giovedì 11 luglio 2019

Geroglifici!

Rari sono i libri che, al pari di Religio Medici, si prestano a essere usati come vademecum di sapienza e di saggezza, oltre che come mite ausilio terapeutico per il corpo e per l’anima. Browne era medico e scienziato, attento a seguire i turbinosi sviluppi della ricerca scientifica seicentesca, e insieme dotto antiquario, curioso di indagare le forme più singolari della Natura e dell’Arte. Ed era anche homo religiosus, capace di riconoscere e venerare il mistero là dove è. Ma innanzitutto fu un maestro di stile, che sarebbe stato celebrato come tale da una catena di lettori impeccabili, da Coleridge a Borges. Mai come nella sua prosa gli oscuri e solenni apoftegmi dell’ermetismo si presentano con voce affabile e persuasiva, che fa pensare a un Montaigne esoterico e miniaturizzato. Per i suoi contemporanei, Thomas Browne fu un grande antiquario, un medico illustre e, soprattutto, un "wit", definito volta a volta pedante o ironico, scienziato retrivo o promotore entusiasta della scienza nuova. Le sue opere sollevarono dispute teologiche e scientifiche, eruditi gli chiedevano consigli su disparate questioni. I lettori più moderni, a partire da Lamb, Coleridge, De Quincey, fino a Borges, scoprirono che Browne poteva essere considerato innanzitutto come letterato; che il fascino della sua prosa era, in certo modo, ineguagliato nella letteratura inglese; che l'astrusità delle sue preoccupazioni rendeva i suoi scritti ancor più rari e curiosi; che l'aura del remoto avvolgeva ogni pagina. Così Browne divenne uno scrittore per raffinati, una preziosità letteraria, una felice aberrazione. La sua opera - elusiva, fondata su di una cultura composita e scritta in una cadenza naturalmente religiosa e cerimoniale - si presenta come una complessa figura sul punto di disfarsi, come un mosaico le cui tessere stiano per essere separate e disperse.

(dal risvolto di copertina di: Thomas Browne, "Religio Medici" A cura di Vittoria Sanna. Biblioteca Adelphi)

