese. La gloria e la miseria della creazione sono due facce inseparabili, un solo corpo in cui si manifesta unicamente l’ambiguo segreto del demiurgo, si chiami Simenon o Dio: lo scrivere comincia dove la vita vera è assente, e nessuno scrivere può sostituire la vita che manca: e questo è ancora un giudicare, un voler trarre dalle cose che hanno infiniti sensi un solo senso. Forse ora e in futuro vale solo ripetere, con la dovuta ironia e il giusto disgusto, la frase che il protagonista dell’Uomo che guardava passare i treni dice al suo interlocutore, stupefatto per aver scoperto che il libro in cui il protagonista doveva scrivere «la verità» sul suo caso, è solo un mucchietto di fogli bianchi: «La verità non esiste, non è così?»
- Giuseppe Montesano – da “Lettori Selvaggi”. Giunti Editore -
fonte: Rakuten Kobo
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