Theodor W. Adorno su Samuel Beckett
- di Mario Farina -
«Mio Dio che porcheria ne sarebbe uscita». È un appunto del 1967 che Adorno annota dopo aver incontrato Beckett a Parigi. Un commento sprezzante a quanto gli aveva appena raccontato il drammaturgo irlandese e cioè che Bertolt Brecht, prima di morire, avrebbe progettato di scrivere un “anti-Godot”. A parere di Adorno, nulla sarebbe più strutturalmente refrattario a entrare in dialogo con la drammaturgia di Beckett dell’ironia didattica e ammiccante del teatro engagée di Brecht, che con le sue prese di posizione morali, con le sue scelte politiche, con l’esplicito schierarsi in favore del blocco orientale, tagliava i ponti con una critica ostinata e radicale come quella che Adorno chiedeva all’arte del secondo Novecento.
Tre sono agli occhi di Adorno i grandi modelli letterari del secolo. Kafka, con la spietata lucidità della sua prosa da realista distorto. Proust, nelle cui parole intime e private il mondo viene raffigurato in tutto il suo respiro asmatico e difficoltoso. E infine Beckett, disarmato osservatore della miseria umana, che nell’ultimo attimo della distruzione cerca, probabilmente invano, le tracce di un nulla positivo. E Il nulla positivo è anche il titolo che Gabriele Frasca sceglie per questa antologia di scritti adorniani su Beckett (L’Orma, Roma 2019, 248 pp.), espressione questa che Adorno prende a prestito dall’autore di Fin de partie per descriverne i più coerenti esiti letterari. Proprio in questo nulla positivo, l’opera di Beckett si pone per Adorno all’apice delle possibilità artistiche della tarda modernità e gli scritti qui raccolti potrebbero essere intesi come una serie di esempi del carattere precario della prassi interpretativa, senza che questa precarietà debba mai tradursi in disfattismo. Fedele lettore di Karl Kraus, Adorno sembra ribadire nell’interpretazione letteraria quel che l’intellettuale viennese diceva sulla lingua: «se non riesco ad andare avanti, vuol dire che ho sbattuto contro il muro del linguaggio. Allora mi ritraggo con la testa insanguinata. E vorrei andare avanti». Tanto più l’oggetto rifiuta l’interpretazione, quanto più il critico riconoscere di essere sulla strada giusta e in questo le opere di Beckett rappresentano un modello. Come in Kafka, e forse più che in Kafka, la letterarietà delle parole di Beckett si scontra con il fatto che il lettore vi riconosce qualcosa che assomiglia alla sua stessa vita e conferisce all’opera il carattere del déjà-vu: «ogni proposizione dice: interpretami», scrive Adorno su Kafka, « ma nessuna tollera l'interpretazione. Ciascuna, insieme con la reazione ‘È così’, impone la domanda “com'è che lo so già?” ».
Nel 1964 il critico e filosofo statunitense Arthur Coleman Danto esultava perché l’arte di Warhol «permise di apportare alle confusioni dell’estetica la chiarezza della grande filosofia analitica”, dal momento che “l’arte pop non ha segreti nascosti nell’inconscio». Con spirito del tutto opposto, Adorno affermava invece che «tutte le grandi opere letterarie ammettono una pluralità di interpretazioni, eccetto una: l’interpretazione esclusiva, intollerante». È un passaggio contenuto nello scritto che apre il volume curato da Frasca, tratto da un colloquio televisivo del 1968 in cui Adorno si trova con Ernst Fischer a commentare l’opera beckettiana assieme ai critici Walter Boehlich e Martin Esslin. E la scelta di inaugurare il volume proprio con questo colloquio a suo modo storico ci sembra quantomai felice. Con una metafora cara ad Adorno, il lettore viene così invitato a spiare dal buco della serratura i critici impegnati nel loro lavoro di ricomposizione dell’opera. Beckett, Adorno, la critica letteraria stessa, smettono di apparire lontani e rarefatti, oggetti impolverati nella bacheca di un museo culturale, per prendere vita nella viva discussione interpretativa.
Oltre a questo raro reperto televisivo (un breve passaggio è reperibile su youtube, il volume contiene il più celebre tra gli scritti che Adorno ha dedicato a Beckett, vale a dire Tentativo di capire Finale di partita, pubblicato originariamente nel secondo volume delle Note per la letteratura. Si tratta di un saggio fulminante, nel quale Adorno traccia i contorni di una possibile interpretazione della grande pièce composta tra il 1955 e il 1957. L’universo beckettiano mostra, qui, il proprio lato più enigmatico e pungente e mette in scena un mondo nel quale i soggetti, non più esseri pienamente umani, assomigliano piuttosto a «mosche che si contraggono dopo che lo scacciamosche le ha già mezzo spappolate», come osserva Adorno. L’impressione è dunque quella di assistere alla rappresentazione plastica dell’osservazione terrorizzata che Kraus faceva tra le due guerre: “was hat die Welt aus uns gemacht! (che cos’ha fatto il mondo di noi!)”. Attorno agli stessi temi, ruota il terzo testo della raccolta, lo Schizzo di un’interpretazione de L’innominabile, che Adorno lascia incompiuto nel 1962. È una raccolta di osservazioni puntuali, alcune delle quali contano di poche parole, capaci di dare l’immagine di un mosaico aforistico. «Il panteista», si legge, «afferma: dopo la morte sarò fiore, foglia, terra. Beckett mette alla prova questa affermazione: cosa sono quando sono fango». A questo, seguono una serie di estratti a tema beckettiano tratti dall’ultima grande opera incompiuta di Adorno, Teoria estetica, di cui qui si sceglie di riprodurre la vecchia traduzione di Enrico De Angelis. In questo modo, Frasca offre un’immagine complessiva dell’attenzione che Adorno ha riservato a Beckett e presenta al lettore una guida utile per tentare di leggere una delle relazioni più promettenti mai verificatesi tra filosofia e letteratura, quella tra il teorico della dialettica negativa e il drammaturgo della riduzione del soggetto a inutile mobilio del mondo.
Beckett, è noto, si è sempre rifiutato di dare un’interpretazione del proprio lavoro. A chi si attende che l’autore espliciti di cosa sono metafora i suoi scritti, Beckett risponde con una scrollata di spalle ed è precisamente questa caratteristica a rendere l’opera beckettiana l’oggetto prediletto su cui si esercita l’attività interpretativa di Adorno. Semplificando molto, si potrebbe dire che ci sono tre vie per accostarsi interpretativamente a un testo letterario. Avere una tesi debole ed elencare i numerosi punti in cui questa è confermata dal testo; avere una tesi forte, presentare i pochi punti in cui è riscontrabile e disinteressarsi del resto; infine quello che sceglie Adorno, ereditato dalla tradizione hegeliana e in parte romantica. Cioè, avere una tesi forte, e qualora dovesse essere smentita dal testo, concludere che è l’autore ad aver commesso un errore nella composizione, come nel caso del Faust di Goethe e del suo finale conciliatorio nella lettura che ne dà il filosofo francofortese. Questo perché l’opera, con la sua necessità, con la sua oggettività e autorevolezza, è qualcosa che si impone al suo stesso autore, il quale deve avere la capacità di riconoscerne l’evidenza. E Beckett, rinunciando all’interpretazione, dimostra di rispettare fino in fondo la propria opera: oggetto enigmatico, compatto ed ermetico, che solo la prassi interpretativa può tentare di accostare.
Questa pubblicazione, e non è un caso, cade a cavallo di un doppio anniversario che riguarda i due autori a cui è dedicata. Proprio nel 2019, ricorrono sia i trent’anni dalla morte di Beckett che i cinquanta da quella di Adorno. Al di là di questa occasione di comodo, il volume curato da Gabriele Frasca ha senza il dubbio il merito di essere una pubblicazione potremmo definire anacronistica. Esattamente come i due autori che lo animano, Il nulla positivo è un libro che non asseconda lo spirito dei tempi, ma anzi che si presenta come contrario alla cultura che li domina. Proprio per questo è una pubblicazione tanto più urgente e doverosa. Se la scuola di Francoforte, e la teoria critica in generale, hanno avuto un lascito, questo è proprio l’idea di non dare per scontato il proprio tempo e di non pensare la storia solamente alla luce di un progresso, pure incontestabile. Nell’epoca dell’apologia del mercato artistico, dell’appiattimento dell’opera sui suoi significati più espliciti e consolatori, dell’identificazione indiscutibile tra arte e intrattenimento, è importante provare a seguire la via che indica Frasca. Nei percorsi tracciati da Adorno e Beckett non è solamente il loro tempo a essere messo sotto accusa, ma il nostro. Nei Tre studi su Hegel Adorno liquida l’atteggiamento di Benedetto Croce, che pretendeva di stabilire Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel. In questo caso, può essere utile rivolgere a lui stesso la sua argomentazione: l’importante, allora, non è stabilire se Adorno e Beckett abbiano ancora valore di fronte al presente, quanto piuttosto capire se il presente abbia ancora senso di fronte ad Adorno e Beckett.
- Mario Farina - Pubblicato su DoppioZero il 29/6/2019 -
fonte: DoppioZero
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