O capitano mio capitano dove sei?
- di Michele Mari -
Esiste un coraggio dell'incoscienza, un coraggio della disperazione, un coraggio autodistruttivo, un coraggio compiaciuto, e ne esistono molti altri: fra tutti il meno spettacolare è il coraggio che nasce, più ancora che dal senso del dovere, dall'amore per le cose fatte "bene" da un punto di vista tecnico. Conrad, che di personaggi coraggiosi se ne intendeva, non fece mistero del sottile legame che corre fra precisione terminologica, perizia tecnica, onestà professionale e coraggio marinaresco; le stesse navi partecipano di questa dinamica, le navi oneste (la cui tecnica e nomenclatura veliera sono già una forma d'arte) e le navi disoneste come quell'abominevole "Ritz galleggiante" che era il Titanic, le navi che impongono una condotta coraggiosa e le navi che favoriscono l'ignavia e la viltà. Così, in occasione della seconda edizione dello Specchio del mare, poté affermare: «Questo libro è il miglior tributo che la mia devozione può offrire a tutto ciò che ha definitivamente formato il mio carattere e il mio destino: al mare imperituro, alle navi che non ci sono più, e agli uomini semplici che hanno vissuto il loro momento».
Fra questi «uomini semplici» non c'è dubbio si trovi il capitano Mac Whirr, il protagonista di Tifone. «Aveva una fisionomia», scrive Conrad, «che, considerata dal di fuori, era l'equivalente esatto del suo animo: non aveva particolari caratteristiche di risolutezza o di ottusità — anzi non aveva caratteristiche di nessun genere: era comune, inespressiva, tranquilla». Privo di fantasia, ordinato, meticoloso, Mac Whirr ha una nozione tutta tecnica del proprio lavoro, lungi da ogni sentimento d'avventura e di romanzo; sorta di Bartleby della navigazione, «trovava assai poche occasioni per parlare, perché i fatti possono parlare da soli con precisione assoluta». Agli occhi del suo Secondo un uomo simile annoia e deprime: « Se il mondo fosse stato pieno di uomini come Mac Whirr, senza dubbio la vita sarebbe apparsa insipida e mediocremente interessante »; anzi sembra che il mare stesso disdegni un confronto con lui che vada al di là del cabotaggio ordinario, finché Conrad non decide diversamente. L'apocalisse arriva improvvisa ( « qualcosa di fulmineo e di formidabile, simile allo scoppio repentino del vaso della collera. L'esplosione investì in pieno la nave lanciandole sopra una montagna d'acqua, come se una diga colossale fosse saltata in aria sopravvento » ), e come suole, isolando un uomo dall'altro, priva i marinai del loro coraggio: tutti tranne il capitano, che isolato in un certo senso è stato sempre, e che infatti anche ora reagisce con un borbottio di fastidio (in particolare è irritato dal fatto che un certo manuale non abbia adeguatamente descritto una tempesta come quella). Così, nel momento in cui tutto collassa e le voci di ufficiali e marinai si fanno sempre più concitate, è solo la tranquillità del capitano a garantire non solo la navigazione, ma anche il soccorso dei duecento cinesi chiusi nella stiva e altrimenti destinati all'annegamento. E alla fine, naturalmente, l'antieroico e anti-romanzesco Mac Whirr assurge alla grandezza letteraria per « un vago senso della convenienza di tutte le cose » . Il romanzo stesso si chiude senza tragedia, come Conrad — verrebbe da dire con un certo rimpianto — ribadisce nell'evocare la possibilità dell'affondamento (la nave giunge a destinazione « grigia d'incrostazioni saline fino alle formaggette degli alberi e alla cima del fumaiolo; quasi come se l'equipaggio l'avesse pescata dal fondo del mare e portata qui per ricevere il premio del salvataggio »).
Tifone è del 1903; trentacinque anni dopo, nel ' 38, Richard Hughes pubblicò In Hazard ( Nel pericolo). Esplicitando la propria ascendenza, il romanzo si apre con una dichiarazione di stampo conradiano: « C'è una differenza fondamentale tra il lavoro che si compie quotidianamente su un veliero e quello che si compie quotidianamente su una nave a vapore. Quest'ultimo non differisce molto da un lavoro di terraferma » . Proprio per questo, anche nell'era del vapore gli ufficiali devono compiere il proprio tirocinio sui velieri: « una questione di virtù », scrive Hughes, dove la parola virtù richiama quelle disposizioni e quegli affinamenti che connotano il vero uomo di mare, dall'amore per la propria nave e dalla capacità di ascoltarla come fosse una creatura viva all'insofferenza estetica ed etica insieme per tutto quello che è approssimativo, malfatto, disonesto. Educando e " iniziando ", l'esperienza veliera è l'unica profilassi contro quella boria tecnologica che ha implicito il proprio contrappasso, giacché « le navi d'oggi, essendosi rese autonome dalla forza umana, non possono più, in caso di emergenza, fare assegnamento su di essa » . Il Mac Whirr di Hughes si chiama Edwardes, e come il suo modello è un uomo ordinario, basso e grassottello, preciso fino alla pedanteria; anch'egli, soprattutto, ha bisogno di essere cimentato: « La maggior parte degli uomini si sente più debole nel pericolo. Eppure esistono alcuni uomini che dal pericolo traggono forza: le loro menti e i loro corpi possono dare il massimo solo sotto il suo stimolo. Il capitano era uno di questi » . Come Tifone, anche Nel pericolo si conclude senza grandezza tragica; la nave non affonda, ma con i motori e le pompe fuori uso, semiallagata, deve essere ingloriosamente trainata in porto. Ancora una volta la fine del viaggio è la fine del libro e la fine del coraggio: non si stenta a immaginare che, godendosi la pensione, Mac Whirr ed Edwardes nemmeno si ricorderanno del proprio eroismo, perché questo era stato solo un momentaneo regalo della tempesta.
- Michele Mari - Pubblicato su Repubblica del 2 luglio 2018 -
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