Per la conoscenza storica le vite dei lavoratori della terra sono rimaste nell’ombra. In assenza di testimonianze dirette bisogna rifarsi ai medici condotti, obbligati a vivere tra i contadini per occuparsi della loro salute. L’obbiettivo della medicina ufficiale fu quello di risanare l’ambiente di lavoro e di vita della collettività attraverso il controllo dei fondamentali parametri dell’igiene: aria, acqua, suolo. Ciò obbligò i medici a studiare le condizioni di vita dei contadini. Impegnati nella lotta contro le malattie epidemiche e la mortalità infantile, i medici condotti denunziarono le condizioni di vita dei contadini, in numerose inchieste e statistiche realizzate dai regimi napoleonici, dall’Austria e poi, sistematicamente, dallo Stato italiano. E furono materia delle topografie sanitarie dedicate ai comuni dove operavano. Emerge qui sempre piú netta la barriera sociale che divide la cultura ufficiale dal mondo contadino: l’igiene. La sporcizia appare come il segno ineliminabile di un mondo a parte, tanto da raggiungere talvolta gli estremi del razzismo.
Quali erano le condizioni di vita dei lavoratori della terra nelle campagne italiane dell’Ottocento? Pierre Bourdieu ha coniato per i contadini la definizione di «classe oggetto», che inevitabilmente si affaccia in questo libro. Essa esprime la loro subalternità nella storia europea dei secoli scorsi: individui rappresentati da altri, oggetto di commiserazione o paura per ribadirne la condizione subalterna. Quella classe fu cancellata dalla cultura dominante anche perché priva dei mezzi per farsi conoscere. Nel secolo XIX inchieste, statistiche e topografie sanitarie misero davanti all’opinione pubblica rappresentazioni della realtà contadina che aprirono un conflitto interno agli schieramenti politici. Tornare sui contadini dell’Ottocento costringe a varcare un tempo tanto breve nel computo delle generazioni quanto remotissimo nelle rappresentazioni culturali. La vigente strutturazione del racconto storico misura la nostra distanza dal passato con la scansione delle epoche. Cosí l’età del Risorgimento si è guadagnata una sua dimensione che l’allontana da noi. Eppure quel secolo XIX e quella storia dell’Italia di allora ci compaiono davanti come una presenza familiare se solo la misuriamo con le generazioni dei nostri personali antenati. Ma il tempo dei nostri bisavoli era davvero vicino al nostro? E quanto regge quell’articolazione scolastica del disegno del passato che lo ha inserito nell’epoca che chiamiamo contemporanea? Questa è la domanda che ci accompagnerà nel viaggio attraverso le fonti ottocentesche di Un volgo disperso.
(dal risvolto di copertina di: Adriano Prosperi, "Un volgo disperso. Contadini d'Italia nell'Ottocento", Einaudi).
I «senza voce». Il mondo scomparso dei contadini
di Massimo Bucciantini -
«Chi preferisce vedere un’immagine sdolcinata dei contadini, vada per un’altra strada. Io sono convinto che alla lunga dia risultati migliori dipingerli nella loro rozzezza piuttosto che con la convenzionale leziosità. Un quadro di contadini non deve essere profumato». Era il 30 aprile 1885. Vincent Van Gogh aveva appena finito I mangiatori di patate, un quadro che ha segnato un momento di svolta nella sua vita e nel suo modo di dipingere. Theo, suo fratello, aveva appena terminato di leggere con entusiasmo Germinal di Zola e Vincent gli rispondeva da pittore-antropologo qual era, facendolo entrare in un altro mondo: un mondo di dolore e di sofferenza a lui del tutto estraneo. Questo quadro «volevo che facesse pensare a un modo di vivere del tutto differente rispetto al nostro, di persone civilizzate». «Bisogna dipingere i contadini come se si fosse uno di loro, come se si avessero i loro stessi sentimenti e pensieri».
Leggendo il nuovo libro di Adriano Prosperi mi sono tornate alla mente queste pagine, che fanno parte di quell’insuperata lezione di umanità che è la corrispondenza tra Vincent e Theo. Lui, «pittore di contadini», come si definiva in quegli anni, imparando alla perfezione la lezione di un suo maestro, Jean-François Millet. E mi sono tornate alla mente per contrasto, quando Prosperi sottolinea che nella pittura italiana dell’Ottocento i contadini restano quasi sempre sullo sfondo di bellissimi paesaggi agrari, oppure quando sono in primo piano, a piedi scalzi, vestiti di stracci, immersi nella loro fatica nei campi, hanno sempre qualcosa di monumentale che non gli appartiene.
Alcuni giorni fa, un giovane e brillante storico dell’arte fiorentino, Silvio Balloni, mi faceva notare come anche nelle immagini di vita contadina dipinte dai Macchiaioli – Odoardo Borrani, Giuseppe Abbati, Telemaco Signorini, Silvestro Lega, lo stesso Giovanni Fattori con i suoi butteri della Maremma, fatte salve alcune litografie – sia attivo un filtro intellettuale e culturale molto sofisticato, dove i personaggi sono trasfigurati in un’aura quasi mitologica e circondati da un clima e una qualità della luce e del colore che predispone alla quiete e alla serenità. Nella pittura italiana dell’Ottocento, anche quella più sperimentale, s’intravede poco quella «selvaggità» e quel primitivismo che erano parte integrante di una vita contadina piena di stenti e di miseria, e che invece emergono con prepotenza dalla lettura di questo libro.
Prosperi ci fa precipitare dentro un mondo perduto e remotissimo che abbiamo del tutto rimosso, ma che ci riguarda. Ci aiuta a gettare uno sguardo sui «contadini che siamo stati». E lo fa partendo da alcune domande che possono sembrare banali nella loro semplicità. Come si viveva e cosa si mangiava nelle campagne italiane nell’Ottocento e nel primo Novecento, quali erano le condizioni di vita dei lavoratori della terra, ovvero degli uomini, delle donne e dei bambini che erano costretti a lavorare per gran parte dell’anno dieci o dodici ore al giorno. Come si viveva in case sudicie e fatiscenti, piene di umidità, con muri formati di rottami e di cocci, con il tetto fatto di canne o paglia, spesso composte di due sole stanze, una per la famiglia e l’altra per gli animali. Sono domande che confliggono con l’immagine dell’altra Italia, con il Paese definito – e oggi pubblicizzato – delle «cento città». Qui c’è ben altro, c’è il basso popolo delle «cento campagne»: oltre quindici milioni di persone unite dal segno inconfondibile della miseria, delle malattie e della subalternità economica e culturale. Non i salotti, i caffè, le biblioteche, i circoli letterari, le redazioni di giornali, le accademie, i luoghi tipici della sociabilità borghese così bene ricostruiti da uno storico come Marino Berengo. E la frattura tra questi due mondi in Italia – a differenza di altri paesi come la Francia – è stata insanabile. Se le «cento città» sono servite a mettere in risalto il lato moderno e innovativo della nazione e della sua classe dominante, è altrettanto vero che questa immagine ha finito per nascondere l’altra faccia della medaglia: un paese non meno vero e reale, abitato da una classe contadina a cui è toccato di pagare il prezzo più alto e il cui sacrificio è stato completamente dimenticato.
In queste pagine Gramsci è richiamato più volte. Alcuni passaggi dei Quaderni diventano un punto visibile, concreto e ben saldo su cui Prosperi fa poggiare le proprie riflessioni: «Quella classe fu cancellata dalla cultura dominante anche perché priva dei mezzi per farsi conoscere al suo tempo e ai posteri. I suoi membri non ebbero né gli strumenti né l'occasione di parlare di sé».
I contadini d’Italia dell’Ottocento sono i senza voce, gli invisibili, i sommersi, il volgo disperso, appunto, che però assume un significato ben più tragico di quello manzoniano. Qui non c’è riscatto, o se alla fine del secolo comincia a farsi avanti, esso viene bollato dal nuovo Stato come pericoloso e sovversivo, e quindi da reprimere con le galere, i domicili coatti, i manicomi.
Non hanno avuto testimoni-portavoce che si sono assunti l’arduo compito di parlare per loro. Chi li ha descritti e rappresentati è stato quasi sempre mosso da altri interessi, con in comune però la scelta di ribadirne la posizione di sudditanza. Meno affamati e meno sporchi, più sani e più forti, ma sempre obbedienti e subalterni.
Come scrive Prosperi, l’Ottocento più che il secolo della storia «sarebbe più giusto definirlo il secolo della medicina». E non solo per i progressi compiuti nella lotta contro le epidemie, dal colera alla malaria alla tisi alla pellagra, quanto per il ruolo pubblico svolto dalla medicina nel campo dell’igiene e della medicalizzazione della società. Nella classe dirigente del giovane Stato italiano vi fu un progetto che tornò di continuo: quello di realizzare una «carta igienica» in cui fossero raccolte tutte le informazioni sullo stato sanitario della popolazione. Ecco dunque l'impiego di una nuova scienza, la statistica, e l'avanzarsi di una nuova figura chiave, il medico: e, in particolare, il medico condotto, «sacerdote della scienza», come amava presentarsi. Spesso in rivalità con i parroci, ogni giorno vedeva con i suoi occhi il nesso causale tra malattia e miseria, la dipendenza dal padronato, l’estrema povertà del cibo, i pericoli delle acque stagnanti come micidiali portatori di epidemie, l’incidenza altissima di malattie infantili.
È impossibile dare conto qui di tutte le relazioni, le indagini, i progetti, le inchieste che in oltre cinquant’anni si susseguirono sulla questione igienica in Italia. A Cesare Lombroso e ad Agostino Bertani sono dedicati due tra i capitoli più belli. Il primo – ossessionato dalla ricerca e dalla separazione del mondo malato e deviante in tutte le sue forme (dai malati di cretinismo ai folli alle prostitute agli anarchici) – lavorerà incessantemente alla realizzazione di una grande mappa delle patologie e delle anomalie italiche; il secondo – anche lui medico, uomo politico della Sinistra Estrema e artefice del progetto di inchiesta agraria meglio noto con il nome del suo presidente Stefano Jacini – si batterà con tenacia per il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini, convinto che quella fosse la chiave di volta per il rinnovamento del Paese.
Un volgo disperso è un libro necessario. Che si apre con uno sguardo sulle campagne dell’Italia di oggi, dove sempre più di frequente tra vigneti e oliveti, tra agrumeti e campi di pomodoro, s’incontrano rumeni, senegalesi, nigeriani, pakistani e in cui non restano che poche tracce di quel mondo remoto. E si chiude, sospeso su una parola densa di significato: rimorso. «Un rimorso che non si riesce a cancellare».
- Massimo Bucciantini - Pubblicato sul Sole del 19/5/2019 -
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