La sapienza di Browne
- di Emanuele Trevi -

Nella schiera degli immortali di cui conviene sfogliare i libri almeno una volta nella vita, Thomas Browne sembra occupare, con tutto l’inconfondibile splendore della sua prosa, la sua nobiltà d’animo, la sua prodigiosa cultura, un luogo sorprendentemente defilato. Bisogna ammettere che la sua grandezza può apparire, a prima vista, secondaria e derivata, come di chi guarda il mondo nella lente di ciò che altri, prima di lui, ne hanno detto o scritto, la citazione prevalendo sull’esperienza diretta, sull’invenzione. Ma basta un po’ di consuetudine con le pagine di questo medico inglese, vissuto tra il 1605 e il 1682 in filosofica armonia con se stesso e con il prossimo, perché la nostra idea della letteratura si arricchisca e si modifichi in modo irreversibile: così come, per citare un suo contemporaneo, la visione di un quadro di Velázquez potrà sconvolgere nel modo più propizio ciò che fino a quel momento intendevamo per pittura. Quanto a Browne, in una pagina di suprema e abbagliante eloquenza, si mostra del tutto immune dall’illusione di durare nella memoria dei posteri: di «incorruttibile», infatti, c’è solo... «l’oblio», e non esiste «nulla di rigorosamente immortale, a parte l’immortalità», la quale, come si sa, non rientra nelle nostre prerogative. Eppure, l’albo d’oro degli ammiratori di Browne non ha nulla da invidiare a quelli di Shakespeare o di Milton: se esistono molti «scrittori per scrittori», Browne sembra appartenere alla cerchia più ristretta degli «scrittori per grandi scrittori». Limitandomi ai primi esempi che mi vengono in mente, ricorderò Edgar Allan Poe, Herman Melville, che definiva lo scrittore inglese un «arcangelo», e Jorge Luis Borges, che in un appassionato saggio giovanile (raccolto nelle Inquisizioni del 1925) vedeva nell’opera di Browne «un dono di bellezza» del quale desiderava sdebitarsi, e che non smise mai di rileggerlo e citarlo. Tra gli autori più recenti, non si può omettere il ricordo di un capolavoro della prosa contemporanea come Gli anelli di Saturno di Winfried Georg Sebald, che è forse lo scrittore che è stato più capace di ispirarsi all’erudita sublimità, al ritmo maestoso della prosa di Browne. Non so quanto fondata, ma molto suggestiva, è anche l’ipotesi di Sebald che ha creduto di riconoscere Browne (che aveva studiato medicina in Olanda, dopo essere passato per Montpellier e Padova) in uno degli studenti della Lezione di anatomia di Rembrandt.
Un classico rimane tale fin tanto che c’è qualcuno che ci lavora sopra, non importa se praticando la più severa filologia o adoperando gli strumenti meno sicuri dell’empatia e della fantasia. E un posto di rilievo nella lunga fortuna di Browne spetta di sicuro anche a Roberto Calasso, che dieci anni fa ripubblicava nella «Biblioteca Adelphi» la Religio Medici, capolavoro giovanile composto da Browne intorno ai trent’anni e apparso nel 1643. L’edizione, arricchita da un poderoso commento di Vittoria Sanna, era introdotta dallo stesso Calasso, che per l’occasione aveva rispolverato la parte iniziale della sua tesi di laurea, discussa a Roma con Mario Praz nel 1966. Ora quella stessa tesi di laurea viene ristampata integralmente con il titolo I geroglifici di Sir Thomas Browne (Adelphi). È una lettura a volte ardua, ma avvincente, che una volta ammessa la straordinaria qualità stilistica della scrittura di Browne la sottrae al sospetto dell’esercitazione gratuita e della laboriosa inezia da topo di biblioteca, rivelando un’impalcatura di pensiero e un metodo di vertiginoso rigore.
Chi ama i libri di Calasso potrà riconoscere in questo lavoro giovanile anche l’omaggio precoce a un maestro di cui si è perfettamente appresa la lezione. La prima difficoltà che l’interprete di Browne deve affrontare è quella di definire esattamente gli argomenti e i propositi di un’opera che sembra sempre procedere in maniera obliqua se non tortuosa, accumulando un numero inverosimile di dettagli come se ogni pagina fosse la vetrina di un museo di curiosità storiche e naturali. Saggi o meditazioni che li si voglia definire, questi testi sono la manifestazione concreta di un atteggiamento mentale a cui si addice perfettamente la definizione di «ermetismo». È lo stesso Browne, nella Religio Medici, a richiamarsi alla «filosofia di Hermes», intesa come una disposizione a riconoscere, in ogni minimo dettaglio dell’universo visibile, la cifra o ancora meglio il «geroglifico» di una realtà superiore, di per sé inattingibile dai sensi. Tutto ciò che esiste, dunque, è una scrittura arcana, la cifra paradossale di una realtà trascendente che si manifesta in una labirintica proliferazione di enigmi, simboli, prodigi che divengono eloquenti agli occhi capaci di vedere e alle orecchie disposte ad intendere. Se Thomas Browne afferma con tanto orgoglio, fin dal titolo della sua opera maggiore, la sua condizione di medico, ciò si deve al fatto che, se il destino dell’uomo è quello di interpretare con sempre maggior sottigliezza i segnali capaci di condurlo a un livello superiore della realtà, lo scienziato è il carattere mistico supremo. Con tutto il suo dichiarato rispetto per l’ortodossia anglicana, questa preminenza spirituale dell’osservazione naturalistica sulla speculazione teologica è un tratto di indiscutibile, profetica modernità del pensiero di Browne. Non sono forse i fisici e i biologi i veri intelletti metafisici dell’umanità odierna?
È pur vero che i più grandi profeti sono anche i più fedeli figli del loro tempo, e il suo tempo fornisce all’autore della Religio Medici un modello formidabile di indagine «spirituale» nella materia. Mi riferisco all’alchimia, capace di rovesciare con i suoi procedimenti l’angoscia del deperimento e della mortalità nella più luminosa delle speranze, che è quella di un destino da rintracciare nell’oscurità e nel caos dei fenomeni e delle loro cause. Agli occhi del medico, tutto ciò che esiste non è altro che un’immensa, irreparabile combustione, ma la cenere che ne deriva è l’oro del mondo, vita che si afferma nel cuore della morte, perpetua rigenerazione delle forme nella dissipazione dei corpi che transitoriamente le contengono. L’uomo, afferma Browne con una delle sue indimenticabili definizioni, è un «processo dissolutivo» che però non conduce al Nulla, ma all’«ultima e gloriosa quintessenza» che attende imprigionata nella materia. Ogni frase di Browne è come un bacino in cui convergono molti fiumi di sapienza, antichi e moderni. E nessuno meglio di Roberto Calasso è in grado di guidarci nei segreti di un metodo che fa di ogni minimo dettaglio del visibile la cifra, il geroglifico dell’invisibile, e di ogni aspetto perituro della vita «la dimora degli Angeli».

- Emanuele Trevi - Pubblicato sul Corriere del 29/10/2018 -

Nessun commento: